Chapter 18

3471 Parole
VIII - Uno scandalo Mentre Miusov e Ivan Fëdoroviè entravano dall’igumeno, nell’animo di Pëtr Aleksandroviè, uomo fine e di buone maniere, avvenne un rapido processo, a suo modo delicato: egli si vergognò di aver perduto la pazienza. Egli avvertì dentro di sé che, in realtà, quel meschino di Fëdor Pavloviè meritava così poca considerazione da parte sua che egli non avrebbe dovuto perdere il proprio sangue freddo nella cella dello starec e lasciarsi andare come aveva fatto. “Per lo meno, quei monaci lì non hanno nessuna colpa”, concluse all’improvviso, giunto sul terrazzino d’ingresso dell’igumeno “e se ci sono persone perbene anche qui, (e padre Nikolaj, l’igumeno, deve essere anche lui di origini nobili) perché non essere gentili, cortesi e affabili con loro? Non mi metterò a discutere, sarò sempre d’accordo con loro, li conquisterò con la gentilezza e... e... alla fine, li informerò che non ho niente a che spartire con quell’Esopo, con quel buffone, con quel Pierrot e che ho preso una cantonata proprio come loro, come tutti loro...” Decise addirittura di concedere loro, definitivamente, il diritto di taglio nel bosco e di pesca nel fiume (di quali zone si trattasse neanche lui lo sapeva), quel giorno stesso, una volta per tutte, tanto più che quei diritti avevano un valore irrisorio, lasciando cadere così l’azione giudiziaria intentata contro i monaci. Tutte queste buone intenzioni si consolidarono quando entrarono nella sala da pranzo del padre igumeno. Non si trattava di una sala da pranzo vera e propria, perché il padre igumeno disponeva soltanto di due stanze, anche se molto più spaziose e confortevoli di quelle dello starec. Anche l’arredamento delle stanze non si distingueva per particolare lusso: i mobili erano in cuoio e mogano, secondo la vecchia moda degli anni ‘20; i pavimenti erano addirittura grezzi; in compenso tutto brillava di pulito, alle finestre c’erano molti fiori pregiati; ma in quel momento il principale lusso di quei locali era rappresentato, naturalmente, dalla tavola magnificamente imbandita, (sempre relativamente parlando): la tovaglia era candida, le stoviglie luccicanti; c’era pane di tre qualità cotto egregiamente, due bottiglie dell’eccellente miele del monastero e una grossa brocca di vetro con il kvas, prodotto nel monastero e rinomato in tutti i dintorni. Di vodka nemmeno l’ombra. Rakitin raccontò in seguito che il pranzo del giorno consisteva di cinque portate: zuppa di storione e piro~ki di pesce; pesce in bianco cucinato in modo sopraffino e particolare, polpette di storione, gelato e frutta cotta, per finire kisel’ sul tipo del blanc–manger. Rakitin aveva fiutato tutte queste buone cose, dal momento che non aveva saputo resistere e aveva sbirciato nella cucina dell’igumeno, dove pure aveva i suoi contatti. Aveva contatti dappertutto e otteneva informazioni dappertutto. Egli era di temperamento irrequieto e invidioso. Era perfettamente consapevole delle proprie spiccate capacità, ma le ingigantiva nervosamente nella sua presunzione. Era sicuro di diventare una personalità nel suo campo, ma Alëša, che gli era molto affezionato, si tormentava per il fatto che il suo amico Rakitin fosse disonesto e non se ne rendesse affatto conto, anzi, si considerasse persona di onestà cristallina, solo perché non avrebbe mai rubato del denaro dimenticato su un tavolo. Sotto questo aspetto nessuno avrebbe potuto influenzarlo, nemmeno Alëša. In quanto persona di basso rango, Rakitin non poteva essere invitato al pranzo; però padre Iosif e padre Paisij erano stati invitati, con loro c’era anche un altro ieromonaco. Essi erano già in attesa nella sala da pranzo dell’igumeno, quando entrarono Pëtr Aleksandroviè, Kalganov e Ivan Fëdoroviè. Anche il proprietario Maksimov aspettava in