Capitolo I-2

2809 Words
Lo sconosciuto lo guardò ancora per un attimo con un lieve sorriso, poi si ritirò dalla finestra, uscì lentamente dall’albergo e si piantò a due passi da D’Artagnan, in faccia al cavallo. Il suo contegno tranquillo e l’espressione canzonatoria del suo volto avevano raddoppiata l’allegria di coloro ai quali stava parlando e che erano rimasti alla finestra. D’Artagnan vedendolo arrivare fece l’atto di levare la spada dal fodero. “Decisamente, questo cavallo è, o meglio è stato nella sua gioventù, giallo-oro” riprese lo sconosciuto continuando le osservazioni cominciate e rivolgendosi agli ascoltatori che stavano alla finestra, con l’aria di non accorgersi dell’irritazione di D’Artagnan che purtuttavia si rizzava fra lui e loro. “Un colore assai noto in botanica, ma fino ad ora rarissimo nei cavalli.” “Qualcuno che ride del cavallo, non oserebbe ridere del padrone!” gridò con furia l’emulo di Tréville. “Io non rido spesso, signore” rispose lo sconosciuto “e potete vederlo voi stesso dall’espressione del mio viso; ma tuttavia ci tengo a conservare il privilegio di ridere quando mi pare e piace.” “Ed io” ribatté D’Artagnan “non voglio che si rida quando ciò mi spiace!” “Davvero, signore?” continuò lo sconosciuto più calmo mai. “È giustissimo!” E girando sui tacchi fece per rientrare nell’albergo passando dalla porta grande sotto la quale D’Artagnan aveva notato, arrivando, un cavallo sellato. Ma D’Artagnan non era il tipo da lasciare andare così un uomo che aveva avuto l’insolenza di burlarsi di lui. Sguainò completamente la spada e si diede a inseguirlo, gridando: “Voltatevi, voltatevi, signor beffatore, affinché non vi colpisca di dietro!” “Colpire me!” disse l’altro rigirandosi sui tacchi e guardando il giovane con una meraviglia pari al disprezzo. “Evvia, mio caro, voi siete pazzo!” Poi sottovoce e come parlando a se stesso: “Peccato!” continuò. “Sarebbe stata una ottima recluta per Sua Maestà che cerca per mare e per terra dei valorosi da far entrare nei suoi moschettieri.” Non aveva ancora finito di parlare, che D’Artagnan gli allungò un così furioso colpo di punta che, probabilmente, se quel signore non fosse stato pronto a saltare indietro, avrebbe scherzato per l’ultima volta. Lo sconosciuto si accorse allora che la cosa andava più in là della burla, sfoderò la spada, salutò il suo avversario gravemente e si mise in guardia. Ma nello stesso tempo i due ascoltatori della finestra, insieme con l’oste, si lanciarono su D’Artagnan percuotendolo violentemente con bastoni, palette e molle da fuoco. Ciò fece una diversione così rapida e completa all’attacco, che l’avversario di D’Artagnan, mentre questi si volgeva per far fronte a quella gragnuola di colpi, ringuainò con la stessa precisione la spada, e da attore che stava per divenire, ridivenne spettatore del combattimento, compito che assolvette con la sua ordinaria impassibilità, non senza tuttavia borbottare: “Maledetti siano i Guasconi! Rimettetelo sul suo cavallo arancione e che se ne vada!” “Non prima di averti ucciso, vigliacco!” gridò D’Artagnan, tenendo testa il meglio che poteva e senza arretrare d’un passo ai suoi tre assalitori che lo tempestavano di colpi. “Ancora una guasconata” mormorò il gentiluomo. “Parola d’onore, questi Guasconi sono incorreggibili! Continuate dunque la danza, visto che lo vuole assolutamente. Quando sarà stanco, dirà che ne ha abbastanza.” Ma lo sconosciuto non sapeva con che razza di testardo avesse a che fare; D’Artagnan non era uomo da domandare grazia. Il combattimento continuò dunque per qualche secondo ancora; infine D’Artagnan, stanco morto lasciò cadere la spada che un colpo di bastone aveva spezzata. Un altro colpo, che lo ferì alla fronte, lo gettò quasi nello stesso tempo al suolo tutto sanguinante e pressoché svenuto. Fu in questo momento che da tutte le parti si accorse sul luogo della scena. L’oste, temendo lo scandalo, sollevò il ferito e con l’aiuto dei suoi