CAPITOLO UNO-2

1777 Words
Impatto che ormai era imminente. Le dita di Julie la stringevano in una morsa, ma Katie le sentiva appena. Così come sentiva nella mente la voce di Matt che continuava a parlarle – forza così, non mollare proprio ora, ci siamo. La ragazza è tua, portala fuori – sovrastata dal battito del suo cuore. Persino Lady Gaga era sparita una volta per tutte. «Perché mi stai facendo questo?» domandò Julie. Ma non c’era tempo per rispondere. Il muso del minivan colpì l’utilitaria di Julie dalla parte dell’autista e Katie si trovò catapultata in avanti, mentre la ragazza al suo fianco gridava riuscendo a superare il rumore di ferraglia che si ripiegava su se stessa. Riuscì a registrare il viso contratto dell’uomo alla guida – che, ricordava dai registri, aveva riportato solo qualche ferita al volto quando aveva sbattuto contro il volante – e il cappello che gli cadeva dalla testa mentre si tirava indietro di scatto, come se così facendo avesse potuto evitare l’incidente. Quindi il mondo si capovolse, in un turbine di colori, suoni e follia. L’unica cosa a restare salda fu la presa di Julie. Un attimo dopo anche il dolore alla mano era secondario rispetto a tutto il resto. Un braccio era insensibile e l’altro doveva essere fratturato. Le gambe le bruciavano, ma non riusciva a muoverle. Katie aprì la bocca per urlare anche lei, ma scoprì di non poter più prendere aria. Qualcosa era premuto contro il suo petto, schiacciandole i polmoni. «Non sta accadendo davvero», le ricordò Matt. «È solo un brutto sogno. E quando ti sveglierai sentirai un buon aroma di caffè. Vedrai, starai così bene che potrai venire con me alla partita dei Red Sox.» Mai la voce dell’amico le era sembrata tanto soave. Ripeté a se stessa che quella era reale e non la sofferenza che la stava torturando. Da qualche parte intorno a lei, Julie si stava lamentando appena. Non sta accadendo davvero, pensò. Si guardò intorno e si trovò circondata dal buio. Il silenzio era assordante, persino Matt taceva ora. Il dolore si stava attenuando quando una luce prese a pulsare sopra di lei. Avvertì la stretta alla mano farsi più reale – le dita non più lisce come quella di una ragazza di diciotto anni, ma ruvide e massicce – mentre la voce di Julie la chiamava in lontananza. «Katie, ci sei ancora?» «Sì, Julie, non ti ho lasciata sola.» «Katie…» * * * «… sei con noi?» Il volto barbuto di Matt la guardava dall’alto. Come aveva promesso, teneva nella mano destra una tazza di caffè, mentre l’altra era stretta alla sua. Una ciocca di capelli biondo cenere era sfuggita al laccio e gli penzolava al lato del viso come un auricolare. Lo sguardo si stava rasserenando, ma si vedeva ancora la preoccupazione che lo aveva segnato fino a pochi attimi prima. La preoccupazione e la stanchezza. Anche se lui viveva il processo di intromissione solo di riflesso, era un’attività che lo spossava comunque. Non al punto da non poter camminare, ma abbastanza da avere bisogno di una notte di sonno di almeno dieci ore per riprendersi. Intorno a loro si avvertivano le esclamazioni di gioia mentre i familiari si riunivano intorno alla ragazza. Da qualche parte una donna piangeva, probabilmente la madre di Julie. Katie abbassò le palpebre di nuovo mentre la assaliva un attacco di nausea. Le sembrava di avere ancora un peso sul petto e faceva fatica a respirare. Ma almeno ci riusciva. Aveva impressa nella mente l’espressione di terrore dell’uomo che sterzava nel tentativo impossibile di evitare l’impatto. «Sì, ci sono», rispose, con gli occhi ancora chiusi. «Julie si è svegliata, mi pare di capire.» Il letto dove si trovava era a un paio di metri da quello della giovane. Nel momento in cui si erano addormentate non c’era nessuno a dividerle. Ora che Julie si era ripresa tutte le persone in attesa si erano riversate nella stanza d’ospedale per