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Alcuni no…

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Trafiletto

Christopher Tietjens è un giovane geniale, proveniente da una famiglia aristocratica, sposato con la bellissima (e perfida) Sylvia e avviato a una brillante carriera ministeriale.Il suo destino sembra scritto, ma cambia drammaticamente a causa delle infedeltà della moglie, dell’incontro con l’affascinante suffragetta Valentine Wannop e, soprattutto, dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale. In congedo dopo aver subito un trauma che gli ha in parte fatto perdere la memoria, Tietjens passa le ore che gli mancano prima di tornare al fronte cercando di sistemare le cose rimaste in sospeso con Sylvia e provando a fare chiarezza sui suoi sentimenti per Valentine.La tetralogia “Parade’s End”, di cui Alcuni no... è il primo volume, è considerata uno dei capolavori della letteratura inglese del XX secolo e una delle più importanti opere sul primo conflitto mondiale.

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I.-1
I.I due giovani – appartenevano alla classe dei funzionari pubblici inglesi – erano seduti nella carrozza ferroviaria perfettamente arredata. Le cinghie di cuoio delle finestre erano nuove di zecca; gli specchi sotto le lucide rastrelliere per i bagagli erano immacolati giacché vi si era riflesso ben poco; la ricca tappezzeria dalle curve lussuose e regolari era rossa e gialla con un intricato e accurato disegno di draghi, opera di un artista di Colonia. Lo scompartimento aveva un odore lieve e pulito di vernice; il treno correva senza scossoni, con la sicurezza tipica di un investimento inglese, si ricordò di aver pensato Tietjens. Andava veloce; eppure se avesse oscillato o sobbalzato sui binari, a eccezione della curva prima di Tornbridge o ad Ashford, dove ci si aspettava che succedesse, Macmaster, Tietjens ne era certo, avrebbe scritto alla compagnia. Forse avrebbe persino scritto al Times. La loro classe amministrava il mondo, non semplicemente il neonato Dipartimento Imperiale di Statistica guidato da Sir Reginald Ingleby. Se vedevano dei poliziotti comportarsi male, fattorini delle ferrovie mancare di rispetto, o una strada illuminata male, carenze nei servizi pubblici o in un paese straniero, loro reagivano, o con imperturbabili voci impostate o con lettere al Times, chiedendosi con indignazione colma di rincrescimento: “Forse che l’Inghilterra è arrivata a tanto?”. Oppure scrivevano, sulle serie riviste che ancora sopravvivevano, articoli in cui vigilavano sull’Arte, la diplomazia, i commerci tra i paesi dell’impero, o la reputazione personale di statisti defunti e di uomini di lettere. Macmaster, va detto, avrebbe fatto tutto questo; di se stesso Tietjens non era così certo. Macmaster era seduto lì davanti; smilzo; progressista; con una barbetta nera tagliata a punta, come potrebbe portarla un uomo smilzo per enfatizzare l’aspetto già distinto; capelli neri di fibra tenace, strinati da spazzole di ferro; un naso affilato; denti forti e dritti; un colletto a farfalla bianco, liscio come porcellana; una cravatta stretta con un anello dorato, azzurra punteggiata di nero – abbinata ai suoi occhi, come Tietjens ben sapeva. Tietjens, dal canto suo, non riusciva a ricordarsi di che colore portasse la cravatta. Aveva preso una carrozza dall’ufficio al loro appartamento, si era infilato una giacca spaiata, e pantaloni larghi, di sartoria, e una camicia soffice, aveva fatto le valigie, rapidamente ma con metodo, infilando una gran quantità di cose in un enorme zaino a due manici, che si poteva facilmente gettare al volo su un bagagliaio, in caso di necessità. Non gli piaceva che un “uomo” toccasse le sue cose; non gli era mai piaciuto che la cameriera di sua moglie gli facesse i bagagli. Non gli piaceva neppure che i fattorini portassero il suo zaino. Era un conservatore – e poiché non gli piaceva cambiarsi d’abito, eccolo seduto lì, in viaggio, con degli stivaletti da golf larghi, marroni, con la suola chiodata, piegato in avanti sul bordo del sedile, le gambe larghe, con una mano grande e bianca su ogni ginocchio – a pensare intensamente. Macmaster, d’altra parte, era appoggiato allo schienale, intento a leggere dei piccoli fogli stampati e non rilegati, piuttosto rigido, un po’ accigliato. Tietjens sapeva che quello era, per Macmaster, un momento importante. Stava correggendo le bozze del suo primo libro. Questa faccenda, come Tietjens sapeva, aveva diverse sfumature. Se, per esempio, qualcuno avesse chiesto a Macmaster se era uno scrittore, lui avrebbe risposto con un’impercettibile ma biasimevole scrollata di