Juanito Flores-4

2010 Words
Muovermi era diventato molto più facile, ogni sera mi facevo massaggiare e poi fasciare, con le bacche scure nascoste sotto le bende. La stanza d’albergo era oggetto delle assidue visite di numerose, grasse lucertole di un ributtante color carne; quando si apriva la porta correvano veloci da tutte le parti. L’impatto con quel caldo umido assomigliava sempre allo scontro con un muro, alla fine ho preferito spegnere l’aria condizionata per attenuare la differenza tra dentro e fuori. Ho cominciato a non dormire più la notte. Questa storia ancora continua, mi chiedo come finirà. È stata una mia decisione, che ora mi preoccupa. Ho paura di svegliarmi al mattino e non sentirmi più così leggero e mio. Questo corpo sbattuto, acciambellato, stiracchiato e curato da uno sconosciuto straniero, è stato come rivitalizzato dalle abili manovre di una specie di tata analfabeta e contadina, che vive in un misero villaggio di capanne e palafitte. Potrebbe essere tutto un sogno, oppure un’isteria. Potrebbe essere qualcosa che accade in un’altra dimensione della coscienza, come diceva Roberto, il liutaio di Bologna. Una dimensione nella quale le simbologie di malattia e cura si reificano fino a raggiungere e modificare anche lo stato fisico dell’organismo. Potrebbe essere che ho letto troppo in materia, e quindi non so stare tranquillo. Ma come potrei? In passato anche solo un decimo delle cose che mi ha fatto Juanito erano bastate per farmi sanguinare, pur se eseguite da qualificati medici e fisioterapisti. E allora che cosa è cambiato? Le onde dell’oceano erano imponenti, anche quando il mare era calmo. Ho chiesto di essere aiutato a fare un bagno, ma si sono tutti rifiutati dicendo che era troppo pericoloso. Allora ho cercato di saziarmi con la contemplazione di quella distesa che mostrava la smisurata potenza della sua vastità. Sulla spiaggia vendevano una grande quantità di conchiglie, tutte molto grandi e diverse nella forma. Con la madreperla riescono a fare oggetti di tutti i tipi, io ho comprato una lampada. D’inverno, a casa, accendendola, potrò forse ricordare tutto più facilmente. La seconda sera, come se non fossero sufficienti i fastidi delle lucertole, sono pure arrivati i Marines americani. Eravamo al bar dell’Hotel insieme con Tiziana che stava parlando male, in fila, di tutti i componenti del nostro gruppo. Riusciva a trovare difetti anche nel comportamento del signore lombardo e della signora toscana. All’improvviso il portiere è uscito da dietro il bancone della Reception e si è diretto verso di noi: «Prego spostare per favore, arriva soldati». Ci ha fatto segno di sederci sulle poltrone nella parte opposta dell’entrata, abbiamo ubbidito un poco interdetti. Tiziana ha cominciato a protestare, ma comunque si spostava pure lei: «Ma anvedi che robba, e chi sse ne frega dei sordati!» Poco dopo, preceduta da un trambusto di macchine rombanti, c’è stata l’entrata di un quartetto di giganti in tuta mimetica ed enormi scarponi. Gridavano, sghignazzavano sguaiatamente, spostavano oggetti e poltrone da tutte le parti e davano ordini perentori all’omino del bar. Tre erano di colore, obesi, enormi, il quarto era un bianco segaligno con la testa rasata e un naso sottile come la bocca, quasi inesistente. Per fortuna si sono fermati solo il tempo per bere un paio di bicchieri; quando se ne sono andati hanno lasciato un silenzio totale e anche uno strano odore di alcool misto a carburante. Tutto il gruppo, nei due giorni che io ho passato all’Hotel, si è diretto verso la zona di Bagujo, in visita presso un guaritore della stessa città, e una guaritrice di un paese vicino. Lui si fa chiamare Dottor Smith; a me bastava solo questo per esser certo che era meglio non andarci. Tiziana è partita con loro, ma pare che non si sia fatta visitare, al suo ritorno è subito corsa in camera mia per raccontarmi quanto fossero tutti ridicoli: «Domani torneremo da Flores, non vedo l’ora. Me pare che t’ha ddato ‘na bbella rotta d’ossa, e Ggentì?!» Mi ha detto che a Roma si occupa di antiquariato, ma ogni tanto