II-1

2004 Words
CAPITOLO II All’alba partì lasciando il ragazzo a guardare il podere. Lo stradone, fino al paese, era in salita ed egli camminava piano perché l’anno passato aveva avuto le febbri di malaria e conservava una gran debolezza alle gambe: ogni tanto si fermava volgendosi a guardare il poderetto tutto verde fra le due muraglie di fichi d’India; e la capanna lassù nera fra il glauco delle canne e il bianco della roccia gli pareva un nido, un vero nido. Ogni volta che se ne allontanava lo guardava così, tenero e melanconico, appunto come un uccello che emigra: sentiva di lasciar lassù la parte migliore di sé stesso, la forza che dà la solitudine, il distacco dal mondo; e, andando su per lo stradone attraverso la brughiera, i giuncheti, i bassi ontani lungo il fiume, gli sembrava di essere un pellegrino, con la piccola bisaccia di lana sulle spalle e un bastone di sambuco in mano, diretto verso un luogo di penitenza: il mondo. Ma sia fatta la volontà di Dio e andiamo avanti. Ecco a un tratto la valle aprirsi e sulla cima a picco d’una collina simile a un enorme cumulo di ruderi, apparire le rovine del Castello: da una muraglia nera una finestra azzurra, vuota come l’occhio stesso del passato, guarda il panorama melanconico roseo di sole nascente, la pianura ondulata con le macchie grigie delle sabbie e le macchie giallognole dei giuncheti, la vena verdastra del fiume, i paesetti bianchi col campanile in mezzo come il pistillo nel fiore, i monticoli [20] sopra i paesetti e in fondo la nuvola color malva e oro delle montagne Nuoresi. Efix cammina, piccolo e nero, fra tanta grandiosità luminosa. Il sole obliquo fa scintillare tutta la pianura; ogni giunco ha un filo d’argento, da ogni cespuglio di euforbia sale un grido d’uccello; ed ecco il cono verde e bianco del monte di Galte solcato da ombre e da strisce di sole, e ai suoi piedi il paese che pare composto dei soli ruderi dell’antica città romana. Lunghe muriccie [21] in rovina, casupole senza tetto, muri sgretolati, avanzi di cortili e di recinti, catapecchie intatte, più melanconiche degli stessi ruderi, fiancheggiano le strade in pendi ì o selciate al centro di grossi macigni; pietre vulcaniche sparse qua e là dappertutto danno l’idea che un cataclisma abbia distrutto l’antica città e disperso gli abitanti; qualche casa nuova sorge timida fra tanta desolazione, e piante di melograni e di carrubi, gruppi di fichi d’India e palmizi [22] danno una nota di poesia alla tristezza del luogo. Ma a misura che Efix saliva questa tristezza aumentava, e a incoronarla si stendevano sul ciglione, all’ombra del Monte, fra siepi di rovi e di euforbie, gli avanzi di un antico cimitero e la Basilica pisana in rovina. Le strade erano deserte e le rocce a picco del Monte apparivano adesso come torri di marmo. Efix si fermò davanti a un portone attiguo a quello dell’antico cimitero. Erano quasi eguali, i due portoni, preceduti da tre gradini rotti invasi d’erba; ma, mentre il portone dell’antico cimitero era sormontato appena da un’asse corrosa, quello delle tre dame aveva un arco in muratura e sull’architrave si notava l’avanzo di uno stemma: una testa di guerriero con l’elmo e un braccio armato di spada; il motto era: quis resistit hujas? [23] Efix attraversò il vasto cortile quadrato, lastricato al centro, come le strade, da una specie di solco in macigni per lo scolo delle acque piovane, e si tolse la bisaccia dalle spalle guardando se qualcuna delle sue padrone s’affacciava. La casa, a un sol piano oltre il terreno, sorgeva in fondo al cortile, subito dominata dal Monte che pareva incomberle sopra come un enorme cappuccio bianco e verde. Tre porticine s’aprivano sotto un balcone di legno a veranda che fasciava tutto il piano superiore della casa, al quale si saliva per una scala esterna in cattivo stato. Una corda nerastra, annodata e fermata a dei piuoli [24] piantati agli angoli degli scalini, sostituiva la ringhiera scomparsa. Le porte, i sostegni e la balaustrata del balcone erano in legno finemente scolpito: tutto però cadeva, e il legno corroso, diventato nero, pareva al minimo urto sciogliersi in polvere come sgretolato da un invisibile trivello. Qua e là però, nella balaustrata del balcone, oltre le colonnine svelte ancora