spalle. «No, mia cara signora!», perché ovviamente nessun uomo avrebbe mai posto una simile domanda a quello che era indubitabilmente un uomo di mondo. E avrebbe proseguito con un sorriso: «Niente di così raffinato! Per diletto, di quando in quando. Un critico, semmai. Sì! Una specie di critico». Tuttavia Macmaster era ospite fisso di salotti che davano rifugio ai parrucconi dell’Arte dietro lunghi tendaggi, tra piatti di ceramica, pareti decorate a fiori e grandi specchi silenziosi. E, il più vicino possibile alla padrona di casa del momento, Macmaster poteva parlare senza sosta, e in tono solenne. Gli piaceva essere ascoltato con rispetto quando parlava del Botticelli, del Rossetti e di quegli artisti italiani che chiamava “I primitivi”. Tietjens lo aveva visto. E non disapprovava. Perché per quanto non fossero, quelle riunioni, Alta Società, rappresentavano un passo nella lunga e delicata strada verso un incarico governativo di primo livello. E per quanto Tietjens si immaginasse disinteressato riguardo carriere e incarichi, era, sia pur sardonicamente, piuttosto comprensivo verso l’ambizione del suo amico. Era una strana amicizia, ma la stranezza è spesso garanzia delle buona consistenza di un’amicizia. Figlio minore di un gentiluomo di campagna dello Yorkshire, Tietjens era destinato al meglio – il meglio a cui persone e funzionari pubblici di primo livello potessero aspirare. Non aveva ambizioni, ma queste cose gli sarebbero arrivate da sole, come succede sempre in Inghilterra. Perciò poteva permettersi di essere trascurato nel vestire, nei confronti delle sue amicizie, o delle opinioni che esprimeva. Aveva un piccolo reddito personale grazie al vitalizio di sua madre; un piccolo stipendio dal Dipartimento Imperiale di Statistica; aveva sposato una donna ricca, ed era, alla maniera dei Conservatori, sufficientemente esperto in beffe e motti da farsi ascoltare quando parlava. Aveva ventisei anni; ma molto robusto, alla maniera bella e trasandata dello Yorkshire, portava su di sé più peso di quanto la sua età giustificasse. Il suo superiore, Sir Reginald Ingleby, quando Tietjens decideva di parlare delle tendenze che influenzavano le statistiche, lo ascoltava con attenzione. A volte Sir Reginald diceva: «Siete una perfetta enciclopedia del perfetto scibile, Tietjens», e Tietjens pensava che gli spettasse di diritto, perciò accettava in silenzio l’omaggio. A una qualsiasi parola di Sir Reginald, Macmaster, d’altra parte, mormorava: «Siete troppo buono, Sir Reginald!», e Tietjens pensava che fosse perfettamente giusto. Macmaster era un po’ più anziano nel servizio, così come probabilmente era un po’ più anziano di età. Perché, riguardo agli anni del suo coinquilino, o alle sue origini esatte, c’erano diverse falle nella conoscenza di Tietjens. Macmaster era ovviamente scozzese di nascita, ed era quello che si definiva un figlio di una parrocchia presbiteriana. Senza dubbio era invece figlio di un droghiere di Cupar o di un fattorino di Edimburgo. Non è importante per uno scozzese, e visto che lui era così reticente sulle proprie origini, una volta che lo si accettava per quello che era, non ci si poneva altre domande, neppure mentalmente. Tietjens aveva sempre accettato Macmaster: a Clifton, a Cambridge, a Chancery Lane e nelle loro stanze al Gray’s Inn. E per Macmaster provava un affetto profondo – persino gratitudine. E si poteva dire che Macmaster ricambiasse questi sentimenti. Di certo aveva sempre fatto del suo meglio per essere d’aiuto a Tietjens. Già al Tesoro con l’incarico di segretario particolare di Sir Reginald Ingleby, mentre Tietjens era ancora a Cambridge, Macmaster aveva portato all’attenzione di Sir Reginald le molte doti naturali di Tietjens, e Sir Reginald, che stava cercando dei giovani per la luce dei suoi occhi, il suo dipartimento appena nato, aveva accettato più che prontamente Tietjens come terzo in comando. D’altra parte, era stato il padre di Tietjens a raccomandare Macmaster all’attenzione di Sir Thomas Block al Tesoro. E, certamente, la famiglia Tietjens aveva contribuito con un po’ di soldi – che in effetti erano della madre di Tietjens – ad aiutare Macmaster a finire gli studi a Cambridge e a trasferirsi in città. Lui aveva restituito la piccola somma – ripagandola in parte ospitando Tietjens nel suo appartamento quando veniva in città. Con un giovane scozzese una situazione del genere era perfettamente adeguata. Tietjens era stato in grado di andare a trovare la sua giusta, rotonda e pia madre nella sua stanza da toeletta e dirle: «Conoscete, madre, quel buon Macmaster! Ha bisogno di un po’ di soldi per finire l’Università», e sua madre