un cantuccio. Il padre igumeno avanzò verso il centro della stanza per accogliere gli ospiti. Era un vecchio alto, magro ma ancora vigoroso, con capelli neri abbondantemente brizzolati e il viso lungo e grave, da astinente. Egli si inchinò agli ospiti in silenzio e quelli, dal canto loro, questa volta si avvicinarono per ricevere la benedizione. Miusov tentò addirittura di baciargli la mano, ma l’igumeno fece in tempo a ritrarla e il baciamano non ebbe luogo. Invece Ivan Fëdoroviè e Kalganov ricevettero la benedizione con tutti i crismi, vale a dire con il più semplice schiocco di labbra sulla mano, come fa la gente del popolo. «Dobbiamo chiedere umilmente perdono, reverendissimo padre», esordì Pëtr Aleksandroviè sorridendo affabilmente, ma sempre con un tono grave e deferente, «perdono perché ci presentiamo da soli, senza l’altro ospite, Fëdor Pavloviè, che voi avevate invitato; egli si è visto costretto a declinare l’onore della vostra ospitalità, e non senza motivo. Nella cella del reverendissimo padre Zosima si è lasciato trasportare dalla disgraziata contesa con il figlio e ha pronunciato parole assolutamente fuori luogo... per farla breve... parole assolutamente sconvenienti riguardo a circostanze che, credo», e lanciò uno sguardo agli ieromonaci, «vi siano già note, reverendissimo. Pertanto, conscio della propria colpa e sinceramente pentito, ha provato vergogna e, incapace di superarla, ha chiesto a me e a suo figlio, Ivan Fëdoroviè, di farci testimoni dinanzi a voi del suo sincero rammarico, della sua desolazione, del suo pentimento... Insomma, egli spera e vuole porre riparo a tutto in seguito, ma al momento, implorando la vostra benedizione, vi chiede di dimenticare l’accaduto...» Miusov tacque. Pronunciate le ultime parole della sua tirata, egli si sentì pienamente soddisfatto di se stesso tanto che nel suo animo non rimase la minima traccia della recente irritazione. Era tornato ad amare l’umanità sinceramente, senza riserve. Dopo averlo ascoltato con aria grave, l’igumeno inclinò leggermente la testa da un lato e replicò: «Mi rammarico sinceramente per l’assente. Può darsi che alla nostra tavola egli avrebbe preso ad amare noi quanto noi lui. Ma vi prego, signori, favorite». Egli si fermò dinanzi a un’icona e cominciò a pregare ad alta voce. Tutti abbassarono rispettosamente il capo, mentre il proprietario Maksimov si mise persino davanti a tutti, giungendo le mani davanti a sé, con particolare devozione. E fu proprio in quel momento che Fëdor Pavloviè giocò il suo ultimo tiro. Bisogna dire che egli aveva avuto serie intenzioni di tornarsene a casa e aveva seriamente avvertito l’impossibilità di recarsi a pranzo dall’igumeno dopo il suo vergognoso comportamento nella cella dello starec. Non che si vergognasse tanto di se stesso o si ritenesse responsabile dell’accaduto – anzi, forse era vero il contrario – tuttavia si rendeva conto che sarebbe stato sconveniente prendere parte a quel pranzo. Ma gli avevano appena condotto la traballante carrozza al terrazzino d’ingresso della foresteria ed era sul punto di salirci, quando si fermò di colpo. Gli erano tornate in mente le parole che aveva pronunciato nella cella dello starec: “Quando incontro della gente, ho sempre l’impressione di essere il più meschino di tutti e che tutti mi prendano per un buffone, e allora mi metto davvero a fare il buffone di mia iniziativa, come a dire ‘tutti voi, dal primo all’ultimo, siete più stupidi e meschini di me’. Allora gli prese la voglia di vendicarsi con tutti per le proprie canagliate. A questo proposito, si ricordò all’improvviso che una volta, in passato, gli avevano domandato: ‘Per quale motivo odiate tanto quel tale?’ E lui allora aveva risposto in un accesso della sua spudoratezza buffonesca: ‘Ecco perché: è vero che non mi ha fatto nulla, ma io gli ho combinato una canagliata vergognosissima e, subito dopo avergliela combinata, ho cominciato ad odiarlo per questo’”. Ripensandoci in quel momento, egli sorrise tranquillamente, perfidamente e rimase un attimo sovrappensiero. Gli occhi gli scintillarono e le labbra ebbero persino un fremito. “Una volta cominciato, tanto vale finire”, decise ad un tratto. La sensazione più intima che provava in quel momento potrebbe essere espressa con le seguenti parole: “Dal momento che, a questo punto, non c’è verso di riabilitarmi, sputerò loro in faccia sino all’impudenza, solo per dimostrare che non mi vergogno dinanzi a loro, non per altro!” Ordinò al cocchiere di aspettare e si diresse di gran carriera al monastero, dritto dall’igumeno. Non sapeva ancora che cosa avrebbe fatto, ma era conscio di non dominarsi più e che sarebbe bastato un nonnulla per condurlo, in men che non si dica, al limite estremo di qualche oscenità, del resto solo di un’oscenità, certo non di un delitto o di altri colpi di testa per i quali avrebbe potuto incorrere in sanzioni penali. In tali casi, egli era sempre molto abile nell’evitare di oltrepassare il limite, tanto che, a volte, si meravigliava di se stesso. Fece la sua comparsa nella sala da pranzo dell’igumeno nello stesso istante in cui, terminata la preghiera, tutti si dirigevano verso la tavola. Fermatosi sulla soglia, lanciò un’occhiata all’intera compagnia e scoppiò in una risatina prolungata, insolente, cattiva, guardando sfacciatamente tutti negli occhi. «E loro che pensavano che me ne fossi andato, invece eccomi qui!», urlò a tutta la sala. Per un attimo tutti lo fissarono, in silenzio, e immediatamente tutti ebbero la sensazione che di lì a poco sarebbe accaduto qualcosa di ripugnante, grottesco, decisamente scandaloso. Pëtr Aleksandroviè passò in un batter d’occhio dal più favorevole al più feroce degli stati d’animo. Tutto il malanimo che si era spento e placato nel suo cuore risorse e s’impennò in un baleno. «No, questo poi non posso tollerarlo!», gridò. «Non posso tollerarlo affatto e... per niente al mondo!» Il sangue gli affluì alla testa. Egli farfugliò persino, ma non era quello il momento di pensare alla forma, e afferrò il suo cappello. «Che cosa non può fare?», urlò Fëdor Pavloviè «Cosa “non può affatto e per niente al mondo”? Reverendo, posso entrare o no? Mi accogliete come vostro commensale?» «Siate il benvenuto dal profondo del cuore», replicò l’igumeno. «Signori! Mi permetto di chiedervi», soggiunse ad un tratto, «dal profondo dell’anima, di abbandonare i vostri dissapori per riunirvi nell’amore e nell’armonia familiare, rivolgendo una preghiera al Signore alla nostra umile mensa...» «No, no, non è possibile», strillò Pëtr Aleksandroviè, fuori di sé. «E se non è possibile per Pëtr Aleksandroviè, allora non è possibile neppure per me e non mi fermerò. È per questo che sono venuto. Sarò sempre dov’è Pëtr Aleksandroviè, adesso. Pëtr Aleksandroviè: se ve ne andrete, io vi seguirò, se resterete, resterò anche io. Parlando dell’armonia familiare lo avete indispettito ancora di più, padre igumeno: egli non riconosce di essere mio parente! Non è vero, von Sohn? Ecco che c’è anche von Sohn. Salve, von Sohn». «Dite... a me?», borbottò il proprietario Maksimov sbalordito. «Proprio a te», gridò Fëdor Pavloviè. «A chi se no? Mica il padre igumeno potrebbe essere von Sohn!» «Ma neanche io sono von Sohn, io sono Maksimov». «No, tu sei von Sohn. Reverendo, lo sapete chi era von Sohn? Ci fu un processo penale: lo avevano ammazzato in un luogo di perdizione – credo che li chiamiate così quei posti voi – lo avevano ammazzato e derubato e, malgrado la sua veneranda età, lo avevano ficcato in una cassa, che poi avevano sigillato perbenino e spedito da Pietroburgo