CAPITOLO II-1

2012 Words
CAPITOLO II La prima mezz'ora Che cos’era accaduto? Quale effetto aveva prodotto l’inesprimibile scossa? L’ingegnosità dei costruttori del proiettile era riuscita nell’intento che si era prefissata? Il colpo era stato assorbito grazie agli ammortizzatori, ai quattro cuscinetti, agli strati d’acqua, alle tramezze di attutimento? Era stato possibile imbrigliare la spinta spaventosa determinata da quella velocità iniziale di undicimila metri che sarebbe bastata a fare attraversare Parigi o New York in un secondo? Questa, indubbiamente, era la domanda che si facevano le migliaia di testimoni di questa scena sconvolgente. Essi avevano dimenticato lo scopo del viaggio per pensare soltanto ai viaggiatori. Se qualcuno di loro (Maston, per esempio) avesse potuto gettare uno sguardo nell’interno del proiettile, che cosa vi avrebbe visto? Proprio niente. Nel proiettile regnava l’oscurità più profonda; tuttavia le sue pareti cilindroconiche avevano resistito in modo ammirevole, senza incrinarsi, senza flettersi, senza minimamente deformarsi. Lo splendido ordigno non si era neppure alterato, sotto l’effetto della tremenda deflagrazione delle polveri, né liquefatto in una pioggia di alluminio, come si era temuto. All’interno, quindi, il disordine era pressoché nullo. Sì, qualche oggetto era stato proiettato violentemente verso la volta, ma quelli più importanti non sembravano aver sofferto; le corregge che li tenevano erano intatte. Sul disco mobile, abbassatosi sino alla culatta dopo lo spezzamento delle tramezze e la fuga dell’acqua, giacevano immobili tre corpi. Barbicane, Nicholl, Michel Ardan respiravano ancora, oppure il proiettile non era più che una bara di metallo entro la quale tre cadaveri venivano trascinati nello spazio? Pochi minuti dopo uno di quei corpi inerti si mosse, agitò le braccia, alzò la testa, riuscì a mettersi in ginocchio. Era Michel Ardan. Si tastò, lanciò un sonoro “ehm”, e infine disse: «Michel Ardan è tutto d’un pezzo. Adesso vediamo un po’ gli altri!» Fece coraggiosamente per alzarsi, ma non riuscì a tenersi dritto. La testa gli ondeggiava e il sangue che gli era salito al cervello lo accecava. Si sentiva come ubriaco. «Brrr!», mormorò, «Mi pare di avere bevuto d’un fiato due bottiglie intere di Corton! Peccato, però, che il sapore sia molto meno gradevole». Poi, dopo essersi passato più volte la mano sulla fronte ed essersi stropicciato le tempie, gridò con voce decisa: «Nicholl! Barbicane!» Attese ansiosamente, ma non ottenne alcuna risposta: neppure un sospiro gli indicava che il cuore dei suoi compagni battesse ancora. Tornò a chiamarli: di nuovo silenzio assoluto. «Diavolo», esclamò, «hanno l’aria di essere caduti di testa da un quinto piano! Beh», aggiunse allora con quell’imperturbabile fiducia che nulla poteva smuovere, «se un francese ha potuto mettersi in ginocchio, due americani non faranno certo fatica a rizzarsi in piedi. Ma prima di tutto illuminiamo la situazione». Intanto sentiva la vita tornargli a fiotti, le pulsazioni sanguigne calmarsi, la circolazione riprendere il ritmo normale. A poco a poco ritrovò pure l’equilibrio e riuscì finalmente ad alzarsi. Prese dalla tasca uno zolfanello, lo accese, lo accostò al becco. Il recipiente non aveva minimamente sofferto, cosicché non una molecola di gas ne era sfuggita. Del resto, il suo odore caratteristico lo avrebbe tradito, e in tal caso Michel non avrebbe certo commesso l’imprudenza di gironzolare con un fiammifero acceso in un ambiente saturo d’idrogeno. Il gas, infatti, combinandosi con l’aria, avrebbe prodotto una miscela detonante, e l’esplosione avrebbe concluso ciò