uno

2161 Words
Uno 19 novembre 1835 In navigazione Bridget rallentò il passo e guardò la donna che stava in piedi con la schiena poggiata allo stipite della piccola porta della cabina: era molto graziosa, aveva capelli raccolti, biondissimi e lisci, occhi cerulei, pelle chiara e dall’inizio della navigazione l’aveva vista sempre in ordine. L’insieme ben si addiceva ai suoi modi delicati e gentili. Aveva notato che la sua indole remissiva non le consentiva di muovere neanche un dito senza almeno uno sguardo di approvazione del marito. Sapeva dal Comandante Lee che l’uomo tentava di combattere il mal di mare rimanendo a letto tutto il tempo, bevendo solo pochi sorsi d’acqua al giorno, senza mangiare mai. Sbirciò all’interno e lo vide. «Mi chiedo come facciate a non stare male» mormorò la fragile creatura, osservandola spaesata, in preda a forte nausea per il moto della nave. «Sono abituata. Ho navigato parecchie volte» spiegò senza aggiungere dettagli sul fatto che era la figlia del Duca di Northcliff. «Piuttosto, mi chiedo come faccia vostro marito a stare a letto per tanto tempo: siamo partiti da tre giorni e non si è mai mosso da lì. All’aperto si sta meglio, ve lo garantisco. Per questo ho portato di sopra i miei nipoti» asserì Bridget con un sorriso rassicurante. L’occhiata che la giovane signora diede al lettuccio disordinato dove giaceva il marito rivelava tutta la sua indecisione. Bri entrò senza indugio nell’angusta cabina che odorava di chiuso e arricciò il naso. Si chinò sull’uomo. «Sono certa che se saliste sul ponte vi sentireste meglio». Quello mugugnò scuotendo la testa. I capelli castano chiaro diradati sulle tempie lo facevano apparire più vecchio della sua età. Non indossava gli occhiali come al solito e le ombre scure sotto gli occhi apparivano più evidenti. «Sentite, dovete credermi. Io sono stata tante volte in navigazione e vi assicuro che...». «No... andate via. Mia moglie può venire con voi» borbottò il poveretto senza nemmeno aprire gli occhi. Bridget sospirò notando il colore grigiastro del suo viso. «Va bene, ma dovreste venire anche voi» ripeté e si avviò. «Andiamo» disse porgendo alla donna la pesante mantella marrone presa dal gancio accanto alla porta. Scorse la sua espressione di sollievo e attese che la indossasse. La fece passare e la osservò incamminarsi incerta per lo stretto corridoio, sorreggendosi cauta ai corrimano delle pareti. Salirono la ripida scala e il vento freddo le investì. «Adesso guardate il mare, lì all’orizzonte, e non smettete di farlo. Respirate a pieni polmoni» ordinò Bri. Vide il volto smagrito della donna rilassarsi mentre chiudeva gli occhi e godeva di quell’aria pulita. «Venite con me. Tenetevi al parapetto, così. No, non guardate di sotto, ma in alto davanti a voi». La condusse accanto al timone, dal Comandante che parlava e rideva con Mr. Payton. Mrs. Payton era seduta a terra sulle assi logore del ponte, con i figli attorno: Mary, la più piccola, dormiva con la testa sulle gambe della madre; Peter giocava con alcuni animaletti di legno, facendoli parlare fra loro, inscenando il pezzo della Bibbia sull’Arca di Noè; Margareth sorrideva e di tanto in tanto scambiava qualche parola con la mamma che era sul punto di assopirsi. «La bimba non prenderà troppo freddo sdraiata così?» le domandò premurosa la sua nuova amica di viaggio. «Ha una coperta doppia sotto e una sopra, state tranquilla. Sediamo con loro» le propose Bridget passandone una anche a lei. «Poggiate la testa dietro e state ferma». «Avevate ragione. Qui è meglio, anche se fa freddo. Grazie di cuore, Miss…». «Bridget Fowler, sono la sorella di Mrs. Payton. Ma chiamatemi solo Bridget, ve ne prego». «Piacere, Laurel Price e mio marito si chiama Ian». MacQuoid Farm, Greensburg Court House, Green County, Kentucky. «Sta arrivando quella donna» riferì Gillian in piedi nel vano dove sarebbe stata montata la porta della camera da letto padronale. La sua frase gettata lì fece accigliare Ken che non aveva compreso. «Sì, sì, proprio lei, Megan O’Connor» insistette seccata. Si asciugò le mani umide sul grembiule sporco di salsa e si avviò di sotto a passo di marcia mentre sistemava i capelli grigi sfuggiti al nodo sulla nuca. Kenneth guardò prima Tooantuh, poi William. Quest’ultimo si