* * *
«Ecco le quarte!»
I soliti ben informati tra mamme, nonni e qualche padre in caotico assembramento all’ingresso della Gian Battista Vico! Certo che una mano di pittura non farebbe male a questo edificio! Mi sa che non vede un pennello proprio dal 1942, l’anno XX che si legge ancora accanto alle tracce dei fasci rimossi dopo il 25 luglio segnato dal destino insieme con l’originale intestazione a Costanzo Ciano e il Regia che precedeva Scuola Elementare sulla facciata.
I bambini scendono a valanga le scale interne, sordi alle raccomandazioni e ai rimproveri delle maestre sopraffatte dalla frenetica corsa verso ore libere. Si arrestano sulle porte, quadrettanti, in bianco le femminucce in blu i maschietti. Chi col fiocco disfatto, chi con il colletto storto o la cartella aperta. A uno gli cade l’astuccio e le matite colorate zampillano impunite giù per la scalea… Una maestra ordina il rompete-le-righe agli alunni e… giù tutta la pipinara festosa e caciarona!
«Mamma… nonna… nonno…» ci abbraccia Anita quasi senza fiato per le scale fatte sul filo del capitombolo e per la sorpresa.
Ci facciamo largo a fatica tra capannelli di gente che aspetta le altre classi e quelli che, con figli già a fianco, si attardano a spettegolare e ce ne hanno una per tutti. Per le maestre che danno troppi compiti; per quelle che scioperano e restano indietro col programma; per il direttore che non si fa rispettare; per il vigile di Piazzale degli Eroi che va a prendere il caffè mentre il traffico impazzisce; per la madre di Riccardo che non corregge il figlio troppo turbolento; per i genitori di Selvaggia che vestono la figlia come la valletta di Domenica in, e non va bene!... Che poi vorrei capire come hanno fatto a vedere i vestiti di Selvaggia se tutti i bambini portano il grembiule! Semmai, questo lo penso io, i genitori di Selvaggia andrebbero perseguiti per il nome che le hanno imposto!
«Nonno, nonno… lo sai che è successo oggi?»
Quando ’sta scopetta si rivolge direttamente a me c’è sempre di mezzo una birbonata, stai a vedere…
«La signora Soldi… la maestra…» e le prende la risaruola, quella che si diventa tutti rossi, con le lacrime, e alla fine ti viene pure il mal di pancia.
«Che ha fatto la maestra? Dai, calmati!»
«La maestra… ha ruttato!» e altre risate a perdifiato.
«Come?!» A me viene subito da ridere. Alle donne un po’ meno. Anzi, per niente.
«A ricreazione… Viene sempre il signore del bar con i cornetti e le pizzette e porta pure il caffellatte alle maestre… Lei l’ha bevuto e dopo… ha ruttato!»
«Ma… s’è proprio inteso?» le risate spingono ma le ricaccio giù.
«Eccolo qua, Serpico! – motteggia Marietta. – Adesso devi aprirci un’inchiesta?!»
Ma Anita è già partita. Non le pare vero!
«Sì, sì! Ha fatto proprio…» e imita il rutto. Piuttosto basso, per fortuna, perché a quel che emerge da una prima indagine, si direbbe che la maestra si sia contenuta quanto a “sonoro”, ma non abbia mascherato l’espressione del volto a metà tra il sollievo e il disgusto per probabile acidità refluente… Ed è la faccia, si capisce, che ha fatto sbellicare i ragazzini sempre pronti a cogliere in fallo l’autorità!
«Hai tanti compiti per domani?» scantona Elisabetta.
«No. Anzi… lunedì e martedì c’è il ritiro per la Comunione. Mi dovete fare la giustificazione» ribatte pronta.
E siamo arrivati da Casa Loma. C’è solo un altro tavolo occupato e Sergio dice che possiamo sederci dove vogliamo. Scegliamo un tavolo a sinistra, all’angolo. È uscito il sole. Penetra tiepido e gioioso dalle porte a vetri a inondare le tovaglie candide su cui disegna ghirigori iridescenti passando per il cristallo dei bicchieri.
«Buongiorno!» è Giancarlo, l’altro proprietario. Ci saluta sorridente dietro il barbone scuro prima di entrare in cucina.
Anita mangia e si incanta a guardare i motivi floreali rosso-arancioni della carta da parati che riveste il soffitto.
«Dopo voglio la fettina panata…» dice. La bocca accesa di sugo.
«Prima finisci la pasta!» rintuzza la madre.
Che musica le voci di casa! Melodia che carezza e ristora come questa luce che entra portando pace senza stagione. Potrebbe essere luglio, settembre… anche gennaio, ché a Roma certe volte fa delle giornate con il cielo di smalto e gli aerei lasciano la scia che poi si sfalda come zucchero filato. Ondine irruente e ingenue di un mare d’aria limpida che allontana i lamenti lugubri delle ambulanze, delle pantere, i clacson nevrotici della gente che non sa più ridere e pensa che dare una precedenza sia una sconfitta personale. In cucina c’è la radio accesa. Pippo Franco, per la gioia di Anita:
“…mi scappa la pipì,
mi scappa la pipì,
mi scappa la pipì, papà!”