garzoni lo portò in cucina dove gli venne apprestata qualche cura. Quanto al gentiluomo, egli si era rimesso tranquillamente alla finestra e guardava con una certa irritazione tutta quella folla che, rimanendo lì, sembrava provocare in lui una viva contrarietà. “Ebbene, come va questo arrabbiato?” riprese, voltandosi al rumore della porta che si apriva e indirizzandosi all’oste che veniva a informarsi della sua salute. “Vostra Eccellenza è sana e salva?” chiese l’oste. “Perfettamente sano e salvo, caro oste, e sono io che vi chiedo che cosa ne è stato del nostro giovanotto.” “Va meglio” disse l’oste “è completamente svenuto.” “Davvero?” fece il gentiluomo. “Ma prima di svenire ha riunito tutte le sue forze per chiamarvi e sfidarvi a gran voce.” “Ma è dunque il diavolo in persona quell’animale!” esclamò lo sconosciuto. “Oh! no, Eccellenza, non è il diavolo” riprese l’oste con una smorfia di disprezzo “perché mentre era svenuto lo abbiamo perquisito; egli non ha nel suo involto se non una camicia e nella sua borsa soltanto dodici scudi, ciò che non gli ha impedito di dire prima di cadere svenuto che se una simile cosa gli fosse successa a Parigi, voi ve ne sareste pentito immediatamente mentre, così come sono andate le cose, non ve ne pentirete che più tardi.” “Allora” disse freddamente lo sconosciuto “è qualche principe in incognito.” “Ve ne avverto, signore” riprese l’oste “perché stiate in guardia.” “E nella sua collera non ha nominato nessuno?” “Egli batteva sulla tasca del suo farsetto e diceva: ‘Vedremo ciò che penserà il signor di Tréville dell’insulto fatto a un suo protetto’.” “Il signor di Tréville?” chiese lo sconosciuto prestando maggior attenzione “si batteva sulla tasca pronunciando il nome del signor di Tréville?... Vediamo, caro oste, mentre il giovanotto era svenuto, voi avrete certamente guardato anche in quella tasca. Che cosa c’era adunque?” “Una lettera indirizzata al signor di Tréville, capitano dei moschettieri.” “Davvero!” “È come ho l’onore di dirvi, Eccellenza.” L’oste, che non era dotato di grande perspicacia, non notò l’espressione della fisionomia dello sconosciuto a queste parole. Questi si staccò dal davanzale della finestra al quale stava appoggiato col gomito, e aggrottò le sopracciglia con inquietudine. “Diavolo!” mormorò fra i denti “che Tréville mi abbia mandato questo Guascone? È molto giovane! Ma un colpo di spada è un colpo di spada, qualunque sia l’età di chi lo dà e si diffida meno di un ragazzo che di chiunque altro; alle volte basta un debole ostacolo per contrastare un grande progetto.” E lo sconosciuto sprofondò in una meditazione che durò qualche minuto. “Oste” disse poi “non sareste capace di sbarazzarmi di questo pazzo? In coscienza, non posso ucciderlo, e pur tuttavia” aggiunse con un’espressione freddamente minacciosa “mi dà fastidio. Dov’è?” “Nella camera di mia moglie, al primo piano, stanno medicandolo.” “I suoi abiti e il suo sacco sono con lui? Non si è tolto il farsetto?” “Al contrario, tutto ciò è da basso, in cucina. Ma poiché questo giovane pazzo vi dà noia...” “Certamente. Egli dà uno scandalo tale nella vostra osteria che le persone oneste non possono rimanervi. Salite, fate il mio conto e avvertite il mio servo.” “Come! Ci lasciate già, signore?” “Lo sapevate, giacché vi avevo dato l’ordine di sellare il mio cavallo. Non mi hanno forse obbedito?” “Certamente; come vostra Eccellenza ha potuto vedere, il cavallo è sotto la porta grande già pronto per la partenza.” “Bene; allora fate come vi ho detto.” “Oh, oh!” pensò l’oste “avrebbe forse paura del ragazzo?” Ma un’occhiata imperiosa dello sconosciuto mise bruscamente termine alle sue riflessioni. Salutò umilmente e uscì. “Non bisogna che milady sia vista da questo birbante” continuò lo sconosciuto “essa non può tardare a passare; è anzi già in ritardo. Decisamente, è meglio che salga a cavallo e che le vada incontro... Se almeno potessi sapere ciò che contiene la lettera