dice pure che tra le sue attività c’è anche il cinema e il turismo. In fondo, nella sua inaffidabilità, è una persona vitale, almeno quando è nella fase euforica. Alessio, dalla cittadina di montagna, si è riportato un paio di fumetti di SuperMan scritti in inglese. Quella sera a cena me li ha fatti vedere con entusiasmo. Si muove male. Ogni tanto, nel bel mezzo di un normale movimento, si ferma e fa una smorfia. In questo gruppo, tra queste persone, la vita di tutti i giorni, i gesti e le aspettative più tradizionali, si mescolano continuamente con la morte, che appare all’improvviso, tra una parola e l’altra, dentro un momento o le abitudini di una sera qualsiasi. Stanno per servire un pasto, poco meno di tre ore fa ne hanno distribuito un altro, è impossibile capire se si tratti di colazione, pranzo o cena, tanto più per me, che non ci tengo affatto a capirlo. Si parte più o meno alla stessa ora di quando si arriva, dentro al tubo volante però le ore si sentono tutte, e pesano. Il cibo sembra fatto di plastica. I sapori, a dispetto delle varie forme, ingredienti e colori diversi, non esistono. Si percepisce soltanto un unico senso lieve di dolce e salato. Alessio mangia in maniera smodata. Quando si butta sul cibo ansimando, come se vi cercasse una impossibile salvezza nascosta nel piacere, provo per lui una compassione struggente, insostenibile. La seconda visita è arrivata più tardi del previsto, eravamo tutti stanchi per la calura insopportabile che ci ha concesso piccoli riposi solo all’alba. Molti dicevano di essersi addormentati non prima delle cinque o sei. Attilio e Renzo non sono partiti con noi, e non mi è sembrato di veder partire neanche il signore lombardo. Nel nostro taxi eravamo i soliti, io e Alessio davanti, nell’altro Tiziana con i coniugi toscani. Molto probabilmente la romana ha colto l’occasione per sparlare anche di me e dei miei. Le visite che Flores ha concesso a Alessio e al marito della signora Lucia sono state brevi. Nella capanna c’erano altri gruppi venuti da chissà dove, dall’aspetto sembravano americani. Ha chiesto che si togliessero soltanto la camicia. Li ha toccati torcendoli, li ha fatti distendere sul tavolaccio premendo le mani sul ventre. Poi basta. Il padre di Alessio si è avvicinato troppo presto. Fa il commerciante, e questo è fin troppo evidente. Parla con tutti, si infila in ogni discussione intervenendo spesso a sproposito. Ha modi affettati e porta sotto il braccio una specie di piccolo borsello dal quale non si separa mai. Ha chiesto a Juanito informazioni sulle condizioni del figlio come si farebbe con l’impiegato di uno sportello delle Poste. Felipe. sottovoce, ha tradotto: «Tumore delle ossa. No buono, no fare». Alessio ha sentito e ha spalancato gli occhi guardando nella mia direzione. Gli ho fatto cenno di sedersi vicino a me. Ho cercato di scherzare un pò sulla paura per la mia prossima visita: «Vedrai che stavolta tirerà fuori un coltello da sotto il tavolo e mi farà a pezzi, poi distribuirà la carne ai maiali neri che stanno qui fuori!» Per fortuna ha riso, poi ha cominciato a parlarmi di fumetti e pallacanestro. Ho visto Flores scuotere la testa anche davanti alla signora toscana, mentre il marito si rivestiva lentamente, con lo sguardo nel vuoto. La madre non si è vista, però c’erano altre donne anziane sedute sulle panche in fondo che parlavano e pregavano, sbiascicando nenie ossessive. Ho chiuso gli occhi cercando di trattenere il pianto che mi stava di nuovo salendo in petto: “dove sono, e che senso ha tutto questo?” Prima di visitare Tiziana c’è stata la visita a una giovane donna del villaggio. Non so perché ma la cosa mi ha tranquillizzato, mi ha fatto piacere. Ho pensato che quella specie di Liturgia Primitiva non stesse li a bella posta soltanto per i turisti occidentali, facoltosi e disperati. Felipe ha percepito qualcosa riguardante la sterilità. Juanito le premeva le mani sul ventre, rideva e parlava molto volentieri con quella ragazza bruna, davvero carina. Tiziana è svenuta, o almeno così è sembrato. Lui come al solito rideva. L’ha