che forse la scossa aveva iniziato. Non appena il becco si fu acceso, Ardan si piegò sui corpi dei compagni, i quali erano caduti riversi l’uno sull’altro, Nicholl sopra, Barbicane sotto, come due masse inerti. Ardan tirò su il capitano, lo appoggiò a un divano, e prese a massaggiarlo con vigore. Questa operazione, condotta con intelligenza, rianimò Nicholl, il quale aprì gli occhi e, ripreso immediatamente il proprio sangue freddo, afferrò la mano del giovane. Poi, guardandosi intorno, chiese: «E Barbicane?» «Uno alla volta», gli rispose tranquillamente Michel, «Ho cominciato da lei perché stava sopra: adesso passiamo a Barbicane». Detto fatto, Ardan e Nicholl sollevarono il presidente del g*n Club e lo adagiarono sul divano. Barbicane sembrava avere sofferto più dei compagni. Perdeva sangue, ma Nicholl si rassicurò subito nel constatare che l’emorragia proveniva da una lieve ferita alla spalla, una semplice scalfittura che si affrettò a comprimere energicamente. Passò tuttavia un certo tempo prima che Barbicane potesse riprendersi, facendo in tal modo spaventare i due amici che gli si prodigavano intorno. «Eppur respira», continuava a ripetere Nicholl accostando l’orecchio al petto del ferito. «Già», gli diceva Ardan, «respira come un uomo che abbia una certa abitudine a questa operazione quotidiana. Proseguiamo a massaggiare, Nicholl, continuiamo a massaggiare energicamente». I due medici improvvisati se la sbrigarono talmente bene che alla fine Barbicane recuperò i sensi. Aprì gli occhi, si tirò su a sedere, e dopo avere stretto la mano agli amici, queste furono le sue prime parole: «Nicholl, ci muoviamo?» Nicholl e Ardan si guardarono: avevano completamente dimenticato il proiettile, preoccupati anzitutto dei viaggiatori ma non del mezzo che li trasportava. «Già, ci stiamo muovendo?», ripeté Michel Ardan. «Oppure riposiamo tranquillamente sul suolo della Florida?», domandò Nicholl. «O magari in fondo al golfo del Messico?», ipotizzò Michel. «Questa, poi!», esclamò Barbicane. La duplice ipotesi suggerita dai compagni ebbe l’effetto di farlo tornare immediatamente in sé. Di certo non era ancora possibile pronunciarsi sulla situazione del proiettile. La sua immobilità apparente e qualsiasi mancanza di comunicazione con l’esterno impedivano di fare luce sul problema. Forse già descriveva la propria traiettoria nello spazio, ma poteva anche darsi che, dopo essersi sollevato per qualche istante, fosse ricaduto a terra o, peggio ancora, nel golfo del Messico, cosa che l’esiguità della penisola floridiana rendeva più che probabile. Si trattava di un dubbio angosciante ma interessante che si doveva risolvere al più presto. Barbicane, emozionatissimo, facendo leva con la propria forza interiore sulla debolezza fisica che lo prostrava, si rialzò e si mise in ascolto. Fuori il silenzio era assoluto, eppure l’imbottitura, ancorché spessa, avrebbe dovuto lasciare percepire i rumori della Terra. Un particolare tuttavia colpì Barbicane. All’interno del proiettile la temperatura era notevolmente salita. Il presidente tolse un termometro dall’astuccio che lo custodiva, e lo consultò: lo strumento segnava quarantacinque gradi centigradi. «Sì!», gridò immediatamente, «Sì, ci muoviamo! Questo calore soffocante che trasuda attraverso le pareti è prodotto dall’attrito del proiettile contro gli strati atmosferici. Presto comunque diminuirà dato che galleggiamo già nel vuoto. Dopo essere stati sul punto di soffocare dal caldo passeremo a un freddo intenso». «Come?», esclamò Michel Ardan, «Secondo te, allora, noi saremmo a quest’ora già oltre i limiti dell’atmosfera terrestre?» «Senza dubbio. Ascoltami