CAPITOLO IV

2328 Words
CAPITOLO IV Di ciò che accadde al nostro cavaliere quando uscì dall'osteria Stava spuntando l’alba, quando don Chisciotte uscì dall’osteria, contento e vispo, e tanto gioioso nel vedersi già armato cavaliere che il giubilo si diffondeva sino ai finimenti del suo cavallo. Ma, tornandogli in mente i consigli dell’oste, ossia di fornirsi quantomeno delle cose necessarie, soprattutto di danari e di biancherie, decise di tornare a casa per equipaggiarsi di quelle e di uno scudiere, scegliendo di valersi, a tale scopo, di un contadino suo vicino, povero e con famiglia a carico , ma, secondo lui, perfetto per quell’incarico. Con questa intenzione, dunque, avviò Ronzinante verso il proprio paese: la buona bestia, come se avesse già fiutato la stalla, si mise ad andare così rapidamente che pareva non toccare la terra con gli zoccoli. Non aveva ancora fatto molto cammino, quando dal folto di un bosco, che stava sulla destra, gli parve di sentire delle voci: come di qualcuno che si lamentava . Non appena le ebbe sentite disse: «Sia lode alla sorte che mi concede così presto l’occasione di esercitare i doveri della mia professione e di cogliere il frutto dei buoni miei desideri. Senza dubbio, tali voci partono da qualcuno, o da qualcuna, che ha bisogno del mio soccorso e del mio favore». Pertanto, volgendo le redini, guidò Ronzinante verso quella parte da cui gli pareva che venissero le voci e, inoltratosi di pochi passi nel bosco, vide una cavalla legata a una quercia, e un ragazzo di circa quindici anni, che, spogliato nudo dal mezzo busto in su e legato a un grande albero, emetteva proprio quei lamenti da lui sentiti. E, in effetti, ne aveva motivo, perché un vigoroso contadino lo stava percuotendo con una cintura di cuoio, e accompagnava ogni colpo con un rimprovero e con un consiglio, dicendogli: «Modera la tua lingua, e non ti perdere in sciocchezze ». Il ragazzo rispondeva: “Non lo farò più, mio signore, ve lo giuro per la passione di nostro Signore, non lo farò più, e vi prometto che, d’ora innanzi, avrò sempre gran cura del vostro bestiame». Don Chisciotte, a tal vista, gridò con voce sdegnata: «Scortese cavaliere! È gran vergogna prendersela con chi non è in grado di difendersi; monta sul tuo cavallo, prendi la lancia (ce n’era una appoggiata alla quercia proprio dov’era legata la cavalla) ch é io ti farò conoscere qual codardia sia quella che stai commettendo». Il contadino, che si vide addosso quella figura carica di armi e che già gli faceva balenare quasi la lancia sulla faccia, si considerò già morto, e gli rispose con parole sommesse: «Signor cavaliere, questo ragazzo che sto castigando è un mio garzone, incaricato di guardare un branco di pecore che tengo in questi dintorni; ma è a tal punto disattento che ne viene perduta una ogni giorno; e quando io lo punisco della sua trascurataggine o della sua furfanteria, egli mi calunnia dicendo che così lo tratto per avarizia e per defraudarlo del suo salario: ma giuro al cielo e sull’anima mia che egli mente». «Mente dinanzi a me? Malvagio villano!» disse don Chisciotte. «Per il sole che ci illumina, prima che ti trapassi da parte a parte con questa lancia: pagalo sul fatto e senza osare replicare, o giuro per Dio che ti polverizzo qui sui due piedi! Scioglilo immediatamente!» Il contadino chinò la testa e senza proferir parole sciolse il ragazzo, a cui don Chisciotte domandò quanto gli doveva il suo padrone; e questi gli rispose che gli era debitore di nove mesi in ragione di sette reali per mese. Don Chisciotte fece il conto, e trovò che il credito del ragazzo ammontava a settantatré reali; disse, allora, al villano che glieli sborsasse