Ha finito i rigatoni e le è arrivata la cotoletta panata. Non avrei dovuto, ma l’ho imitata. Ci spremo su mezzo limone: dicono bruci i grassi… Speriamo. Marietta mangia una scaloppina. Elisabetta solo insalata. I giovani pare si divertano a stare a dieta. Io cadrei in depressione dopo tre giorni!
«Mi piacerebbe tanto il disco di Pippo Franco!» la butta lì Anita.
Rapido scambio di sguardi tra nostra figlia e noi. Accordo raggiunto. Caccio di tasca un Galileo:
«Vai a vedere se il negozio di dischi qui accanto è ancora aperto. Se ce l’hanno prendilo e… porta il resto, quelle sono duemila lire!»
La bambina butta giù a tempo di record gli ultimi pezzi di carne e saetta fuori.
«Un altro quartino?» propongo, visto che il mezzo bianco è al licchio. Ma stavolta l’accordo non c’è e mentre Anita torna raggiante con il 45 giri e il resto io mi consolo con la Ferrarelle.
«Caffè?»
«Tre caffè» chiedo a Sergio che s’è avvicinato e scherza con la piccoletta fingendo di volerle portar via il disco.
* * *
Via Ottaviano 9 è un bel portone in un palazzo primi Novecento. Due battenti di legno pesante con pomi e maniglie d’ottone ben lucidati.
Nella sede del MSI ci sono tre camerati. Due uomini e una ragazza. Dev’essere una giornata morta. Uno si vede che è fascista meglio che se stesse in orbace. Alto e secco, col pizzetto. Sui trentacinque. Ci sciacqua nel doppio petto grigio con sotto la dolce vita nera. Occhi grandi ma infossati sotto folte sopracciglia nere. Fronte stempiata, capelli lisci impomatati… da fascista. Di certo è il più importante dei tre perché gli altri, il giovane coi capelloni e la barba più adatti a un attivista dell’avversa parrocchia e la ragazza che non deve avere vent’anni ma si vede dalla faccia dura che sa già ciò che vuole, fanno parlare sempre lui.
«Come posso esserle utile, commissario? Sappia comunque che qui non nascondiamo nulla. Non siamo terroristi, noi. Quelli deve andare a cercarli nei covi comunisti» polemizza un po’.
«Io le ho detto chi sono, – rispondo a vanvera – ora lei mi dice con chi ho il piacere di parlare?» A dire il vero vorrei chiedergli se secondo lui dovrei cercare nei covi rossi pure quelli di Piazza Fontana, dell’Italicus o di Brescia…
«Vuole i documenti?»
La ragazza e il barba sembrano un po’ nervosi, sul divanetto dove stanno dacché sono entrato.
«No. Soltanto sapere il nome del galantuomo che ho dinanzi!» mo’ mi arriva una manganellata!
«Avvocato Benito Franco. Franco è il cognome.»
Tutto un programma! Manca Adolfo! Mi pare di intuire come la pensa il padre!
«Conosce il signor Alfredo Mancini, avvocato Franco?»
«Dovrei?»
«Risulta iscritto al vostro partito, in questa sede. Tessera 9797.»
«Caro dottore, non rammento a memoria tutti gli iscritti. Sa com’è, contrariamente a quanto si dica o si voglia far credere, non siamo poi così pochi!»
Sorrido.
«Avete uno schedario dei vostri iscritti?»
«Servirebbe a qualcosa appellarsi alla riservatezza?»
«In questo caso… ho paura di no.»
«Mi dica almeno se ha commesso qualcosa. Sa, il partito non ammette…»
«Se ha commesso qualcosa, ormai ne starà rendendo conto a Domineiddio: è morto. Ucciso questa notte.»
Non si scompone.
«Ha dei sospetti?»
«Nessuno. Per questo sto cercando in giro. E siccome Mancini risulta solo al mondo e l’unica cosa che abbiamo trovato oltre il documento d’identità è la tessera del MSI, vengo a sentire se qualcuno ha qualcosa da dirmi sul suo conto. Per fargli giustizia.»
«Vado a prendere la sua scheda.» Si allontana zoppicando.
Resto con gli altri due che quasi subito diventano uno, anzi una, perché il barbuto chiede licenza e si allontana in un’altra stanza. A una parete c’è il baffo sornione di Almirante vicino a un manifesto con la fiamma tricolore. Un altro cartellone ricorda Mantakas. C’è pure il ritratto di un austero signore con il monocolo che dovrebbe essere, se non mi sbaglio, quel filosofo bizzarro… Julius Evola. Ah, sì: Evola. C’è pure scritto, in basso. Immancabile il ritratto del Duce con elmetto nero da Primo Caporale d’Onore, aquilona dorata, mascella volitiva e sguardo rivolto ai destini della Patria…
Torna l’avvocato Benito Franco senza Adolfo.
«Tutto quel che sappiamo del ca… del Mancini – ingoia camerata per scantonare l’apologia – è scritto qui.»