bene, Michel. Adesso sono le dieci e cinquantacinque minuti. Siamo partiti circa otto minuti fa. Ora, se la nostra velocità iniziale non fosse stata diminuita dall’attrito, ci sarebbero bastati sei secondi per superare le sedici leghe di atmosfera che circondano il nostro sferoide». «Esattissimo», confermò Nicholl, «Ma in quale proporzione calcoli la diminuzione di questa velocità per effetto dell’attrito?» «Nella proporzione di un terzo. Si tratta di una diminuzione notevole, ma secondo i miei calcoli non può essere diversamente. Se dunque abbiamo avuto una velocità iniziale di undicimila metri, all’uscita dell’atmosfera tale velocità si sarà ridotta a 7.332 metri. In ogni caso, abbiamo già superato questo intervallo e…» «E allora», interloquì Michel, «l’amico Nicholl ha perso tutt’e due le sue scommesse: quella di quattromila dollari, dal momento che la Columbiad non è scoppiata, e quella di cinquemila, dal momento che il proiettile si è elevato a una quota superiore alle sei miglia. Dunque, caro Nicholl, tiri fuori i soldi». «Prima cerchiamo di essere sicuri della situazione. In quanto a pagare ci penseremo dopo», rispose il capitano, «È molto probabile che i ragionamenti di Barbicane siano esatti e che io abbia perduto i novemila dollari, tuttavia mi è venuta in mente una nuova ipotesi che annullerebbe la scommessa». «E quale sarebbe?», domandò con vivacità Barbicane. «L’ipotesi che per un motivo o per l’altro le polveri non si siano accese, e che pertanto noi non siamo mai partiti». «Caspita, capitano», esclamò Michel, «questa è un’ipotesi degna del mio cervello! Non può essere seria! Non siamo stati forse quasi massacrati dalla scossa? Non ho forse dovuto richiamarla in vita sudando quattro camicie? E la spalla del presidente forse non sanguina ancora a causa del contraccolpo?» «D’accordo, Michel, ma mi permetta di farle una sola domanda». «Dica pure, capitano.» «Ha per caso udito la detonazione, che senza dubbio dev’essere stata spaventosa?» «No», rispose Ardan, decisamente sorpreso, «Per essere sincero, non ho udito proprio nulla». «Barbicane?» «Nemmeno io». «E allora?», fece Nicholl. «Già», mormorò il presidente, «come mai non abbiamo udito la detonazione?» I tre amici si guardarono, profondamente perplessi. Si trovavano davanti a un fenomeno inspiegabile. Eppure il proiettile era partito e di conseguenza lo scoppio non poteva non essere avvenuto. «Togliamo i pannelli e cerchiamo prima di tutto di stabilire dove siamo», propose Barbicane. L’operazione molto semplice fu subito compiuta. I dadi che mantenevano fermi i bulloni sulle piastre esterne dell’oblò di destra cedettero sotto la pressione di una chiave inglese. Questi bulloni vennero quindi spinti in fuori e sostituiti con tappi guarniti di gomma per ostruire i rispettivi fori, che altrimenti sarebbero rimasti aperti. Immediatamente la piastra esterna ricadde sulla propria cerniera come un portello, lasciando apparire il vetro lenticolare che chiudeva l’oblò. Un oblò identico si apriva sull’altra faccia del proiettile, entro lo spessore delle pareti, un terzo nella cupola, e un quarto, infine, al centro della culatta inferiore. Era possibile in questo modo osservare il firmamento attraverso i vetri laterali in quattro direzioni opposte, e più direttamente la Terra o la Luna attraverso le aperture superiori e inferiori del proiettile. Barbicane e i suoi due compagni si erano subito precipitati al vetro così scoperto, ma non videro nulla: una totale oscurità avviluppava il proiettile, il che non impedì tuttavia al presidente di esclamare: «No, amici, non siamo ricaduti sulla Terra e nemmeno siamo precipitati negli abissi