indirizzata a Tréville!” E lo sconosciuto sempre borbottando, si diresse verso la cucina. Nel frattempo l’oste, che non poneva in dubbio che fosse la presenza del giovanotto la causa dell’improvvisa partenza dello sconosciuto, era salito in camera di sua moglie e aveva trovato D’Artagnan perfettamente in sé. Allora, facendogli comprendere che la polizia avrebbe potuto dargli delle noie per aver tentato di attaccar briga con un gran signore (perché secondo lui lo sconosciuto non poteva essere che un gran signore) lo persuase, nonostante la sua debolezza, ad alzarsi e a continuar la sua strada. D’Artagnan, mezzo stordito, senza farsetto e con la testa tutta avvolta nelle bende, si alzò dunque e, spinto dall’oste, cominciò a discendere le scale ma, arrivato in cucina, la prima cosa che scorse fu il suo provocatore che parlava tranquillamente allo sportello di una pesante carrozza attaccata a due grossi cavalli normanni. La sua interlocutrice, di cui si vedeva la testa inquadrata dal finestrino, era una donna di venti o ventidue anni. Noi abbiamo già detto con quale rapidità D’Artagnan si impadronisse di una fisionomia; gli bastò un’occhiata per vedere che la donna era giovane e bella. Ora, questa bellezza lo colpì tanto più in quanto che era perfettamente sconosciuta nei paesi meridionali nei quali egli aveva abitato fino a quel giorno. Era una bellezza pallida e bionda, con lunghi capelli inanellati che ricadevano sulle spalle, con grandi occhi languidi e azzurri, con labbra rosee e mani d’alabastro. Essa parlava molto vivacemente con lo sconosciuto. “Dunque, Sua Eminenza mi ordina...” diceva la dama. “Di tornare immediatamente in Inghilterra, e di avvertirlo direttamente se il duca lasciasse Londra.” “E quanto alle altre istruzioni?” chiese la bella viaggiatrice. “Sono chiuse in questa scatola che non aprirete se non sull’altra riva della Manica.” “Benissimo, e voi che farete?” “Tornerò a Parigi.” “Senza castigare quell’insolente ragazzino?” chiese la dama. Lo sconosciuto stava per rispondere: ma nello stesso momento in cui apriva la bocca, D’Artagnan, che aveva udito tutto, si slanciò sulla soglia della porta. “È questo insolente ragazzino che castiga gli altri” esclamò “e spero bene che questa volta colui ch’egli deve castigare non gli sfuggirà come la prima.” “Non gli sfuggirà?” disse lo sconosciuto aggrottando le sopracciglia. “No, immagino che davanti a una signora non oserete fuggire.” “Pensate” esclamò milady vedendo il gentiluomo portare la mano alla spada “pensate che il minimo ritardo può perdere tutto.” “Avete ragione” esclamò il gentiluomo “andate dunque dalla vostra parte; io vado dalla mia.” E, salutata la dama con un cenno della testa, balzò sul suo cavallo mentre il cocchiere della carrozza frustava vigorosamente la sua pariglia. I due interlocutori partirono quindi contemporaneamente al galoppo, allontanandosi ognuno da un lato opposto della strada. “E ciò che mi dovete?” gridò l’oste, nel quale l’affetto per il suo viaggiatore si mutava in profondo disprezzo vedendo che egli se ne andava senza saldare il conto. “Paga, canaglia” ordinò il viaggiatore, sempre galoppando, al suo servo che gettò ai piedi dell’oste due o tre monete d’argento e si lanciò dietro al padrone. “Ah! vigliacco, ah! miserabile, ah! falso gentiluomo!” gridò D’Artagnan inseguendo a sua volta il servo. Ma il ferito era ancora troppo debole per sopportare una simile scossa. Non aveva fatto dieci passi che le sue orecchie si misero a ronzare, si sentì girare la testa, una nube di sangue passò davanti ai suoi occhi, ed egli cadde riverso in mezzo alla strada gridando ancora: “Vigliacco! Vigliacco! Vigliacco!” “È veramente un vigliacco” mormorò l’oste avvicinandosi a D’Artagnan e cercando con questa adulazione di riconciliarsi con il povero giovanotto, come l’airone della favola con la sua chiocciola della sera. “Sì, un gran vigliacco” mormorò D’Artagnan “ma lei è una gran bella donna!” “Lei chi?” chiese