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Una sera, la pace del quartiere venne turbata dalle sirene di due volanti della polizia, che irruppero sgommando ad alta velocità. Gli agenti scattarono, scendendo dalle macchine e correndo su per le scale di una villetta poco distante dalla nostra.
Mia madre si precipitò alla finestra della cucina, il cuore in gola per lo spavento. Qualcuno si affacciò ad un’altra finestra, sporgendo con la testa. Altri uscirono fuori dalle case, con l’espressione smarrita, gli sguardi svaniti, cercando una ragione di quel tumulto. Mormorii increduli, gesti accennati che non trovavano risposte da parte di nessuno.
I poliziotti erano entrati nella casa ed avevano chiuso la porta. Due di loro erano rimasti nelle macchine, parlavano concitatamente alla radio.
Mia madre si precipitò nello studio, cercando di portare mio padre con lei dall’altra parte: “I poliziotti! Alfredo! I poliziotti!”.
Le rispose con un freddo mugugno di indifferenza, intenzionato a non voler abbandonare la tela che stava imbrattando.
Mia madre non insistette con lui, corse nel corridoio venendo verso la mia stanza. Aprì la porta: “Emanuele! I poliziotti! Vieni a vedere! Vieni!”.
Uscii, per farle piacere. Le andai dietro, lentamente, mentre lei batté i tacchi, correndo in cucina. Si affacciò alla finestra: “L’ambulanza, Emanuele! È arrivata l’ambulanza!” disse, facendomi posto perché mi affacciassi.
Restai in piedi, evitando di sporgermi. Guardai fuori. I poliziotti erano intorno ai portantini che scendevano le scale, sollevando la barella sulla quale pesava il corpo di qualcuno, coperto completamente da un lenzuolo.
“Dio mio! È morto!” esclamò mia madre, soffocando nel respiro.
Un clamore sordo soffocò il petto di quanti erano rimasti ad assistere a quell’evento scioccante e imprevisto.
Davanti alla porta della villa i familiari piangevano inconsolabili. Una donna si trascinava dietro alla lettiga spalancando la bocca, con gli occhi appannati dal pianto e dalla disperazione. Allungava le braccia, cercando il contatto col morto, che non voleva assolutamente che le fosse portato via. La seguiva un signore, piangeva con lo stesso dolore e lo stesso smarrimento, quasi cercasse un appiglio che gli consentisse di rimandare quel distacco definitivo.
I portantini caricarono il corpo sull’ambulanza. La donna, perse definitivamente le forze, collassando su se stessa. I poliziotti la afferrarono e la sorressero, mentre il signore abbracciò la donna con delicatezza, sospirando per l’affanno che gli stava bruciando la gola. Il portellone dell’ambulanza si richiuse. I poliziotti caricarono la donna su una macchina, il signore entrò e sedette accanto a lei. Gli agenti dissero poche cose tra loro e con gli operatori sanitari, poi fecero cenno che erano pronti per partire. L’ambulanza si mise in movimento, seguita dalle volanti della polizia, che azionarono le sirene.
Mia madre seguì con lo sguardo la corsa delle macchine, asciugandosi le lacrime che le erano scese copiose sul viso. Il corteo dei curiosi fece ritorno nelle proprie case.
“È morto il figlio dei Belotti!” disse qualcuno, sporgendosi dalla finestra.
“Oh, Signore!” commentarono i pochi che erano rimasti ancora sull’uscio delle case.
“È morto il figlio dei Belotti!” ripetè mia madre, incredula e spaventata.
“Com’è morto?” chiese sottovoce, con la stessa incredulità e lo stesso sgomento, la signora affacciata alla finestra di fianco.
“Cose strane” biascicò, con timore e dubbio, qualcuno dalla strada. “Lo hanno trovato nudo sul letto della sua stanza, il corpo ferito da tagli profondi. Le pareti imbrattate da scritte e simboli osceni, tracciati col sangue. Dev’essere stato un delirio suicida... Chi lo sa, un effetto di qualche droga che aveva assunto... Era molto chiuso il ragazzo, anche in famiglia riuscivano difficilmente a parlare con lui”.
Mia madre impallidì, confusa da mille dubbi che le turbinarono in testa, temendo probabilmente per un fatale destino che avrebbe potuto investire anche la nostra famiglia, viste le chiusure che regnavano anche tra noi, simili e forse ancora più gravi della famiglia dei Belotti. “Hai sentito, Emanuele?” disse frastornata.
“Sì, ho sentito”. Mi girai per allontanarmi, volendo evitare che continuasse con altre suggestioni.
Non feci in tempo. Continuò: “Non farti venire in mente di prendere anche tu certe porcherie! Non riuscirei a sopportare il dolore della tua morte!”.
Scossi la testa, sospirando la delusione che mi procurò la sua inutile e immotivata preoccupazione.