sollevò lasciando cadere alcuni chiodi dalla sacca di pelle consunta allacciata in vita. «Non è mai venuta di giorno, sono solo le undici del mattino, per la miseria» borbottò indignato. « Prato negli occhi, devi fermare donna irlandese prima che Gillian picchi con manico di scopa» fece l’indiano con quello che poteva definirsi un sorrisetto divertito. Kenneth passò un braccio sulla fronte per scostare una ciocca nerissima e si mosse rapido. Scese al pianterreno saltando gli ultimi tre gradini per la fretta e uscì dal portone. La polvere sollevata dal carro di Megan lanciato a velocità elevata invase l’aria tersa di quella mattina invernale. Camminò spedito per il cortile, rabbrividendo per il freddo pungente che penetrava attraverso la camicia di panno scuro, e si fermò fuori dal recinto appena pitturato, per evitare che il carro arrivasse di fronte alla casa. I cavalli rallentarono accostandosi e, prima che la donna scendesse, disse: «Che ci fai qui, Megan?». «Gentile come sempre, Ken» ribatté lei. «Non voglio che tu venga qui, ne abbiamo parlato». «Tu ne hai parlato, non io» fece la donna infastidita dal suo atteggiamento indifferente. Rimboccò la sciarpa all’interno del bavero del cappotto e rabbrividì. «Meg, te l’ho già detto. Io sono impegnato e lo sapevi». Lei strinse i denti e la linea della bocca si fece tesa. «Sta arrivando mio marito». Ken non si scompose di fronte alla sua aria di sfida. «Tutti sanno che sono vedova! Ho detto la verità solo a te!» sbottò Megan muovendo stizzita una mano coperta dal guanto. Lui rimase impassibile, gli occhi verdi puntati come armi pronte a colpire. «Maledizione, Ken! Ho bisogno di aiuto! Dopo tanti mesi che fai i tuoi comodi, non hai nemmeno cuore di darmi una mano?». Il tono lamentoso della donna risuonò quasi inadatto alla sua indole e Ken la studiò diffidente. «I comodi erano anche tuoi e io non ti ho mai promesso niente. E poi che potrei fare?». Silenzio. «Nascondimi qui» mormorò lei prendendo il fazzoletto bianco dalla piccola borsa posata in grembo. «Solo finché va via, ti prego, Ken». Lui la fissò per qualche secondo: impeccabile nei suoi abiti scuri e di buona fattura, appariva una vedova di tutto rispetto. Nasconderla sarebbe stato come legittimare una relazione che non c’era. Facevano sesso, niente di più. Eppure si sentiva in colpa. Guardò dietro di sé l’enorme casa quasi finita e la casetta di legno che i Barney avevano lasciato pochi giorni prima per venire a vivere con lui al Ranch dove le loro stanze erano ormai pronte. Sospirò pesantemente e osservò di nuovo la donna. «Come sai che sta arrivando?». «Il medico. Era fuori per un paziente e ha sentito che un irlandese andava in giro a chiedere di me». Sistemò i capelli neri scomposti dal vento nonostante la cuffietta. «Quale irlandese chiederebbe di me?». Ken scosse la testa con disappunto. Maledetto il giorno in cui si era impelagato con lei. «Non posso nasconderti qui a lungo». Attese un cenno di assenso. «Chi sa che sei andata via?» domandò ammiccando verso il carro dove vide una borsa e una cassa. «Denton e sua sorella. Ho affidato l’emporio a loro dicendo che una mia cugina doveva partorire». «Gli diranno dove vivi e rimarrà in città finché non ti avrà scovata». «E che dovrei fare? Non posso sparire!». «Invece è proprio ciò che dovresti fare, Megan, sparire!» sbottò lui togliendo i guanti da lavoro. «Maledizione! Avresti dovuto farlo anni fa, cambiare nome e tingerti i capelli. Solo così ti saresti salvata». «Stai... stai dicendo che mi troverà?». Ken la squadrò. Fingeva di non capire? No, recitava come sempre. «Io ho tutto qui... il mio lavoro, la mia vita!» piagnucolò Megan. «Bene, allora affrontalo e digli che non lo vuoi più». «Mi ammazzerà!» esclamò lei sgranando gli occhi scuri. «Fallo prima tu» ribatté impietoso Ken con un repentino cenno del capo. Megan aprì la bocca, sconvolta. «Io... io non ho mai sparato a nessuno». «Già, quindi sei qui perché lo faccia io per te». «Volevo solo protezione!». «Ti sembro idiota? La scusa di nasconderti qui serve per farmi scontrare con lui e toglierlo di mezzo» spiattellò Ken. La vide assumere un’espressione sorpresa: lo aveva sempre giudicato ingenuo a causa dei suoi prolungati silenzi, del suo atteggiamento schivo e chiuso, del fatto che parlasse pochissimo e non la facesse entrare nel suo mondo, credendolo poco arguto e molto buono. E adesso appariva imbarazzata per quell’errore di valutazione. Ken avrebbe potuto fregarsene, anzi sapeva che avrebbe dovuto. Eppure non voleva una donna malmenata sulla coscienza, non sarebbe stato nella sua natura lasciarla in balia di un pazzo violento. Puntò un dito verso la casetta mentre la fissava duramente. «Entra lì e non uscire per nessun motivo. Non avvicinarti a casa mia. Saranno i Barney a portarti il cibo». Le diede le spalle e si avviò al Ranch, la testa china sulla terra indurita dal freddo. 