a Mosca col vagone merci, con il suo bravo numeretto. E mentre lo inchiodavano nella cassa, le donne di malaffare ballavano, cantavano e suonavano il gusli, volevo dire il pianoforte. Ecco: quello li è von Sohn in carne ed ossa. È resuscitato dal regno dei morti, non è vero, von Sohn?» «Ma che dite? Come può essere?», si levarono in coro le voci degli ieromonaci. «Andiamo!», gridò Pëtr Aleksandroviè rivolto a Kalganov. «No, per favore!», lo interruppe con voce stridula Fëdor Pavloviè avanzando ancora di un passo nella stanza. «Permettete che io termini. Là nella cella mi avete denigrato perché mi ero comportato in modo irrispettoso e solo per il fatto che avevo nominato i ghiozzi. Pëtr Aleksandroviè Miusov, mio parente, ama che nelle parole ci sia plus de noblesse que de sincerité, invece io preferisco che nelle mie parole ci sia plus de sincerité que de noblesse, io me ne frego della noblesse! Non è così, von Sohn? Permettete, padre igumeno, sebbene io sia un buffone e faccia la parte del buffone, tuttavia sono un paladino dell’onore e voglio dire la mia. Sì, sono un paladino dell’onore e in Pëtr Aleksandroviè c’è solo amor proprio ferito e niente di più. Io sono venuto qui poco fa forse proprio per dare un’occhiata e dire la mia. Ho qui mio figlio Aleksej che sta per prendere i voti, sono suo padre e mi preoccupo del suo futuro ed è mio dovere farlo. Mentre recitavo la mia parte, ho ascoltato tutto e ho osservato zitto zitto, e adesso voglio recitarvi l’ultimo atto dello spettacolo. Che cosa avviene da noi? Da noi, chi è caduto una volta, rimane a terra per sempre. Che non sia più così! Io desidero alzarmi. Padri santi, sono indignato con voi. La confessione è un sublime sacramento davanti al quale anch’io mi riempio di venerazione e sono pronto a prostrarmi, ma lì in quella cella tutti si mettono in ginocchio e si confessano ad alta voce. Ma è forse permesso confessarsi ad alta voce? I santi padri hanno istituito la confessione auricolare, solo così la vostra confessione può essere considerata un sacramento, e questo da tempi immemorabili. Altrimenti come faccio a spiegargli davanti a tutti che io, per esempio, ho fatto questo e quest’altro... capite che cosa intendo con questo e quest’altro? A volte è persino sconveniente riferire certe cose. Quello sì che sarebbe uno scandalo! No, padri, a seguire voi si scivola nell’eresia... Alla prima occasione scriverò al Sinodo e mi riporterò a casa mio figlio Alëša...» Qui c’è una cosa da notare. Fëdor Pavloviè aveva sentito il suono di certe campane. Un tempo erano state messe in giro certe voci malevole, giunte persino all’orecchio del metropolita (non solo riguardo al nostro, ma anche in merito ad altri monasteri dove vige lo starèestvo), secondo le quali gli starcy erano tenuti troppo in considerazione, persino a detrimento dell’autorità dell’igumeno; fra l’altro si diceva che gli starcy abusassero del sacramento della confessione e così via. Erano accuse infondate che si sgonfiarono da sole, sia da noi sia negli altri monasteri. Ma lo stupido demonio che aveva ghermito Fëdor Pavloviè e adesso lo conduceva sempre più giù, sulla scia dei suoi stessi nervi verso, un abisso di ignominia, gli aveva suggerito quella accusa sopita da tempo, della quale lo stesso Fëdor Pavloviè non capiva un’acca. Non aveva nemmeno saputo esprimerla correttamente, tanto più che quella volta nessuno si era messo in ginocchio nella cella dello starec, né si era confessato ad alta voce, quindi Fëdor Pavloviè non aveva avuto assolutamente modo di vedere niente di simile con i propri occhi, e parlava solo sulla base di vecchie voci e pettegolezzi che si era ricordato alla bell’e meglio. Ma una volta pronunciata questa sciocchezza, egli si accorse di aver raccontato una grossa fandonia e subito fu