Non c’è tanto. Le note anagrafiche corrispondono. A parte che adesso c’è da aggiungere 20 aprile 1979 al 31 maggio 1918 che era la data di nascita. Ha combattuto nel VI Battaglione Camicie Nere Africa Settentrionale dal 1940 al ’42, poi è stato a Salò dall’agosto 1943. Storia antica! Quello che mi calamita invece è un particolare che i miei efficientissimi subalterni non mi hanno riferito: a settembre del ’77 Mancini è stato tra gli arrestati per l’omicidio di Walter Rossi! Qui è scritto che il partito lo ha cassato dai suoi iscritti e lo ha reintegrato soltanto dopo che ne è stata appurata l’estraneità al delitto.
«Quel 30 settembre di due anni fa Mancini c’era a Viale delle Medaglie d’oro, ma c’era solo perché frequentava la sezione. Quando quello è stato ammazzato…» spiega Benito Franco senza Adolfo.
«Quello, come dice lei, era un ragazzo di venti anni!»
«Vabbe’, insomma… – inciampa – Mancini stava lontano, e dopo lo avete arrestato perché si era messo in mezzo tra i poliziotti e gli altri camerati che venivano fermati…»
Meglio d’un verbale! E questo perché di Mancini ricordava a malapena il nome…
«Lei c’era, a Viale delle Medaglie d’oro?» lo sfruguglio.
«No.»
«Io ce stavo» s’inserisce la ragazza con una vociona da fumatrice che mi fa rizzare i peli sulla schiena.
Manco le rispondo. Soddisfazione non gliela do. Crede che esser stata sul luogo dove hanno stroncato l’esistenza di un giovanotto sia motivo di vanto, è chiaro! Lo pensi pure… La vita troverà il modo di farglielo rimporre.
«Va bene… niente di nuovo. La ringrazio» taglio corto e gli porgo ostentatamente la destra a castrargli il saluto romano.
Mi rode tanto, però, venire a sapere certe cose da estranei!
Arrivo in ufficio buio come un temporale. Gelo. Solo il brigadiere Corasanìti mi si avvicina con il consueto alito cipollato del pomeriggio:
«Dottore, l’hanno cercata con urgenza il signor questore e il signor vicequestore…»
«Cacchio! E che è scoppiata la guerra?!»
«Beh, la guerra forse no, dottore, ma… sa quel giovanotto di Torpignattara? Quel Ciro Principessa…»
«Certo che lo so, brigadiere! Che è successo?»
«È morto. Si temono scontri…»
Merda secca! Mi dispiace che il ragazzo sia morto, si capisce, ma in questo momento mi dispiace più per me: sono rimasto irreperibile per oltre mezza giornata… è la volta che mi congedano con disonore!
«Abbiamo pure provato a chiamarla a casa, commissario, ma la sua signora in un primo tempo non c’era e poi quando ha risposto ci ha detto che lei era fuori e che poc’anzi l’aveva avvertita che sarebbe rimasto in giro per indagini sull’omicidio di Via Angelo Emo…»
«Infatti!» confermo.
Le gambe mi fanno Giacomo-Giacomo. Benedico Marietta che deve aver capito l’antifona e mi ha coperto tacendo che sono stato a pranzo con loro… Quanto la amo!
Con il questore e con il vice mantengo la versione: mi scuso pro forma perché «non ho avuto lo scrupolo di telefonare almeno una volta in ufficio per sapere se vi fossero emergenze» ma sottolineo che ho voluto battere a caldo l’unica pista disponibile, quella della sezione del MSI, per cercare di capire qualcosa di più sulla vittima di un omicidio tanto brutale. Pare che se la bevano. E poi hanno altro per la testa: la bomba al Campidoglio ha fatto più danni di quanto sembrasse in un primo momento. Argan è furioso. Il ministro Rognoni ha telefonato almeno tre volte berciando come un tarantolato perché a sua volta Andreotti gli sta col fiato sul collo e pare che pure Pertini si stia agitando parecchio… Cavoli loro!
«Mi sa dire, Cipriani, perché stamattina non mi avete detto che Mancini era stato preso per l’omicidio di Walter Rossi?»
È la prima volta che vedo il mio vice in imbarazzo. E mi dispiace, sono sincero. Però, come diceva mia nonna, il medico pietoso fece la piaga puzzolente!
«Avete visto il documento del Casellario giudiziale? Avete visto il fascicolo del nostro archivio? Chi li ha cacciati ’sti documenti, Santa Madonna!»
«Li abbiamo visti. Li ho visti personalmente… Di quell’arresto non c’è nota…»
«E che cazzo significa, mi scusi?! Un arresto che figura nella scheda personale di un militante di partito non risulta alla polizia!!»
«Sembrerebbe così….»
Un solco in mezzo alla fronte di Cipriani disegna la gravità della faccenda.
«Chiami De Gennaro all’archivio e si faccia portare copia del dossier sull’omicidio Walter Rossi.»
«Pensa ci sia un nesso tra…»