20 novembre 1835 Docks di Londra Vapori umidi aleggiavano tra i moli, parevano sollevarsi dall’acqua nera e immota, sferzati da una fitta pioggia sottile. L’odore acre di mare, pesce vecchio e cibo fritto riempiva inesorabile l’aria, rendendola irrespirabile a chi non ne fosse avvezzo. Le uniche luci provenivano dalle locande malfamate. Tutto intorno era buio pesto. Sophie portò il fazzoletto al naso e guardò fuori dal finestrino con una certa ansia. Colta da un brivido di freddo, prese l’orologio da tasca: mancava poco alla mezzanotte. Chris si era allontanato per prendere contatti con alcune conoscenze e trovare un passaggio su una delle navi che sarebbero partite in quei giorni. Tre servitori e il cocchiere erano di guardia alla carrozza, assicurandosi di tanto in tanto che lei stesse bene. Trascorse quasi un’ora prima che il silenzio fosse rotto dal trambusto di alcuni ubriachi. Lei intuì subito il pericolo, captando una sorta di malessere interiore. «Chi abbiamo qui dentro?» fece la voce gracchiante di un uomo decisamente alticcio. «Vai via, se non vuoi grane» disse calmo uno dei servitori del Conte. «Un momento! Non rispondere così al mio amico... non sai con chi stai parlando!» intervenne un’altra voce, alterata dall’alcol più della prima. «Non me ne frega un cazzo con chi sto parlando. Forse non hai capito bene: allontanatevi subito da questa carrozza!». Colpita dal linguaggio sboccato, Sophie scostò appena la tenda e vide due brutti ceffi spavaldi che barcollavano di fronte ai tre servitori e al cocchiere. All’improvviso uno dei due ubriachi tirò fuori un coltellaccio. «Vediamo cosa fate adesso!» urlò senza rendersi conto di quanto stesse rischiando. L’amico lo imitò ridendo, mostrando denti anneriti e tenendo nella mano sinistra un piccolo coltello molto lucente. Un movimento dietro di loro attirò l’attenzione dei servitori. «Che problema c’è?» fece il Conte di Richmond rimanendo a debita distanza. Impugnava con estrema determinazione due pistole, una per mano. Sophie sgranò gli occhi e sentì la testa pulsare. «E tu da dove sbuchi?» domandò uno dei ceffi. «Oh, deve essere il damerino dello stemma» rise l’altro indicando il blasone nobiliare sulla fiancata della carrozza. «Che vuoi fare, amico? Non c’è bisogno di alterarsi tanto, metti giù le pistole». «Scommettiamo su chi muore per primo?» fece Christopher con un’espressione che Sophie non gli aveva mai visto. Era serissimo e concentrato, le mani ferme, gli occhi socchiusi come sottili lame di acciaio. Sembrava diverso, forse anche per l’aspetto informale, la camicia senza cravatta che lasciava intravedere la pelle del petto e i capelli scomposti inumiditi dall’acqua che scendeva fitta. I due ubriachi retrocessero lenti e ciondolanti. Poi iniziarono a correre. Lui sistemò le pistole dietro la cintura e si avviò alla carrozza. Salì trovando Sophie terrorizzata. «Non sarebbe successo niente. Anche se non fossi tornato, i miei erano di guardia in quattro» spiegò laconico per rassicurarla mentre passava il braccio sul viso bagnato. Lei notò una goccia scivolare da una ciocca sulla fronte, giù dal naso al labbro superiore. «Porti sempre le...» balbettò indicando la cintura. «Non ti capiterà niente, stai tranquilla. Non lo permetterei». Lo guardava perplessa, forse un po’ impaurita dalle circostanze pericolose. «Non mi piace che tu tenga quelle pistole» mormorò Sophie. «Abituati, dolcezza. Non mi farò ammazzare e tanto meno lascerò che facciano del male a te solo perché tu non vuoi che le abbia». Si adagiò sul sedile e aggiunse: «Ho trovato la persona che mi ha indicato il Duca».
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