sorretta divertito e poi l’ha distesa sul tavolo: le mani sempre ferme sulla testa, anche se in questo secondo trattamento le mobilizzava ampiamente pure il collo. Il cuore cominciava a battermi forte e veloce, forse stava per toccare a me. Invece si è acceso una delle sue puzzolenti sigarette e se n’è andato via. Allora ho capito che se non mi avesse visitato, se mi avesse ignorato, non sarei riuscito a sopportarlo, anche se avevo una grande paura dei danni che avrebbe potuto procurarmi mettendomi le mani addosso. Nel finestrino alla mia destra vedo il profilo dell’ala che vibra, sembra fatta di cartapesta. Ho di nuovo sete. Quella mezz’ora d’attesa è stata veramente difficile da affrontare. Ho pensato di andarmene, ho chiesto inutilmente acqua, sono uscito dalla capanna e ho pensato addirittura di presentarmi a casa sua, forse l’avrei trovato rilassato sulla Poltrona Frau a fiori. È tornato in canottiera, prima portava una camicia celeste. Gli occhi stretti, quasi chiusi: «Ericu! Come on Ericu! Okay!» «No, non ci vado, non mi sento bene, un’altra volta, un’altra volta. Ci torno domani!» Mi guardavo intorno in cerca di solidarietà, poi ho sentito la sua voce d’appresso, mi ha preso la mano all’altezza del polso cominciando a esercitare strane pressioni. «Trankilo Ericu, trankilo!» «Che mi vuoi fare, my blood do not stop, do not stop! Dai Juanito lasciami stare, ti prego!» Eravamo già io e lui da soli, tutto il resto spariva velocemente, come risucchiato via da una vertigine di tempo estraneo, come una folata di vento entrata da poco nella capanna polverosa. “Se desideravo così tanto la sua visita, perché adesso cerco di oppormi?” Mi ha fatto spogliare, completamente, ho potuto tenere solo le mutande: «Indi tisamaari naia nosarili mo!» Ancora quella frase, o giù di lì, così come potevo capirla io di Montegiorgio; mi stava nuovamente dicendo che non dovevo vergognarmi. “La pietà di Dagupan” in mostra, gratuita. Un povero Cristo Marchigiano, sopra un’asse di legno, davanti a una piccola ma complessa rappresentanza del mondo, senza nemmeno più il conforto degli abiti. Quella volta niente massaggi, almeno all’inizio. Torsioni, torsioni estreme della schiena, delle anche, di gambe, braccia e collo. Leve e contro-leve fino a far schioccare le ossa. Lo scienziato analfabeta faceva suonare il mio corpo come se fosse uno strumento a percussione. Cancellava le posizioni del dolore, assunte in anni e anni di sconfitta immobilità, disegnando e modellando una creta carnale forse ancora viva, nei nuovi atteggiamenti del risveglio. Il letargo delle membra rassegnate al sonno, veniva squarciato dalle mani e dalle braccia di quel contadino. Piangevo, piangevo rassegnato, cercando di non farmi sentire. Rassegnato al peggio. Stavolta non avrei potuto salvarmi da emartri ed ematomi gravissimi; forse quello era l’inizio di una tragedia che avrebbe potuto avere riscontro anche sulla stampa. Un emofilico in gravi condizioni a causa dell’intervento di un cosiddetto guaritore filippino. Che differenza tra il suo sorriso e i miei pensieri! Che differenza tra i suoi gesti, la sua volontà e i decenni passati a misurare e limitare movimenti e slanci! A ogni colpo dello stregone, con in bocca la sigaretta alla menta, si sgretolavano le incrostazioni di tutti gli “stai attento”, di tutti i “non muoverti! ” Mia madre piangeva, mio padre gesticolava con Felipe come se chiedesse il suo intervento per interrompere quella follia. Ma chi poteva e voleva veramente dire basta? Io non volevo farlo e di questo me ne dolevo fino alle lacrime. Non potevo essere solidale col buon senso dei miei, non era quello il momento e il luogo per la prudenza, per la saggezza, per la moderazione. I miei vecchi, ancora guidati da questi segnali antichi, non potevano accorgersi che in quella capanna stava accadendo qualcosa di ancora più antico, qualcosa di nuovo perché primitivo. Piangevo di me che mi affidavo alla forza di Uinito, l’avrei lasciato fare, ubbidendo alle palafitte e disubbidendo alla ragione.
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