l’oste. “Milady” balbettò D’Artagnan. E svenne una seconda volta. “Pazienza” disse l’oste “ne perdo due ma questo mi resta e sono sicuro di conservarlo almeno per qualche giorno. Sono sempre undici scudi guadagnati.” Sappiamo già che undici scudi era proprio la somma che rimaneva nella borsa di D’Artagnan. L’oste aveva contato su undici giorni di malattia a uno scudo al giorno; ma aveva fatto i conti senza il viaggiatore. Il giorno dopo, alle cinque del mattino, D’Artagnan si alzò, scese da sé in cucina, domandò oltre a qualche altro ingrediente, il nome del quale non è giunto fino a noi, vino, olio, rosmarino e, con la ricetta di sua madre alla mano, compose un balsamo col quale unse le sue numerose ferite rinnovando le bende con le proprie mani e rifiutando l’aiuto di qualsiasi medico. Certamente in grazia al balsamo di Boemia e, forse, grazie anche all’assenza di medici, D’Artagnan la sera stessa poté alzarsi e il giorno dopo era pressoché guarito. Ma al momento di pagare quel rosmarino, quell’olio e quel vino, sola spesa del giovane che aveva osservato una dieta assoluta, mentre il suo cavallo giallo, secondo l’oste, aveva mangiato tre volte più di quanto si potesse ragionevolmente supporre tenendo conto della sua corporatura, D’Artagnan non trovò nella sua tasca che la vecchia borsa di velluto spelato contenente gli undici scudi; ma la lettera indirizzata al signor di Tréville era sparita. Il giovanotto cominciò a cercarla con grande pazienza, voltando e rivoltando almeno venti volte le sue tasche e i suoi taschini, frugando e rifrugando nel sacco da viaggio, aprendo e chiudendo la sua borsa; ma allorché ebbe la certezza che la lettera era introvabile, si abbandonò a un terzo accesso di rabbia che per poco non rese necessario un nuovo impiego di vino e d’olio aromatizzati; giacché, vedendo quella giovane e pessima testa riscaldarsi e minacciare di rompere tutto nel locale se non si fosse ritrovata la lettera, l’oste si era già armato di uno spiedo, sua moglie di un manico di scopa e i garzoni degli stessi bastoni che avevano servito due giorni prima. “La mia lettera di raccomandazione!...” esclamava D’Artagnan. “La mia lettera di raccomandazione! Sangue di Dio! V’infilzo tutti come tanti tordi!” Disgraziatamente una circostanza si opponeva a che il giovanotto mettesse in atto la sua minaccia; ed è che, come abbiamo detto, la sua spada si era rotta in due pezzi durante la prima tenzone, cosa che egli aveva perfettamente dimenticata. Successe quindi che, allorché D’Artagnan volle effettivamente sguainarla, si trovò puramente e semplicemente armato di un troncone di spada lungo non più di pochi centimetri, che l’oste aveva con cura rimesso nel fodero. Il cuoco si era abilmente impossessato del resto della lama per farne un coltello da cucina. Tuttavia neppure questa delusione avrebbe arrestato il nostro focoso giovanotto se l’oste non avesse pensato che il reclamo rivoltogli dal suo viaggiatore era perfettamente giusto. “Ma insomma” disse abbassando lo spiedo “dov’è questa lettera?” “Dov’è questa lettera?” esclamò D’Artagnan. “Prima di tutto, ve ne avverto, quella lettera è indirizzata al signor di Tréville, e bisogna che si ritrovi; e, se non si trova, saprà ben lui farvela ritrovare!” Questa minaccia finì d’intimidire l’oste. Dopo il Re e il Cardinale, il signor di Tréville era l’uomo il cui nome veniva più spesso ripetuto dai militari e anche dai borghesi. C’era anche padre Giuseppe, è vero, ma il suo nome non era mai pronunziato se non sottovoce, tanto era il terrore che incuteva “l’Eminenza grigia”, come lo chiamavano i familiari del Cardinale. Così, gettato lontano da sé il suo spiedo e ordinato a sua moglie e ai suoi servi di fare altrettanto del manico di scopa e dei bastoni, l’oste dette per primo il buon esempio, mettendosi alla ricerca della lettera perduta. “Ma questa lettera conteneva delle cose preziose?” chiese l’oste dopo molte inutili ricerche. “Perbacco! lo credo