colto dal desiderio di dimostrare ai suoi ascoltatori, e soprattutto a se stesso, di non aver affatto raccontato una fandonia. E, sebbene sapesse alla perfezione che con ogni parola in più avrebbe solo reso quella fandonia ancora più assurda di quello che già era, non riuscì in alcun modo a trattenersi e si lanciò a capofitto. «Che bassezza!», esclamò Pëtr Aleksandroviè. «Perdonatemi!», disse ad un tratto l’igumeno. «In tempi antichi è stato detto: “E molti cominciarono a parlare contro di me e a pronunciare parole cattive su di me. Ma sentendo tutto quello, dissi a me stesso: ‘questa è la medicina del Signore, lui l’ha inviata per curare la mia anima vanagloriosa’ “. E per questo anche noi vi ringraziamo umilmente, ospite prezioso!» E fece un profondo inchino a Fëdor Pavloviè. «Bla bla bla! Il solito bigottismo e le solite frasi trite e ritrite! Frasi e gesti triti e ritriti! Le solite menzogne e la solita formalità delle genuflessioni fino ai piedi! Li conosciamo questi inchini! “Un bacio sulle labbra e un pugnale nel cuore”, come nei Masnadieri di Schiller. Non amo le falsità, padri, voglio la verità! Ma la verità non è nei ghiozzi, e questo io l’ho già dichiarato! Padri monaci, perché osservate il digiuno? Perché mai vi aspettate una ricompensa in cielo per questo? Per un premio simile andrei anche io a digiunare! No, monaco santo, sii virtuoso nella vita, fa’ del bene alla comunità, non chiuderti nel monastero dove trovi la pappa bell’e pronta, non aspettarti un premio lassù, ecco: questo sarebbe un po’ più difficile. Anche io, padre igumeno, so parlare come si deve. Che cosa avete preparato lì?», e si avvicinò al tavolo. «Porto Vecchio Factori, Médoc imbottigliato dai fratelli Eliseev, suvvia, padri! Altro che ghiozzi! Vedi che po’ po’ di bottigliette hanno messo in mostra i padri, eh, eh, eh! E chi ha procurato tutto questo? È stato il contadino russo, il lavoratore che porta qui il suo soldino guadagnato con le sue mani callose, strappandolo alla famiglia e ai bisogni dello stato! Voi, padri santi, spremete il popolo!» «È davvero indegno da parte vostra», disse padre Iosif. Padre Paisij taceva ostinatamente. Miusov si lanciò per uscire dalla stanza seguito da Kalganov. «Be’, padri, anche io seguirò Pëtr Aleksandroviè! Non verrò mai più qui da voi, anche se me lo chiederete in ginocchio, non verrò. Vi ho mandato mille rubletti, così avete aguzzato gli occhietti, eh, eh, eh! Ma non ne manderò altri. Mi vendicherò per la mia passata gioventù, per tutte le umiliazioni subite!», sbatté il pugno sul tavolo in un accesso di finta commozione. «Ha avuto un ruolo importante questo monasterucolo nella mia vita! Ho versato molte lacrime amare a causa di esso! Voi avete aizzato mia moglie, la klikuša, contro di me. Mi avete maledetto in sette concili, l’avete strombazzato ai quattro venti! Basta, padri, questo è il secolo del liberalismo, il secolo dei battelli a vapore e della ferrovia. Non avrete più nulla da me, né mille né cento rubli e neanche cento copeche!» Ancora una cosa da notare. Il nostro monastero non aveva giocato alcun ruolo nella sua vita ed egli non aveva mai versato lacrime amare a causa di esso. Eppure si era a tal punto lasciato trasportare dalle sue lacrime false che, per un istante, a momenti ci aveva creduto lui stesso, fu persino sul punto di piangere per la commozione; ma in quello stesso istante sentì che era ora di fare marcia indietro. Udita la perfida calunnia, l’igumeno chinò la testa e disse con lo stesso tono grave di prima: «È scritto: “Sopporta con circospezione e gioia l’infamia che senza colpa ti viene gettata addosso, fa’ che essa non provochi in te turbamento e non portare odio a colui che ti ha infamato”. E così faremo anche noi». «Bla bla bla, che arzigogoli! Sempre giù coi vostri