al momento se non voleva morire per la sua mala fede. Il contadino, tutto impaurito, rispose, allora, che, data la situazione in cui si trovava e per il giuramento già fatto (e si noti che, in realtà, non aveva ancora giurato), non ammontava a tanto quel credito, dovendosi scalare da esso tre paia di scarpe che egli stesso aveva dato al garzone, e un reale da lui speso per fargli fare due salassi mentre era ammalato. «Tutto questo», soggiunse don Chisciotte, «va bene, ma la spesa delle scarpe e dei salassi servirà a compensarlo delle frustate che senza sua colpa gli hai date; che se egli ruppe il cuoio delle scarpe che gli pagasti, tu gli hai levata la pelle del corpo; e se hai pagato un barbiere che gli cavasse sangue quando era infermo, tu glielo cavasti poi sano, però egli non ti è debitore di nulla». «Il male è, signor cavaliere, che non ho danari con me», rispose il villano; «ma se Andrea verrà a casa mia, gli pagherò tutto, un reale sopra l’altro». «Io andarmene con lui?» disse il giovine. «Sarei pure un pazzo! Neppure per sogno! se mi avesse da solo, mi scorticherebbe come san Bartolomeo». «Non lo farà, no», replicò don Chisciotte; «basta che io glielo comandi ed egli mi obbedirà, e basterà che lo giuri sulla legge della cavalleria di cui è insignito, io lo lascerò andar libero, e tu verrai pagato». «Vossignoria badi bene a quello che dice, perché il mio padrone non è affatto un cavaliere, né ha ricevuto mai alcun ordine di cavalleria, ma è Giovanni Gonna, un ricco, abitante di Quintanar». «Non importa», rispose don Chisciotte; «anche i Gonna possono essere cavalieri; e, poi, ciascuno è figlio delle proprie opere ». «E ciò è incontrastabile», soggiunse Andrea; «Ma questo mio padrone di quali opere è figlio, negando, com’egli fa, il guadagno delle mie fatiche e dei miei sudori?» «Non mi rifiuto di soddisfarti, no, fratello Andrea, ripigliò il contadino; compiaciti di seguirmi, e ti giuro, per tutti gli ordini di cavalleria ch’esistono al mondo, di pagarti, come ho proposto, e profumatamente, reale sopra reale». «Non servono profumi», disse don Chisciotte, «pagagli i reali che gli devi, e ciò mi basta; e bada bene di mantenere quanto hai giurato, perché in caso diverso, ti giuro in fede del giuramento medesimo, tornerò per punirti, e saprò ben ritrovarti, quand’anche ti nascondessi sottoterra meglio di una lucertola. E se vuoi sapere chi sia colui che te lo comanda, affinché più ti prema il dovere dell’obbedienza, sappi che io sono il valoroso don Chisciotte della Mancia, disfacitore dei torti e punitore dei soprusi . Addio, non ti cada di mente la più rigorosa esecuzione di quanto hai promesso e giurato sotto pena del pronunciato castigo». Ciò detto, spronò Ronzinante, e in breve scomparve dalla loro vista. Il contadino lo seguì con gli occhi e, quando fu uscito dal bosco di modo che più non lo vedesse , si volse di nuovo al suo garzone Andrea, e gli disse: «Venite, figlio mio, ché voglio pagarvi ciò che vi debbo, e come mi ha imposto quel disfacitore di torti». «Oh quanto farà bene vossignoria ad obbedire i comandi di quel buon cavaliere, a cui auguro mille anni di vita, perché, in fede mia, egli è tale da tornare, e da farvi mantenere la parola se vi saltasse in capo di venirle meno». «Ed io giuro di nuovo di volergli obbedire», disse il villano; «ma, per l’amore che ti porto, voglio accrescere il debito mio verso di te, e pagarti, poi, una somma maggiore». E, così, presolo per un braccio, lo legò di nuovo alla quercia, e lo caricò di tante frustate, che lo lasciò quasi morto. «Chiama, signor Andrea mio», diceva allora il contadino, «chiama il disfacitore dei torti e vedrai se potrà disfar questo: benché non mi pare di averlo compiuto, e mi vien proprio voglia di scorticarti vivo come temevi». All’ultimo non di meno lo slegò, e gli diede licenza d’andare in cerca del suo giudice, affinché eseguisse la sentenza da lui proferita. Andrea partì di là in lacrime , giurando che sarebbe andato in cerca del valoroso don Chisciotte della Mancia per informarlo a puntino di ciò ch’era realmente successo, affinché gliela facesse pagar molto cara; ma, alla fine, il giovine se ne andò piangendo, e il padrone ne rise di vero gusto. E così disfece quel torto il valoroso don Chisciotte, il quale, soddisfattissimo dell’avvenuto, e sembrandogli d’aver dato felicissimo cominciamento al suo operato da cavaliere , andava camminando verso la propria terra, pienamente contento di sé; e diceva, a bassa voce: «A ben dire ti puoi chiamare fortunata rispetto a quante vivono sulla terra, o sopra le belle, bella Dulcinea del Toboso, dal momento che ti è toccato in sorte di avere soggetto a te e ai tuoi voleri un così valoroso e celebre cavaliere com’è e sarà don Chisciotte della Mancia; il quale (e ne vola già fama per il mondo) ha ricevuto l’ordine di cavalleria, ed oggi ha già posto fine al più gran torto che mai sia stato immaginato dalla giustizia, e compiuto dalla crudeltà! Oggi ho io tolta di mano la frusta ad un nemico spietato che senza alcun motivo picchiava un fragile fanciullo!». Intanto, giunse a un quadrivio, e, subito, gli vennero in mente quei crocicchi dove i cavalieri erranti erano soliti pensare per quale via dovessero proseguire. Per imitarli, stette un poco fermo, ma poi , dopo aver ben riflettuto, lasciò andare la briglia a Ronzinante, abbandonando la sua alla volontà del cavallo, che, subito, si indirizzò alla volta della propria stalla. Compite due miglia all’incirca, don Chisciotte scoprì una gran folla di gente: erano dei mercanti di Toledo (come si seppe poi), che andavano a Murcia per comperare la seta. Erano sei, ognuno col suo parasole; a loro volta, avevano dietro quattro servitori a cavallo e tre vetturali a piedi. Non appena li vide, don Chisciotte si immaginò di avere tra le mani una nuova avventura e, voglioso com’era d’imitare pienamente i casi letti nei libri, volle cogliere quella buona occasione per applicarne un altro che sembrava perfetto per quella situazione. Con bel garbo, dunque, si strinse bene nelle staffe, impugnò la lancia, si avvicinò lo scudo al petto e, piantatosi nel mezzo della strada, stette in attesa che quei cavalieri erranti, com’egli li giudicava, arrivassero. E quando gli si furono avvicinati , alzò la voce, e con grande coraggio cominciò a dire: «Fermi tutti, nessuno si muova, se prima non confessa che non vi è nell’universo una donzella più bella dell’imperatrice della Mancia, dell’ineguagliabile Dulcinea del Toboso». Al suono di queste parole ed alla vista della strana figura che le proferiva, quei mercanti si fermarono, e subito si accorsero della loro insensatezza, ma vollero star a vedere in cosa consistesse quell’affermazione Perciò, uno di loro, il più spiritoso, gli rispose: «Signor cavaliere, noi non conosciamo questa celebre signora da voi menzionata; fate che la vediamo e, se ella porterà realmente il fregio di questa singolare bellezza di cui voi le date vanto, ben volentieri e senza opposizione di sorta confesseremo la verità che a noi richiedete». «Se io ve la facessi vedere quale merito avreste voi nel confessare una verità così manifesta? Ciò che importa è che, senza vederla, abbiate a confessare, a giurare, ad affermare, a sostenere; e nel caso in cui lo rifiutaste, vi sfiderò in battaglia, quale gente vile e superba. Avanzatevi uno ad uno, come esige l’ordine