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“Marescià, buongiorno! Qua ci starebbe un messaggio telefonico per voi.”
Il carabiniere scelto Giovanpaolo Cacici restò immobile ad aspettare la risposta.
“Ti pigliò una botta di mutismo nelle corde vocali o devo leggermela di persona ’sta ambasciata?”
“Marescià, scusatemi tanto. Se volete l’ambasciata ve la posso fare pure io.”
“È per me o non è per me?”
“Sissignore, marescià, è per voi.”
“Allora non ti far pregare, che non è giornata.”
“E chill’ ’o fatto è proprio quello! Qua non è mai giornata, e questa è la paura mia!”
“Che vuoi dire, Cacì?”
“Che se ai cani dicendo, l’imbasciata che vi devo fare a voi non vi sta bene, vuje v’a pigliate con me e siccome m’aggio appriparata ’na serata come dico io, nun me vuless’ trovà di servizio tutta la nottata. Mi so’ spiegato, mo’?”
“Senti, o mi dici chi telefonò o ti sbatto di servizio fino a domani.”
“Oilloc’oì, pare che nunn’o sapevo. Io ’sto servizio al centralino lo tengo ’ngopp ’o stommaco. Ecco qua, ve l’ho scritto su ’sto pezzo di carta, accussì, come si dice, ambasciator non porta pena” concluse Cacici, consegnando un pizzino. In bella grafia c’era scritto: “Ha telefonato il colonnello Latella. Vuole essere richiamato.”
Il maresciallo maledisse l’universo conosciuto: da una settimana Urano gironzolava nel suo segno e sparava influssi avversi su Villabosco. Ci mancava pure il colonnello. Bonanno non era mai riuscito a instaurare un rapporto collaborativo col comandante provinciale. Né con lui né con altri ufficiali. La portava scritta nei filamenti del proprio DNA l’idiosincrasia verso tutto ciò che sapeva di organizzato e perfettino. Di militare. Il che era tutto dire. L’ufficiale e Bonanno parlavano due linguaggi inconciliabili: quello marziale della Benemerita di città, salotti e lustrini, e quello ruspante delle caserme dei suburbi, trazzere e galline. Ogni incontro uno scontro.
“Che altro ti disse il colonnello?”
“M’ha spiato dove stavate.”
“E tu che gli dicesti?”
“Che stavate fuori per servizio.”
“Bravo, passami il Comando provinciale.”
La voce del comandante provinciale risuonò stentorea nella cornetta: “Bonanno?.”
“Comandi, signor colonnello.” Odiava quelle formalità gerarchiche da fumetti fuori commercio.
“Ho ricevuto il suo rapporto e volevo esprimerle il mio plauso per l’esemplare dimostrazione d’ardimento e sprezzo del pericolo messo in atto da due nostri validi rappresentanti della Benemerita i quali, dopo lunghi e temerari appostamenti, sono addivenuti alla cattura di un pericoloso latitante, al secolo Mangiaracina Giuseppe, da mesi ricercato.”
Questo parla come un libro stampato, pensò Bonanno che disse: “Troppo buono, signor colonnello, non doveva incomodarsi.”
“Nessun disturbo, Bonanno, quando i complimenti sono meritati non bisogna lesinare. Dell’avvenuta cattura del ricercato ho provveduto a dare comunicazione agli organi d’informazione.”
Bonanno alzò un sopracciglio: pure quella mezza calzetta di Mangiaracina, inteso Porcufinu, sarebbe finito nel tritacarne mediatico. Manco fosse un terrorista. Potenza dell’Arma e di Prestoscendo, pensò.
“Ancora congratulazioni, Bonanno. Approfitto dell’occasione per informarla che a breve si insedierà il comandante di Compagnia, un capitano assai motivato e apprezzato per l’alto senso di responsabilità e le sue indubbie capacità investigative. So di poter contare su di lei per iniziarlo alla conoscenza del territorio.”
“Ottimo” disse Bonanno. Non ne poteva più delle incombenze che gravavano sulle sue spalle: turni di servizio, richieste di trasferimento, rapporti. E dell’invidia di Marcelli, il collega della Stazione.
“Ah, un’ultima cosa, maresciallo: Mangiaracina aveva assunto medicine o droghe?”