sermoni! Arzigogolate pure, padri, tanto io me ne vado. E porterò via di qui mio figlio Aleksej per sempre, grazie alla mia autorità di padre. Ivan Fëdoroviè, rispettosissimo figlio mio, permettete che vi ordini di seguirmi! Von Sohn, che rimani a fare qui? Vieni con me in città. Da me si sta allegri. È solo a una versta di distanza. Invece di quell’olio quaresimale lì, ti offrirò un maialino da latte con la kaša, pranzeremo, metterò in tavola del cognac e poi un liquorino, ho della mamurovka... Ehi, von Sohn, non ti lasciar sfuggire una buona occasione!» E uscì, gridando e gesticolando. Ecco: proprio in quel momento Rakitin lo aveva visto uscire e lo aveva indicato ad Alëša. «Aleksej!», gli gridò il padre da lontano non appena lo scorse. «Oggi stesso ti trasferirai da me, portati il cuscino e il materasso, che non rimanga traccia di te in questo posto». Alëša rimase come impietrito ad osservare attentamente la scena, in silenzio. Nel frattempo Fëdor Pavloviè salì in carrozza e dietro di lui cominciò a salire Ivan Fëdoroviè, cupo e silenzioso, senza nemmeno voltarsi a salutare Alëša. Ma in quel momento, un’altra incredibile scena di grottesca buffoneria dette il tocco finale all’episodio. All’improvviso, accanto al montatoio della carrozza, comparve il proprietario Maksimov. Era tutto affannato dalla corsa che aveva fatto per non tardare. Rakitin e Alëša lo avevano visto correre. Andava così di fretta che aveva messo il piede sul predellino sul quale Ivan Fëdoroviè ancora poggiava la gamba sinistra e, aggrappatosi alla fiancata, tentava di balzare dentro la vettura. «Anch’io, anch’io sono dei vostri!», gridava, continuando a saltellare ed emettendo una risatina fitta e allegra, con il viso estatico e pronto a tutto. «Prendete su anche me!» «L’avevo detto io», gridò Fëdor Pavloviè con aria di trionfo, «che costui era von Sohn! È proprio il vero von Sohn resuscitato dal regno dei morti! Come hai fatto a scappare di lì? Che cosa hai vonsohnato laggiù, e come hai fatto ad abbandonare il pranzo? Bisogna avere proprio una bella faccia di bronzo! Io ho la faccia tosta, ma mi meraviglio della tua, fratello! Salta su, salta in fretta! Lascialo entrare, Vanja, ci divertiremo. Si sistemerà qui ai nostri piedi in qualche modo. Ti adatterai, vero, von Sohn? Oppure lo mettiamo a cassetta insieme al cocchiere?... Salta a cassetta, von Sohn!...» Ma Ivan Fëdoroviè, che si era già seduto al suo posto, senza dire una parola, con tutta la forza che aveva, dette uno spintone nel petto a Maksimov e quello fece un volo all’indietro di due metri. Ci mancò poco che cadesse per terra. «Andiamo!», gridò con rabbia Ivan Fëdoroviè al cocchiere. «Ma che ti prende? Che ti prende? Perché lo tratti così?», protestò Fëdor Pavloviè, ma la carrozza era già in movimento. Ivan Fëdoroviè non rispose. «Ma guarda un po’ che bel tipo!», disse ancora Fëdor Pavloviè dopo due minuti di silenzio, guardando in tralice il figlio. «Sei stato tu a combinare questa storia del monastero, tu hai aizzato, tu hai approvato, perché mai sei cosi irritato adesso?» «Adesso basta macinare stupidaggini, riposatevi almeno un po’!», tagliò corto severamente Ivan Fëdoroviè. Fëdor Pavloviè tacque ancora per un paio di minuti. «Ci vorrebbe proprio un bel cognacchino adesso», commentò sentenziosamente. Ma Ivan Fëdoroviè non rispose. «Quando arriviamo a casa, berrai anche tu». Ivan Fëdoroviè continuava a tacere. Fëdor Pavloviè aspettò ancora un paio di minuti. «Comunque, porterò Alëška via dal monastero, anche se questo non vi farà molto piacere, rispettosissimo Karl von Moor». Ivan Fëdoroviè scrollò le spalle con aria sprezzante e, voltatosi dall’altra parte, si mise a guardare la strada. Non aprirono bocca per tutto il tragitto fino a casa.
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