festeggiare. Katie era sollevata dal fatto che ancora non avessero preso a ringraziarla. Se tutto si fosse svolto come al solito, avrebbe avuto pochi altri secondi di vantaggio prima che i parenti della dormiente si focalizzassero su di lei. «Sicuro. Ma non avevo alcun dubbio. Allora, vuoi andare di là? Ho preparato la sedia.» Prima non c’era. Durante il loro viaggio nella mente di Julie, Matt era riuscito a pensare anche a quello. «Sì, grazie. Qualche minuto senza caos mi farà bene.» «Ce la possiamo fare. Ancora non ti hanno individuata.» Katie si sforzò di guardare l’amico. L’invasione luminosa, mista al candore delle pareti, le fece scattare un’emicrania improvvisa. «Ora come ora non sono in vena di abbracci.» «Sei una persona insensibile. E pensare che stavo giusto per dartene uno.» Matt scosse il capo a qualcuno dall’altra parte della stanza, ma Katie era troppo debole per voltarsi a guardare. Lasciò che l’amico la aiutasse a scivolare sulla sedia a rotelle. Girò la testa giusto in tempo perché si aprisse uno spiraglio tra le persone. Incrociò gli occhi di Julie per un istante e la salutò con un cenno del capo. Avrebbero avuto tempo più tardi per scambiare due parole nel mondo reale. Ora aveva bisogno di quel caffè e di sentirsi di nuovo padrona di se stessa. Senza il frastuono della carrozzeria che veniva massacrata a rimbombarle nelle orecchie. * * * La stanzetta doveva essere la sala di ritrovo degli infermieri. C’era un angolo cottura abbastanza in ordine, una televisione – in quel momento spenta, grazie al cielo – appesa in alto in un angolo e un tavolo abbastanza largo perché ci si potessero sedere otto persone. In quel momento era sgombro, fatta eccezione per una bottiglia d’acqua. A temperatura ambiente, giudicò Katie, notando l’assenza di condensa sul vetro. Le sedie pieghevoli erano appoggiate al muro. Matt la sistemò dalla parte opposta all’entrata, tornò nella sala dove avevano operato per riprendere la tazza di caffè e gliela piazzò sotto il naso, prima di sedersi a sua volta. «Meglio?» «Meglio», rispose lei. A dire il vero la nausea non era passata, ma almeno il silenzio la stava aiutando a riprendersi. I ricordi di Julie stavano svanendo dalla sua mente, ma ancora avvertiva il senso di ansia per il ritardo. I lineamenti di Rick e delle amiche della ragazza si facevano più sfocati a ogni secondo. «Fa strano sentirsi di nuovo una diciottenne.» «Non riesco a immaginarti molto diversa da ora», disse Matt, versandosi dell’acqua. «E proprio non riesco a figurarti a una festa.» Katie bevve un sorso di caffè. Era bollente e molto zuccherato. «Ti stupirà sapere che invece ne ho vissute diverse.» «Bevevi e ballavi insieme agli altri? Magari spettegolavi con le amiche mentre ammiravi qualche fusto?» Lei scosse il capo. «Più che altro cercavo di inserirmi, sentendomi a disagio tutto il tempo e aspettando che arrivasse il momento di tornare a casa.» Una sagoma alla porta catturò la sua attenzione. «Prego», sospirò. «Può entrare.» Il padre di Julie era un uomo di quasi cinquant’anni, massiccio, con il cranio completamente rasato e uno sguardo allucinato che lo faceva sembrare un serial killer. Ora l’espressione era mitigata dalla commozione per aver ritrovato la figlia. Era stato di poche parole anche quando si erano incontrati la prima volta ed era stato costretto a spiegare la situazione. Ora pareva incapace di aprire bocca. «Julie sta bene?» domandò Katie. «Non riesco a crederci.» La voce dell’uomo era spezzata. Stava facendo un grosso sforzo per controllare le emozioni. «Non offendetevi. Vi conoscevo già di fama, ma…» «Quando è venuto da noi aveva già perso le speranze», finì per lui Matt, appoggiandosi allo schienale. «Non si preoccupi, è qualcosa a cui siamo abituati. L’importante è che la ragazza stia bene.» «Ora il medico ci ha fatti uscire. Ha detto che deve fare degli