intatte, si osservavano avanzi di cornice su cui correva una decorazione di foglie, di fiori e di frutta in rilievo, ed Efix ricordava che fin da bambino quel balcone gli aveva destato un rispetto religioso, come il pulpito e la balaustrata che circondava l’altare della Basilica. Una donna bassa e grossa, vestita di nero e con un fazzoletto bianco intorno al viso duro nerastro, apparve sul balcone; si curvò, vide il servo, e i suoi occhi scuri a mandorla scintillarono di gioia. «Donna Ruth, buon giorno, padrona mia!» Donna Ruth scese svelta, lasciando vedere le grosse gambe coperte di calze turchine: gli sorrideva, mostrando i denti intatti sotto il labbro scuro di peluria. «E donna Ester? E donna Noemi?» «Ester è andata a messa, Noemi s’alza adesso. Bel tempo, Efix! Come va laggiù?» «Bene, bene, grazie a Dio, tutto bene». Anche la cucina era medioevale: vasta, bassa, col soffitto a travi incrociate nere di fuliggine; un sedile di legno lavorato poggiava lungo la parete al di qua e al di là del grande camino; attraverso l’inferriata della finestra verdeggiava lo sfondo della montagna. Sulle pareti nude rossicce si notavano ancora i segni delle casseruole di rame scomparse; e i piuoli [25] levigati e lucidi ai quali un tempo venivano appese le selle, le bisacce, le armi, parevano messi lì per ricordo. «Ebbene, donna Ruth…?» l’interrogò Efix, mentre la donna metteva una piccola caffettiera di rame sul fuoco. Ma ella volse il gran viso nero incorniciato di bianco e ammiccò accennandogli di pazientare. «Vammi a prendere un po’ d’acqua, intanto che scende Noemi…» Efix prese il secchio di sotto al sedile; s’avviò, ma sulla porta si volse timido, guardando il secchio che dondolava. «La lettera è di don Giacintino?» «Lettera? È un telegramma…» «Gesùgrande! [26] Non gli è accaduto nulla di male?» «Nulla, nulla! Va’…» Era inutile insistere, prima che scendesse donna Noemi; donna Ruth, sebbene fosse la più vecchia delle tre sorelle e tenesse le chiavi di casa (del resto non c’era più nulla da custodire), non prendeva mai nessuna iniziativa e nessuna responsabilità. Egli andò al pozzo che pareva un nuraghe [27] scavato in un angolo del cortile e protetto da un recinto di macigni sui quali, entro vecchie brocche rotte, fiorivano piante di violacciocche e cespugli di gelsomini: uno di questi si arrampicava sul muro e vi si affacciava come per guardare cosa c’era di là, nel mondo. Quanti ricordi destava nel cuore del servo quest’angolo di cortile, triste di musco, allegro dell’oro brunito delle violacciocche e del tenero verde dei gelsomini! Gli sembrava di veder ancora donna Lia, pallida e sottile come un giunco, affacciata al balcone, con gli occhi fissi in lontananza a spiare anch’ella cosa c’era di là, nel mondo. Così egli l’aveva veduta il giorno della fuga, immobile lassù, simile al pilota che esplora con lo sguardo il mistero del mare… Come pesano questi ricordi! Pesano come il secchio pieno d’acqua che tira giù, giù nel pozzo. Ma sollevando gli occhi Efix vide che non era Lia la donna alta che si affacciava agile al balcone agganciandosi i polsi della giacca nera a falde. «Donna Noemi, buon giorno, padrona mia! Non scende?» Ella si chinò alquanto, coi folti capelli neri dorati splendenti intorno al viso pallido come due bande di raso: rispose al saluto con gli occhi anch’essi neri dorati sotto le lunghe ciglia, ma non parlò e non scese. Spalancò porte e finestre – tanto non c’era pericolo che la corrente sbattesse e rompesse i vetri (mancavano da tanti anni!) – e portò fuori, stendendola bene al sole, una coperta gialla. «Non scende, donna Noemi?» ripeté Efix a testa in su sotto il balcone. «Adesso, adesso». Ma ella stendeva bene la coperta e pareva s’indugiasse a contemplare il panorama a destra, il panorama a sinistra, tutti e due d’una bellezza melanconica, con la pianura sabbiosa solcata dal fiume, da file di pioppi, di ontani bassi, da distese di giunchi e d’euforbie, con la Basilica nerastra di rovi, l’antico cimitero coperto d’erba in mezzo al cui verde biancheggiavano come margherite le ossa dei morti; e in fondo la collina con le rovine del Castello. Nuvole d’oro incoronavano la collina e i ruderi, e la dolcezza e il silenzio del mattino davano a tutto il paesaggio una