bene!” esclamò il Guascone che contava su questa lettera per far carriera a corte. “Essa conteneva la mia fortuna.” “Erano tratte sulla Spagna?” chiese l’oste inquieto. “Erano tratte sul tesoro particolare di Sua Maestà” rispose D’Artagnan che, sperando, come sperava, di entrare al servizio del Re grazie a questa raccomandazione, credeva di poter fare senza mentire questa affermazione alquanto arrischiata. “Diavolo!” fece l’oste assolutamente disperato. “Ma non importa” continuò D’Artagnan con la disinvoltura tipica della gente del suo paese. “Non importa, il danaro è nulla; la lettera è tutto. Avrei preferito perdere mille pistole!” Egli non rischiava gran che anche se avesse detto ventimila, ma un certo pudore giovanile lo trattenne. Un lampo di luce attraversò a un tratto il cervello dell’oste che, non trovando nulla, avrebbe data l’anima al diavolo. “La lettera non si è perduta!” esclamò. “Oh!” fece D’Artagnan. “No, vi è stata rubata.” “Rubata! e da chi?” “Dal gentiluomo di ieri. Egli è sceso in cucina dov’era il vostro giubbetto. Vi è restato solo. Scommetterei che è lui che l’ha rubata.” “Credete?” rispose D’Artagnan poco convinto, perché egli solo conosceva perfettamente l’importanza affatto personale di quella lettera e sapeva come essa non potesse tentare la cupidigia. E in realtà, nessuno dei servitori, nessuno dei viaggiatori presenti avrebbe guadagnato nulla possedendo quel pezzo di carta. “Dunque” rispose D’Artagnan “voi sospettate di quel gentiluomo impertinente?” “Vi dirò che sono sicuro” continuò l’oste “allorché gli annunciai che vostra signoria era il protetto del signor di Tréville e che aveva anche una lettera per quell’illustre gentiluomo, egli mi parve preoccupatissimo, mi chiese dov’era quella lettera e immediatamente scese in cucina dove, com’egli sapeva, si trovava il vostro giubbetto.” “Allora il ladro è certamente lui” rispose D’Artagnan. “Farò le mie lagnanze al signor di Tréville che ne parlerà al Re.” Poi trasse regalmente di tasca due scudi, li dette all’oste che col cappello in mano lo accompagnò fino alla porta, e salì sul suo giallo ronzino che lo portò senz’altri incidenti fino alla Porta di Sant’Antonio a Parigi, dove il suo proprietario lo vendette per tre scudi, il che significa che fu assai ben pagato, visto che D’Artagnan lo aveva molto affaticato nell’ultima tappa. E infatti il sensale al quale D’Artagnan lo cedette per le suddette nove lire non nascose al nostro giovanotto che se lo pagava così caro, era semplicemente per l’originalità del suo colore. D’Artagnan entrò quindi in Parigi a piedi portando il suo piccolo fagotto sotto il braccio e camminò finché non trovò una camera da prendere in affitto, adatta alla scarsezza dei suoi mezzi. Questa camera era una specie di soffitta situata in via Fossoyeurs, vicino al Lussemburgo. Appena pagata la caparra, D’Artagnan prese possesso del suo alloggio e passò il resto della giornata a cucire al suo giubbetto e alle sue brache certi galloni che sua madre aveva staccato da una giubba quasi nuova del signor D’Artagnan padre, e che gli aveva consegnato in segreto; poi andò sul lungofiume della Fenaille a far rimettere la lama alla spada e, infine, tornò al Louvre per chiedere al primo moschettiere che incontrò dove fosse il palazzo del signor di Tréville, e seppe che si trovava in via del Vieux-Colombier, vale a dire proprio vicino alla camera ch’egli aveva presa in affitto; circostanza che gli parve di buon augurio per il successo del suo viaggio. Dopo di che, contento di come si era comportato a Meung, senza rimorsi per il passato, fiducioso nel presente e pieno di speranze per l’avvenire, si coricò e si addormentò del sonno del giusto. Questo sonno, ancor tutto provinciale, lo condusse sino alle nove del mattino, ora in cui si alzò per andare da quel famoso signor di Tréville che era il terzo personaggio del regno, stando alla valutazione paterna.
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