aveva risposto: «Ma certo, caro. Quanto?» Con un giovane inglese di ceto inferiore, una cosa del genere avrebbe lasciato un certo senso di obbligo di classe. Con Macmaster no. Durante i recenti problemi di Tietjens – quattro mesi prima la moglie di Tietjens lo aveva lasciato per scappare con un altro uomo – Macmaster aveva ricoperto un ruolo che nessun altro avrebbe potuto ricoprire. Perché alla base dell’emotività di Christopher Tietjens c’era il silenzio assoluto – quantomeno per ciò che concerneva le proprie emozioni. Per come Tietjens vedeva il mondo, non c’era motivo di “parlare”. Forse neppure di pensare a come ci si sente. E, ovviamente, la fuga di sua moglie lo aveva lasciato quasi completamente senza emozioni di cui potesse rendersi conto, e lui aveva pronunciato non più di venti parole al massimo riguardo l’accaduto. Si era trattato perlopiù di parole rivolte al padre che, molto alto, molto robusto, dritto e con i capelli grigi, si era presentato nel salotto di Macmaster a Gray’s Inn, e dopo cinque minuti di silenzio aveva chiesto: «Hai intenzione di chiedere il divorzio?» Christopher aveva risposto: «No! Solo un furfante sottoporrebbe una donna alla vergogna del divorzio». Il signor Tietjens aveva annuito, e dopo una pausa aveva chiesto: «Le permetterai di divorziare da te?» Lui aveva risposto: «Se lei lo desidera. Bisogna pensare al bambino». Il signor Tietjens disse: «Darai il suo vitalizio al bambino?» Christopher rispose. «Se si può fare senza problemi» Il signor Tietjens aveva commentato solo: «Ah!». Qualche minuto dopo aveva detto: «Tua madre sta molto bene». Poi: «Quel trattore a motore non funziona», e poi: «Vado a pranzo al circolo». Christopher disse: «Posso portare Macmaster, signore? Avete detto che lo volevate presentare». Il signor Tietjens rispose: «Sì, certo. Ci sarà anche il vecchio generale ffolliott. Gli darà una mano. Sarà meglio che si conoscano». Ed era andato via. Tietjens riteneva che il suo rapporto con il padre fosse quasi perfetto. Erano come due uomini in un circolo – l’unico circolo; la pensavano in maniera così simile che non c’era bisogno di parlare. Suo padre aveva trascorso molto tempo all’estero prima di prendersi cura degli affari di famiglia. Quando, attraversando le brughiere, andava nelle località industriali che possedeva, usava sempre una carrozza a quattro cavalli. A Groby Hall non si era mai fumato tabacco: il signor Tietjens si faceva caricare ogni mattina dodici pipe dal suo giardiniere capo e le disseminava nei cespugli di rose sul vialetto. Le fumava durante il giorno. Curava una gran parte dei suoi terreni; aveva rappresentato il collegio di Holdernesse dal 1876 al 1881, e non si era candidato dopo la redistribuzione dei seggi; aveva undici benefici ecclesiastici; ogni tanto andava alla caccia alla volpe, e sparava regolarmente. Aveva altri tre figli e due figlie, e adesso aveva sessantanove anni. A sua sorella Effie, il giorno dopo la fuga di sua moglie, Christopher aveva detto al telefono: «Vuoi occuparti di Tommie per un periodo indefinito? Verrà anche Marchant con lui. Si prenderà cura anche dei tuoi due più piccoli, così potrai fare a meno di una cameriera, e io pagherò il vitto e qualcosa in più». La voce di sua sorella – dallo Yorkshire – aveva risposto: «Ma certo, Christopher». Era la moglie di un vicario, vicino Groby, e aveva diversi figli. A Macmaster Tietjens aveva detto: «Sylvia se n’è andata con quel tale, Perowne». Macmaster aveva risposto semplicemente: «Ah!» Tietjens aveva proseguito: «Do in affitto la casa e metto in un magazzino il mobilio. Tommie andrà da mia sorella Effie. Marchant andrà con lui». Macmaster aveva detto: «Allora rivorrai il tuo vecchio appartamento». Macmaster occupava un intero piano degli edifici di Gray’s Inn. Dopo che Tietjens se n’era andato per sposarsi, lui aveva continuato a godere della solitudine, a parte il fatto che il suo servitore si era trasferito dalla mansarda alla camera da letto un tempo occupata da Tietjens. Tietjens disse: «Vengo domani sera, se possibile. Così Ferens avrà il tempo di tornare in mansarda». Quella mattina, a colazione, passati quattro mesi, Tietjens aveva ricevuto una lettera da sua moglie. Chiedeva, senza alcun segno di pentimento, che lui la riprendesse con sé. Era stufa di Perowne e della Bretagna. Tietjens sollevò lo sguardo verso Macmaster. Macmaster si era quasi alzato dalla sedia, e lo guardava con gli occhi azzurri spalancati, la barba che tremava. Quando Tietjens cominciò a parlare, Macmaster aveva già la mano sul collo della caraffa di cristallo da brandy sul portaliquori di legno.

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