“Assolutamente no, perché?”
“Dopo il suo arrivo in carcere lo hanno dovuto ricoverare d’urgenza. Ha rigurgitato una vagonata di robaccia. Il direttore si chiedeva se avesse voluto fare il furbo, magari ingerendo qualche porcheria per ritardare l’arresto.”
Altro che porcherie, lo sapeva lui cosa aveva steso Mangiaracina: quaranta chilometri di curve a gomito e serpentine e tornanti bruciati a velocità folle. La guida di Steppani non dava scampo. Congedatosi dal colonnello, Bonanno si sentì meglio. Con l’arrivo del capitano sarebbe tornato alla solita occupazione di comandante del suo Nucleo Operativo, senza altre scocciature da burocrati dell’Arma. A lui piaceva il confronto diretto, scartavetrare le umane miserie per fare saltare fuori, sotto la patina di rispettabilità, l’animosità all’origine di tante nefandezze: passioni malsane, rancori covati per anni, fallimenti mai digeriti. Magagne comuni a tutti.
Si alzò per sgranchirsi le gambe. Si avvicinò alla porta finestra, l’aprì e osservò la strada. Un gatto nero frugava nel cassonetto della spazzatura, alzò il muso e lo fissò incuriosito. Era un bel micio dal pelo lucido, scuro come un fondo di caffè.
“Va’ via, iettatore” disse Bonanno, tirandogli il pacchetto arrotolato. Gli mettevano inquietudine i gatti neri. La superstizione era dura a morire dalle sue parti.
Il felino gli regalò uno sguardo scintillante e si allontanò fiero, con la coda alzata. Bonanno ritornò alla scrivania e il cuore prese a battere più in fretta. Si sentiva elettrizzato. Ripensò al suo incontro con Rosalia, a quell’innocuo invito a cena che sapeva di promessa. Ma scottato com’era dal proprio passato, aveva giurato che non ci sarebbe ricascato. Impegno che sino a quel momento aveva mantenuto senza troppa fatica, facendosi assorbire totalmente dal proprio lavoro. Ma da quando Rosalia aveva varcato per la prima volta la soglia del suo ufficio e gli aveva parlato di Michelino, il bimbo coinvolto nel rognosissimo caso dell’Upupa, Bonanno si ritrovava a cercare valide argomentazioni a sostegno del suo giuramento. Si esaminò con occhio impietoso e disfattista: sbirro di provincia prossimo alla quarantina, perennemente in sovrappeso, con una figlia che cresceva, un’ex moglie volatilizzata con un trapezista, una madre come donna Alfonsina e due cani spolpa divani.
Steppani aveva ragione: Rosalia era un monumento di donna e se solo si fosse guardata attorno, ne avrebbe trovati a centinaia meglio di lui. Perché farsi false illusioni? Le donne solo guai gli avevano portato. Eppure, appena si soffermava a pensare a lei, nel cuore germogliava la speranza, alimentata dall’aperta simpatia che Rosalia continuava a mostrargli fin dal loro primo incontro. O era lui che vedeva cuoricini rosa e si sentiva pieno di poesia perdendosi nell’incanto del panorama tanto caro? In lontananza, al di là dei caseggiati, il seminato cominciava a verdeggiare e la nipitella rifulgeva tra iris e mandragore che punteggiavano il sonno turchino di un inesplorato laghetto senza fondo. Un’unghia di cielo venuta giù in una notte senza luna. I racconti dei pastori tramandati di padre in figlio narravano di un giorno senza tempo. Pecore e agnelli belavano impauriti al rumore sordo e cupo della terra. Quando la gente si era precipitata a vedere, aveva trovato un budello scuro. In un attimo il nulla aveva inghiottito rocce e bestie facendo nascere da quel gorgo infernale un bellissimo lago. Sulle rive fiorivano le orchidee selvatiche. Tutt’attorno, il manto smeraldino della campagna sfumava in colline cerulee che si confondevano nel riverbero del giorno e delineavano in lontananza la sagoma possente dell’Etna innevato.
Natura e sentimento. Leggende e credenze. La sua terra.
