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Il discepolo

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Trafiletto

Emanuele, iscritto alla facoltà di Giurisprudenza, consuma il suo tempo nell’ozio. Un ex compagno di scuola, Federico, una sera lo porta in un locale dove conosce Luciana, più grande di lui di vent’anni, della quale subisce il fascino e il carisma.Lentamente la vita dei protagonisti precipita in una spirale di follia, che li porta a perdersi in un incubo senza speranza in cui la violenza pervade le loro azioni e i loro pensieri, costringendoli a divenire vittime e carnefici di un rituale che segnerà definitivamente le loro esistenze.Sullo sfondo, una Bergamo ambigua e inquietante, con i silenziosi boschi appartati e misteriosi e il frastuono della musica assordante dei suoi locali notturni.

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1 Che il mondo fosse uno schifo era un’amara consapevolezza che avevo acquisito. Trascorrevo il tempo occupandomi di me stesso, preoccupandomi di dare cura e profondità al mio bisogno di esistere, cercando una verità sullo scopo della mia vita. Non avevo ancora un’eleganza e una raffinatezza logica per dare splendore e sapienza ai miei pensieri, probabilmente non ne sentivo neanche la necessità. Avevo compiuto vent’anni. Possedevo un diploma di perito industriale, e avevo messo piede all’università, iscritto al primo anno della facoltà di Giurisprudenza. Non avevo mai frequentato un corso, né mai avevo letto una pagina di quei libri di diritto. Avrei fatto volentieri a meno dell’esperienza universitaria, ma non mi era stata data altra scelta dai miei genitori, i quali avevano previsto per me un futuro da avvocato. Avevo cercato di non alimentare in loro quella speranza, mi ero opposto, come può fare contro i genitori un ragazzo di diciannove anni, ma niente, non c’ero riuscito. Mia madre, molto spesso, dopo lunghe e inutili lotte verbali, cercava di essere più efficace erompendo in pietose e disperate crisi di pianto, che mi mettevano addosso angoscia e sgomento. Mio padre mi colpiva col silenzio, e con l’indifferenza; solo qualche volta sospirava, con lo sguardo rivolto a mia madre, come se volesse dimostrare fastidio più che dispiacere per quel pianto. Per giustificare il mio insuccesso universitario, sostenevo con mia madre la volontà di essere interessato piuttosto alla ricerca del lavoro. Impiegavo, di conseguenza, le mie giornate standomene seduto davanti al computer, compilando il mio curriculum vitae, che spedivo ad “aziende attive nel settore dell’elettronica”, nel quale sottolineavo la mia brillante votazione conseguita alla Maturità e la mia buona conoscenza della lingua inglese. Ogni tanto, nel pomeriggio, veniva a trovarmi a casa un mio compagno di classe delle superiori. Era stato bocciato all’esame di maturità, e quindi era iscritto e frequentava ancora l’ultimo anno dell’Istituto Tecnico. Non avevo di lui nessuna stima, e neanche avevo molto da dire; covavo piuttosto rabbia e risentimento nei suoi confronti perché, qualche anno prima, la mia ragazza mi aveva lasciato per mettersi con quello, preferendolo a me. Non gli avevo mai perdonato quell’offesa. Federico, così si chiamava, mi aveva ripetuto più volte che se avesse saputo che saremmo diventati amici non avrebbe mai più pensato di poter cedere alle avances di quella, che dopo neanche una settimana aveva lasciato anche lui per provarci con un altro. “Era una stronza!” diceva tutte le volte, dando il suo giudizio perentorio su Anna, la ragazza che anch’io avevo amato. Poi parlava di sé, alludeva a scelte estreme che avrebbe dovuto intraprendere, per dare una svolta decisiva alla sua esistenza. Restava a fissarmi, cercando di scoprire nel mio sguardo un’emozione di interesse o di curiosità per quelle allusioni che, contrariamente alle sue aspettative, mi suscitavano nausea e intimo sdegno. Me ne stavo chiuso in casa, aspettando la chiamata di una di quelle aziende alle quali avevo inviato il mio curriculum. Solo qualche volta uscivo per fare un giro tra i viali deserti che si perdevano in mezzo alle villette di Longuelo, il quartiere di Bergamo dove abitavo con i miei genitori. C’eravamo trasferiti da poco più di un anno, lasciando la vecchia casa di Celadina, le cui due stanze e cucina erano diventate strette per contenere tutto il fardello di cose della famiglia. Mio padre dipingeva. Il suo studio era pieno zeppo di quadri, accatastati l’uno sull’altro. Erano dipinti raffiguranti paesaggi urbani e alpini. Si ripetevano, nelle cornici dorate, scorci di archi segnati dal tempo, incastrati tra vecchie case di pietra scura. Passava giorni e giorni in piedi davanti al cavalletto, spandendo colore che, evidentemente, non trovava né forma né armonia in quelle raffigurazioni povere di immaginazione. Dipingeva case, piazze e montagne standosene in ritiro in quell’angolo di mondo che non gli permetteva di dare valore ed espressione ai colori e alle luci, che i suoi occhi non avevano mai visto né mai la sua mente aveva potuto immaginare. Lo guardavo, quando mi capitava di entrare in quel tabernacolo, a volte entravo solo per osservarlo, e fingevo di cercare qualcosa. Egli non si scomponeva, neanche faceva cenno di interessarsi alla mia intrusione. Nessuna ispirazione agitava la sua anima. Lo testimoniavano quei dipinti e tutto quanto dava volume a quella stanza senza vita. A certe ore il quartiere sembrava piombare in un silenzio irreale. Gli alberi, non ancora cresciuti, lungo i marciapiedi disegnavano per terra ombre tremule e incerte. Le porte sbarrate delle ville facevano pensare che fossero disabitate. La sera, mi appassionavo alla lettura di alcuni libriccini che avevo trovato frugando nello studio di mio padre. Erano biografie di pittori famosi, che davano informazioni sulla loro vita e sul tempo in cui erano vissuti; in appendice, riportavano tavole illustrate delle loro opere. Restavo in contemplazione, affascinato dalle scelte pittoriche di quegli artisti: mistiche e provocatorie, realistiche e misteriose, pietose e allegoriche. In ciascuna si coglievano i segni di una medesima ispirazione, come se avessero dipinto per la stessa necessità. La luce che emanavano quelle opere, apparentemente frutto di epoche di pensiero e di scuole differenti, in realtà rendeva a tutte la stessa suggestione espressiva e la stessa carica emotiva. Pensavo a mio padre, alle sue tele, e capivo quanto fosse lontano da ogni possibilità di elevazione. Quei pittori avevano trascorso la vita alla ricerca della forza ispiratrice dell’arte, cercando nell’anima il soffio di quella ispirazione. Avevano messo a rischio la vita, in certi casi l’avevano maltrattata fino alla malattia e alla morte. Mio padre, invece, non aveva mai rischiato niente, neanche il respiro, che tratteneva gelosamente, per non dare l’opportunità a nessuno di rivolgergli una parola. Provavo dispiacere per lui, perché adesso avevo la certezza che non era mai stato un pittore né mai lo sarebbe diventato.

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