serenità di cimitero. Il passato regnava ancora sul luogo; le ossa stesse dei morti sembravano i suoi fiori, le nuvole il suo diadema. Noemi non s’impressionava per questo; fin da bambina era abituata a veder le ossa che in inverno pareva si scaldassero al sole e in primavera scintillavano di rugiada. Nessuno pensava a toglierle di lì: perché avrebbe dovuto pensarci lei? Donna Ester, invece, mentre risal e a passo lento e calmo la strada su dalla chiesa nuova del villaggio (quando è in casa ha sempre fretta, ma fuori fa le cose con calma perché una donna nobile deve essere ferma e tranquilla) giunta davanti all’antico cimitero si fa il segno della croce e prega per le anime dei morti… Donna Ester non dimentica mai nulla e non trascura di osservar nulla: così, appena nel cortile, s’accorge che qualcuno ha attinto acqua al pozzo e rimette a posto la secchia; toglie una pietruzza da un vaso di violacciocche, ed entrata in cucina saluta Efix domandandogli se gli hanno già dato il caffè. [28] «Dato, dato, donna Ester, padrona mia!» Intanto donna Noemi era scesa col telegramma in mano, ma non si decideva a leggerlo, quasi prendesse gusto ad esasperare l’ansia curiosa del servo. «Ester», disse, sedendosi sulla panca accanto al camino, «perché non ti levi lo scialle?» «C’è messa nella Basilica, stamattina; esco ancora. Leggi». Sedette anche lei sulla panca e donna Ruth la imitò; così sedute le tre sorelle si rassomigliavano in modo straordinario; solo che rappresentavano tre età differenti: donna Noemi ancora giovane, donna Ester anziana e donna Ruth già vecchia, ma d’una vecchiaia forte, nobile, serena. Gli occhi di donna Ester, un po’ più chiari di quelli delle sorelle, d’un color nocciola dorato, scintillavano però infantili e maliziosi. Il servo s’era messo davanti a loro, aspettando; ma donna Noemi, dopo aver spiegato il foglio giallo, lo guardava fisso, quasi non riuscisse a decifrarne le parole, e infine lo scosse indispettita. «Ebbene, dice che fra pochi giorni arriverà. È questo!» [29] Sollevò gli occhi e arrossì guardando severa il viso di Efix: anche le altre due lo guardavano. «Capisci? Così, senz’altro, quasi venga a casa sua!» «Che ne dici?» domandò donna Ester, mettendo un dito fuor dell’incrociatura dello scialle. Efix aveva un viso beato: le fitte rughe intorno ai suoi occhi vivaci sembravano raggi, ed egli non cercava di nascondere la sua gioia. «Sono un povero servo, ma dico che la provvidenza sa quello che fa!» «Signore, vi ringrazio! C’è almeno qualcuno che capisce la ragione», disse donna Ester. Ma Noemi era ridiventata pallida: parole di protesta le salivano alle labbra, e sebbene come sempre riuscisse a dominarsi davanti al servo al quale pareva non desse molta importanza, non poté fare a meno di ribattere: «Qui non c’entra la provvidenza, e non si tratta di questo. Si tratta…», aggiunse dopo un momento di esitazione, «si tratta di rispondergli netto e chiaro che in casa nostra non c’è posto per lui!» Allora Efix aprì le mani e reclinò un poco la testa come per dire: “E allora perché mi consultate?” ma donna Ester si mise a ridere e alzò sbattendo con impazienza le due ali nere del suo scialle. «E dove vuoi che vada, allora? In casa del Rettore come i forestieri che non trovano alloggio?» «Io piuttosto non gli risponderei niente», propose donna Ruth, togliendo di mano a Noemi il telegramma che quella piegava e ripiegava nervosamente. «Se arriva, ben arrivato. Lo si potrebbe accogliere appunto come un forestiere. Benvenuto l’ospite!» aggiunse, come salutando qualcuno che entrasse dalla porta. «Va bene. E se si comporta male è sempre a tempo ad andarsene». Ma donna Ester sorrideva, guardando la sorella che era la più timida e irresoluta delle tre; e curvandosi le batté una mano sulle ginocchia: «A cacciarlo via, vuoi dire? Bella figura, sorella cara. E ne avrai il coraggio, tu, Ruth?» Efix pensava. D’improvviso alzò la testa e appoggiò una mano sul petto. «Per questo ci penserei io!» promise con forza. Allora i suoi occhi incontrarono quelli di Noemi, ed egli, che aveva sempre avuto paura di quegli occhi liquidi e freddi come un’acqua profonda, comprese come la padrona giovane prendeva sul serio la sua promessa.
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