Bonanno si raffigurò l’invito a cena, lui e Rosalia al chiarore ruffiano di una candela, un goccio di buon rosso di Vallevera, parole e sorrisi. Ma avrebbe mai trovato il coraggio di parlare a Rosalia di Emma? Delle profonde ferite che gli aveva lasciato? Cosa avrebbe detto dei fantasmi che si portava dietro e gli avvelenavano i giorni?
Al diavolo, ogni cosa a tempo debito.
L’orologio segnava appena le 11.10. Si sentiva troppo su di giri per smaltire le pratiche in giacenza. Indeciso se cedere alla curiosità o affidarsi alla sorte, capitolò e cercò sul quotidiano le previsioni dell’oroscopo: Mettete in evidenza le vostre doti di simpatia e comunicazione, non rifiutate eventuali inviti inaspettati, chi sa che non ci scappi l’incontro importante. Attenzione, però, prima di buttarvi a occhi chiusi nell’avventura, fate seguire un adeguato rodaggio.
La fiducia in se stesso toccò picchi altissimi: per una volta anche gli astri giravano dalla sua parte. Ringalluzzito da cotanto supporto, si avventò sull’elenco telefonico e compose il numero del primo fioraio che gli capitò sotto l’occhio, Verde in fiore. Ordinò trenta rose rosse dal gambo lungo.
“Provvediamo noi alla consegna o passa lei a ritirarle?”
La fiducia in se stesso franò rumorosamente. Non aveva pensato alla consegna. Rimase in silenzio, rimuginava pensieroso: se solo avesse fatto consegnare le rose, la notizia che il maresciallo se l’intendesse con l’assistente sociale si sarebbe sparsa alla velocità della luce; lo stesso se si fosse presentato lui con un gran fascio di rose. Rosalia amava i posti romantici e aveva preso casa nel centro storico di Villabosco, vicino alla chiesa di Santa Lidia Purpuraria. Per arrivarci bisognava scarpinare lungo le viuzze in pietra lavica, parcheggiando l’auto lontano, in piazza. E ogni casa aveva occhi e orecchie. E soprattutto, lingua lunga.
“Pronto, pronto, c’è ancora?” chiese la voce nella cornetta.
Il maresciallo non avrebbe voluto farlo, proprio no, ma agì come guardando se stesso da un’altra prospettiva e interruppe la comunicazione. Nello stesso istante, la soluzione ai suoi crucci gli apparve nitida nella sua immediata semplicità.
Mai cercare troppo lontano le soluzioni.
“CACIIIIIÌ” vociò affacciandosi sulla porta.
Cacici si precipitò ansante.
“Fammi un favore personale, Cacì, portati dal primo fioraio che trovi e ordina trenta rose rosse, gambo lungo, mi raccomando. Falle confezionare in un bel cesto. Devono recapitarle a questo indirizzo, allegandoci questo biglietto. Tutto chiaro?”
Cacici lo squadrò sconcertato.
“Che ti piglia?” domandò Bonanno.
“Mannaggia ’a morte e secondo voi io come dovrei stare dopo che mi avete fatto pigliare un panteco, mi avete fatto fare la corsa del ciuccio, e dopo che ’n’altro po’ mi scassavo ’a capa... e perché poi?”
Il maresciallo colse una nota di rimprovero nel tono del napoletano, e si disse che non aveva tutti i torti.
“Scusami, non ci badai, ero sovrappensiero” si giustificò, accostando la porta. Cuor partenopeo, sempre pronto all’amicizia, il sottoposto si rabbonì e Bonanno continuò: “Allora, siamo intesi? Trenta rose rosse, ma mi raccomando, massima discrezione, non devi farne parola con nessuno, il mio nome non deve figurare.”
“E al centralino chi ci pensa mentre io vado facendo rose rosse per te t’aggi’ accattato stasera?”
“Me la sbrigo io”.
Gli allungò i soldi e gli consegnò il biglietto ben chiuso in busta. Di getto, pensando a Rosalia, aveva scritto: A colei i cui occhi di cielo da soli specchiano il mare.
Al servizio di centralino rimpiazzò Cacici con Brandi, un altro dei suoi, e si dedicò alla seconda parte dei preparativi.