del golfo del Messico! Stiamo salendo verso lo spazio! Osservate le stelle che brillano nella notte e questa oscurità impenetrabile che si frappone tra la Terra e noi!» «Vittoria! vittoria!», gridarono insieme Ardan e Nicholl. La fittissima tenebra circostante stava infatti a dimostrare che il proiettile aveva abbandonato il globo terrestre perché altrimenti il suolo, vivamente illuminato in quel momento dalla chiarità lunare, sarebbe sicuramente apparso agli occhi dei viaggiatori, nel caso in cui questi si fossero trovati tuttora sulla sua superficie. Tale oscurità dimostrava altresì che l’ordigno aveva superato lo strato atmosferico, perché la luce diffusa sparsa nell’aria avrebbe anche in questo caso prodotto un riflesso sia pure tenue sulle pareti metalliche, illuminando il vetro dell’oblò, che era invece opaco. Pertanto, nessun dubbio era più concesso: i viaggiatori avevano definitivamente abbandonato la Terra. «Ho perso», ammise Nicholl. «E io mi congratulo con lei!», esclamò Ardan. «Ecco qua novemila dollari», aggiunse il capitano togliendo di tasca un fascio di banconote. «Vuoi una ricevuta?», domandò Barbicane accettando la somma. «Se non ti dispiace… è più regolare», rispose Nicholl. E con la massima serietà, flemmatico come se fosse stato davanti alla cassa del suo ufficio, Barbicane prese un taccuino, ne staccò una pagina bianca, scrisse a matita una ricevuta in piena regola, le diede una data, la firmò, vi mise sotto un bello svolazzo e la consegnò infine al capitano, che la ripose con cura nel portafogli. Michel Ardan si tolse il berretto e s’inchinò muto dinanzi ai compagni. Tante cerimonie in una circostanza come quella gli avevano tolto la parola. Non aveva mai assistito a nulla di più “americano”. Barbicane e Nicholl, terminata la loro transazione finanziaria, si erano riaccostati al vetro e stavano osservando le costellazioni, le quali risaltavano sul fondo nero del cielo come tanti puntini luminosi. Da quel lato, però, non era possibile scorgere l’astro delle notti che, avanzando da est a ovest, si elevava a poco a poco verso lo zenit. La sua assenza, quindi, portò Ardan a formulare la seguente osservazione: «E la Luna dov’è?», esclamò, «Possibile che intenda mancare al nostro appuntamento?» «Rassicurati», gli rispose Barbicane, «il nostro futuro sferoide si trova proprio dove deve essere, ma da questa parte non possiamo scorgerlo. Apriamo l’altro oblò laterale». Nel momento in cui si accingeva, così dicendo, a spostarsi per andare a liberare l’oblò di fronte, la sua attenzione fu attirata dall’avvicinarsi di un oggetto luminoso. Si trattava di un disco enorme, di cui non era possibile valutare le dimensioni colossali. La sua faccia rivolta verso la Terra brillava di un vivo chiarore. Si sarebbe detto che una piccola Luna stesse riflettendo la luce di una grande. Avanzava a velocità prodigiosa, parendo descrivere intorno alla Terra un’orbita che tagliava la traiettoria del proiettile. Al movimento di traslazione si univa un movimento di rotazione su se stesso. L’oggetto si comportava dunque come tutti i corpi celesti abbandonati nello spazio. «Ehi, ma che cos’è quella roba?», esclamò Michel, «Un altro proiettile?» Barbicane non rispose. L’apparizione lo stupiva e preoccupava. Uno scontro era possibile, con risultati spaventosi. Il proiettile avrebbe potuto subire una deviazione dalla propria rotta; oppure, un urto violento, troncandone lo slancio, avrebbe potuto precipitarlo verso la Terra; ma anche, infine, era possibile che esso fosse irresistibilmente trascinato dalla forza di attrazione del meteorite.
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