accertamenti. Ma Julie parla. Ci riconosce. È di nuovo con noi.» Alzò lo sguardo, stringendo la mascella. «Non siamo una famiglia ricca, ma…» «Non abbiamo parlato di compensi», lo interruppe Katie, prendendo di nuovo la tazza di caffè. Si stava freddando. «Non ce n’è bisogno. Non è qualcosa che facciamo per denaro. Perderebbe tutto il significato.» Non le sfuggì il cenno che Matt fece a Camp. Se fosse stata abbastanza in forze avrebbe fatto il diavolo a quattro per impedire all’amico di far arrivare a casa sua qualche altra donazione anonima, ma ora era spenta e incapace di lottare. E poi bisognava ammettere che qualche dollaro extra iniziava a farle comodo. I suoi genitori non avrebbero potuto aiutarla ancora a lungo, considerando le spese mediche che avevano già dovuto sostenere. Scacciò i pensieri con uno sbuffo. Cominciava quasi a rimpiangere le preoccupazioni da teenager di Julie. «Va bene», disse Camp. «Nessun problema. Ci tenevo solo a ringraziarvi personalmente. Non so bene cosa sia accaduto lì dentro e non credo che sarò mai capace di capirlo. Ma di due cose sono sicuro. Primo, è avvenuto una specie di miracolo e voi ne siete gli artefici. Mi avete ridato la mia bambina. Per quanti soldi possa darvi, rimarrò per sempre in debito con voi.» Quindi l’uomo fece un passo in avanti e lanciò un pacchetto di sigarette sul tavolo, con un sorriso tirato. «E, secondo, da adesso in poi si smette di fumare. Lo avevo promesso a Julie mentre… dormiva. E queste sono promesse che non si possono infrangere.» «No, direi di no», disse Matt, annuendo. «Le dispiace se le prendo io? Odio gli sprechi.» Katie gli scoccò un’occhiataccia. Matt fece spallucce. «Ehi, non bevo, non faccio uso di droghe e non ho altri vizi all’infuori di questo. Hai idea di quanto sia stressante lavorare con te?» Camp fece un altro passo in avanti, sorridendo appena alla battuta dell’irlandese. «Mi farebbe piacere se lei parlasse con Julie anche ora. So che avete condiviso qualcosa di… intenso.» Sorrise di nuovo, incapace di trovare le parole. «Insomma, credo sia importante. A Julie di sicuro farebbe piacere. La prima persona di cui ha voluto sapere è stata lei.» Scosse il capo, ancora incredulo. «L’ha chiamata per nome.» Era un uomo abituato a stare con i piedi per terra, un agente assicurativo. Quello era uno di quei pensieri che Katie aveva preso in prestito dalla mente di Julie e che ancora faticavano a lasciarla. «Non si affatichi a cercare di comprendere», disse Katie. La nausea era quasi passata, presto sarebbe stata in grado di camminare. «Perché a dire il vero non ci capiamo molto neanche noi. È qualcosa che accade e basta. Perciò si goda sua figlia. Mi dia solo qualche altro minuto, poi verrò a parlare con lei. In ogni caso la stanno visitando e non vorrei disturbare. I medici si limitano a tollerarci e non vorremmo peggiorare la situazione.» Camp annuì, quindi fece un passo indietro. «Grazie. Non so in che altro modo dirlo, ma grazie. Vi lascio riposare.» Matt si alzò in piedi per stringergli la mano e tornò seduto solo quando l’altro si fu allontanato. «Se dovessimo scoprire come facciamo a farlo, glielo spiegheremo volentieri.» «È uno dei se più grossi che abbia mai incontrato. E da quando ti conosco ne abbiamo avuti parecchi.» «Già. Vuoi dell’altro caffè?» «No, grazie. Vorrei solo tornare a casa.» Matt allargò le braccia sul tavolo. «Se vuoi saltare la parte dei saluti per me va bene. Possiamo sempre chiamarli domani. Non penso siano nelle condizioni di offendersi.» «No», disse Katie, scuotendo la testa. «Non posso andarmene senza parlare con Julie. È ancora smarrita e ha bisogno di me. Cominciamo ad andare, prima ci muoviamo e prima torniamo a casa.» «Vuoi che ti spinga?» «No, penso di poter camminare. Mi accontenterò della tua spalla, se non ti dispiace.»
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