Dapprima ordinò un parfait di mandorle, poi andò di persona a La maison de parfume, la nuova profumeria gestita da tipi forestieri che come tanti cedevano ai francesismi quando si parlava di essenze e fragranze. Ignoravano che fosse stata la fiorentina Caterina de’ Medici, nel XVI secolo, ad introdurre in Francia la moda tutta italiana del guanto profumato, e che nel 1709, il piemontese Giovanni Maria Farina, stabilitosi in Germania, avesse inventato la celeberrima acqua di colonia.
Bonanno si dilungò nella scelta. Fiutò e provò decine di fragranze spruzzandole sulle apposite striscette. Alla fine, confuso e col naso ormai fuori uso, fu attratto dal nome Coeur de femme scritto con caratteri lucidi su una bottiglietta sigillata con una corona d’ametista.
“Questa” disse deciso.
“Ottima scelta” lo compiacque la commessa, magnificando, pedissequamente, la composizione di Coeur de femme: zagara, vaniglia, limette, sandalo e coriandolo. Bonanno infilò in tasca il pacchetto e si lasciò alle spalle quel luogo di perdizione. Rientrò in caserma che Cacici era già tornato.
“Allora, Cacì?”
“Tutto a posto, marescià. Trenta rose rosse col gambo lungo. Il biglietto l’aggio consegnato e l’indirizzo pure.”
“Bravo, Cacì, quando ti ci metti...”
“Ma che è ’stu fieto?” domandò il napoletano, annusando l’aria come un cane da tartufo.
“Di che parli?”
“Io sento come n’addore ’e femmeniello” disse Cacici, fissandolo sospettoso.
Bonanno si sentì avvampare: “Vedi cosa senti con quel naso da sbirro. Allora, se non c’è nient’altro da riferire...”
“Mo’ che mi ci fate pensare, quando ho chiesto se avevano rose rosse col gambo lungo, la signora m’ha guardato storto e m’ha spiato se avevo chiamato poco prima.”
“E tu che le dicesti?”
“E ch’avev’ a dicere? Fino a poco prima quel negozio manco sapevo che c’era.”
“Ti ricordi come si chiama?”
“E come no: Verde in fiore.”
Ad averglielo mandato apposta, Cacici quel fioraio non l’avrebbe azzeccato nemmeno se gliel’avessero piazzato davanti a quel suo naso indiscreto. Maledetto Urano. Congedato Cacici, si infilò in bagno e si diede una vigorosa sciacquata e si spruzzò addosso abbondante acqua di colonia per camuffare la fragranza femminile che gli era rimasta attaccata. Rientrò in ufficio fresco e olezzante. La porta si spalancò senza preavviso e la voce tagliente di Marcelli lo investì: “Complimenti, ora ci facciamo belli pure arrestando i rubagalline e ci becchiamo gli elogi. Bravo. Giusto per tua informazione, però, di là ci sta la signora Nina Favarò, moglie del sunnominato Peppino Mangiaracina, accompagnata dal suo avvocato. Sta sporgendo circostanziata denuncia contro di te.”
Ruggine e livore. Tonificato da allenamenti giornalieri, il maresciallo Filippo Marcelli, comandante di Stazione, avrebbe fatto impallidire perfino Marcantonio. Sfoggiava braccia muscolose a contenere il torace che poteva essere scambiato agevolmente per un divano familiare. Bonanno lo vedeva come il fumo negli occhi e gliel’aveva giurata quando la voglia di Marcelli di primeggiare aveva allarmato e fatto volatilizzare la sua fonte nel corso di una complicata indagine antiusura. Indagine abortita e guerra dichiarata. Senza esclusione di colpi. Simpatia che Marcelli ricambiava coi dovuti interessi. Più giovane e aitante, frequentatore di palestre, si accompagnava a belle donne e non sopportava di prendere ordini da un trippone come Bonanno, nominato comandante di Compagnia reggente durante la vacatio degli ufficiali per via della sua anzianità di servizio. Diversissimi, come due galli in un pollaio, si beccavano di continuo, detestandosi senza alcuna amabilità.
“E apri quelle finestre” concluse velenoso Marcelli, annusando l’aria schifato.
“Fatti un bidè ghiacciato” lo rimbeccò Bonanno.