di cavalleria, o unitevi tutti a combattermi in una volta, com’è triste usanza dei vostri pari, dal momento che qui vi attendo a piede fermo, né ho alcun dubbio di vincervi, sostenuto, come sono, dalla ragione che mi avvalora». «Signor cavaliere», rispose uno dei mercanti, «vi supplico a nome di tutti questi principi che vedete, che non vogliate costringerci ad aggravare le nostre coscienze confessando una cosa da noi non veduta né intesa; e tanto maggiormente ve ne preghiamo, quanto che ciò tornerebbe a pregiudizio delle imperatrici e regine dell’Alcarria e dell’Estremadura: o almeno la signoria vostra si degni di farci vedere il ritratto di cotale signora; anche se fosse piccolo come un granellino, noi dal filo di questo poco, raccogliendo il gomitolo della sua grande bellezza, saremo con questo soddisfatti e tranquilli, e la signoria vostra contenta e appagata; e di più, quand’anche scorgessimo, dal ritratto, che fosse guercia da un occhio, e dall’altro le colasse zolfo o cinabro, con tutto ciò, per mostrarci compiacenti a vossignoria, diremmo tutto ciò che potrebbe tornarle a genio». «Non le cola, canaglia infame», rispose don Chisciotte avvampante di collera, «non le cola altro che ambra e zibetto di prima qualità; e non è né guercia, né gobba, anzi è più dritta che non è un fuso di Guadarrama; ma voi pagherete il fio della grave bestemmia con cui oltraggiaste una tanta prodigiosa bellezza quant’è quella della mia signora». Nel proferire queste parole, abbassò la lancia, portandola con tanta furia contro colui che aveva parlato, che mal sarebbe stato per lui se Ronzinante non fosse inciampato, e caduto a mezza corsa. Ronzinante precipitò, e il suo padrone rotolò per buona parte della campagna, né poté rialzarsi mai, per quanto si sforzasse, tanto impaccio gli davano la lancia, lo scudo, gli sproni e la celata, uniti al col peso della sua vecchia armatura. E mentre cercava di izzarsi, ma senza riuscirvi, gridava: «Non fuggite, o codardi, o schiavi! Attendetemi, ché non per colpa mia, ma del cavallo, sono qui disteso». Uno di quei vetturali, che doveva esser un uomo di poco buon cuore, nel sentire le arroganti parole di quel povero caduto, non poté tollerarle senza fargli provare fino alle costole il suo risentimento; e perciò avvicinatosi a lui, prese la lancia, e fattala in pezzi, con uno di questi cominciò a battere tanto duramente il nostro don Chisciotte, che, a dispetto e a offesa delle sue armi, lo macinò come grano al mulino. Gli altri gli gridavano ad alta voce di desistere, di lasciarlo; ma lui era così avvelenato che non si tolse da quel gioco finché non ebbe soddisfatta la collera; e, raccolti gli altri pezzi della lancia, non cessò se prima non li ebbe ridotti a schegge sopra l’infelice caduto. A fronte di tanta tempesta di percosse che gli piovevano addosso, don Chisciotte, invece di tacere, minacciava il cielo e la terra e quei “malandrini”, come egli ora li chiamava. Si stancò finalmente il vetturale, e tutti proseguirono il loro cammino, avendo di che occuparsi nel raccontare la bastonatura del pover’uomo, lasciato malconcio e fracassato. Egli, quando si vide solo, tornò a tentare di rialzarsi; ma se questo non gli era stato possibile mentre era sano e gagliardo, come riuscirvi allora pestato a quel modo? E nondimeno si reputava felice, parendogli che quella fosse una legittima sventura da cavaliere errante, ed attribuendola a sola colpa del suo cavallo: ma, ad ogni modo, non poteva izzarsi in piedi, tanto il corpo era fracassato dalle percosse ricevute!
Free reading for new users
Scan code to download app
Facebookexpand_more
  • author-avatar
    Writer
  • chap_listContents
  • likeADD