Io, Alexis, Charlie e Mery (già in iperventilazione), davanti alla porta di casa mia, tutte in fila come soldatini.
Justin arrivò con la sua Mercedes nera, finestrino giù, occhiali da sole che scivolano piano sulla punta del naso. Squadrò Mery da capo a piedi – lei diventò color pomodoro maturo – poi, il biondo, spostò di nuovo lo sguardo su di me, con quell’aria da “ti devo un favore eterno ma per ora fingo di essere seccato”. Io scoppiai a ridere. Mery, ancora in corto circuito, mi rifilò una gomitata nelle costole.
Justin ruppe il silenzio con il suo solito sorrisetto, «Salite o dobbiamo fare la foto di gruppo prima?», salimmo e la Mercedes scivolò via dal quartiere con quel ronzio basso e profondo che hanno solo le auto che costano più di un appartamento. Presentazione velocissima tra il mio amico e la mia vicina, e via verso lo studio.
Justin guidava con una mano sola sul volante, l’altra appoggiata pigramente sul bracciolo, le dita che tamburellavano il ritmo di una canzone che aveva in testa da giorni.
Nel tragitto si parlò di tutto e di niente: musica, serie tv, il cane di Charlie che odia gli uomini… il classico caos che nasce quando metti in una macchina un popstar, una fan in estasi e tre amiche che cercano di non sembrare tre amiche.
Missione compiuta.
Per ora.
Io ero seduta davanti, ovviamente. Posto d’onore e di controllo. Dietro, Charlie e Alexis si erano strategicamente piazzate ai lati, lasciando Mery incastrata al centro come un sandwich umano.
Silenzio dei primi dieci secondi: imbarazzo puro.
Poi Alexis, che non sa stare zitta più di tre respiri, sparò la prima cannonata: «Allora, Justin… dimmi la verità: quante fan ti hanno già chiesto di sposarle questa settimana?», lui rise, una risata bassa, quella che parte dal petto. «Cinquantadue. Ma una è una mia prozia, quindi non so se conta».
Guardai Mery nello specchietto: aveva le mani intrecciate in grembo così forte che le nocche erano bianche.
«Mery, respira», le disse Alexis sottovoce.
«Sto respirando», sussurrò lei, «sto solo… respirando male.»
Justin la guardò di nuovo dallo specchietto retrovisore. «Tranquilla, non mordo. A meno che non sia martedì e ci sia la luna piena.», Mery diventò ancora più rossa. Pensai seriamente che stesse per svenire. Mia sorella, sempre la più pratica, tirò fuori il telefono. «Ragazzi, selfie di gruppoooo»
«Assolutamente no», disse Justin, ma già sorrideva.
«Dai, uno solo», insistetti io, «cosi lo uso per ricattarvi fino al 2045.»
Scattammo la foto. Mery aveva gli occhi a cuoricino così evidenti che sembrava un filtro di i********:. «Allora», ripresi io, girandomi verso il sedile posteriore, «Mery fa la stylist. Disegna abiti. È bravissima.»
«Davvero?» Justin alzò un sopracciglio interessato. «Che tipo di roba?»
Mery aprì la bocca, non uscì niente. Charlie le diede una gomitata. «C-cose… cose un po’ street ma eleganti», balbettò alla fine. «Tipo… giacche oversize con dettagli in pizzo. Cose così.» continuò, «Mi piace», disse lui, annuendo lentamente, «Mi serve qualcuno che mi tolga da questo loop di felpe nere. Sto diventando monotono.»
Silenzio.
Poi Mery, con un filo di voce: «Io… potrei disegnarti qualcosa.», Justin la guardò, serio per mezzo secondo. «Affare fatto. Ma solo se mi prometti di non metterci pizzo rosa shocking.» , «Promesso», rispose lei, e per la prima volta sorrise davvero.
Charlie si sporse in avanti. «Aspetta, quindi stiamo assistendo alla nascita di una collaborazione moda oppure di un flirt? Perché devo sapere come regolarmi con i popcorn.» Ridemmo tutti. Persino Mery. Justin mise la freccia, imboccò il viale che portava allo studio. «Sapete che c’è?» disse, abbassando ancora un po’ la musica. «Oggi registriamo una traccia nuova, mi sento inspirato da Mery». La mia vicina si girò verso di me con gli occhi spalancati e io le feci l’occhiolino.
Missione non solo compiuta.
Missione appena iniziata.
Entravo in quello studio da anni, eppure ogni volta era come la prima: l’aria aveva quel profumo di legno appena lucidato e note calde di vaniglia che arrivava dai diffusori nascosti, le luci calde si riflettevano sulle pareti nere opache e sui vetri insonorizzati, e da qualche sala filtrava una melodia lenta, quasi ipnotica. Mi sembrava sempre di varcare la soglia di un altro pianeta.
«Ragazzi, vado a prendere un caffè e vi raggiungo,» dissi, “noi andiamo alla ricerca di Louis» urlò invece mia sorella, tirando Charlie per il braccio.
Lasciammo Justin e Mery da soli nella sala di registrazione principale. Lanciai un’ultima occhiata: lui le stava mostrando i pulsanti della console, lei annuiva come se le stesse rivelando i segreti dell’universo. Perfetto.
Camminai spedita verso il corridoio dei distributori. Qui anche il caffè era un’altra categoria: intenso, vellutato, niente a che fare con la brodaglia delle macchinette normali. Inserii le monete, premetti il tasto, presi il bicchierino bollente…
E mi girai di scatto.