CAPITOLO UNO
CAPITOLO UNO
Il vento soffiava attraverso gli alti passi mentre ci orientavamo lungo il sentiero. Ombre in lento movimento segnalavano la lunga carovana di persone e animali che si estendeva in avanti, ma stava nevicando troppo forte perché fosse possibile distinguere più di quello.
La catena del Khusk era un luogo inclemente, lo sapevo. Era il dodicesimo anno che attraversavo quelle montagne e, fino a quel momento, il più duro. La neve aveva cominciato a scendere settimane prima del solito. Si accumulava contro le rocce e nascondeva crepacci che avrebbero potuto inghiottire un uomo e il suo cavallo. Ma non potevamo tornare indietro. Avrebbe significato una morte certa per fame, mentre andare avanti era soltanto una morte possibile, in genere senza alcun preavviso. Un piede messo male. Un indebolimento silenzioso della massa di neve fino a quando il più lieve movimento scatenava una valanga. La maggior parte di noi sarebbe arrivata dall’altra parte, lo sapevo. La maggior parte, ma non tutti.
Salimmo sempre di più, tra le fauci della tormenta. Strinsi la mano di mia sorella Ashraf. Eravamo piegate dal vento, i cappucci abbassati e stretti. Le pecore belavano mestamente mentre si affannavano lungo il sentiero ripido e tortuoso. Non erano contente, ma anche loro avevano compiuto quella traversata prima e sapevano che era meglio non provare a fermarsi. I nostri animali erano duri e testardi quanto noi.
In un giorno sereno si potevano osservare i confini della terra dalle cime di quelle colonne ghiacciate. Ora la visibilità era di quattro metri in ogni direzione. Ci saremmo fermati presto per la notte. Il viaggio verso i pascoli primaverili delle colline durava otto giorni, quello per tornare indietro il doppio. La nostra rotta ci conduceva lungo una serie di accampamenti fissi che non cambiavano da generazioni. Uno di essi era circa dieci minuti più avanti, un incavo nel dorso delle montagne che offriva un po’ di riparo.
«Ecco, lascia che lo prenda io», urlai ad Ashraf.
Mia sorella mi guardò. Un cucciolo si agitava all’interno della giacca in pelle di pecora. Era stato un dono da parte di nostro padre per il suo settimo compleanno. Lui avrebbe voluto che il cane fosse legato alla sua sella, ma Ashraf aveva insistito perché lo portasse lei. Riuscivo a sentire i passi di mia sorella che rallentavano. Era la fine di una lunga giornata ed era esausta.
Mi sbottonai la mia arqalok imbottita e le offrii la mano. «Andiamo. Te lo restituirò non appena ci accampiamo.»
Lei sollevò le sopracciglia. «Sono forte quanto te, Nazafareen.»
«Lo so», sbottai. Ero esausta anch’io. «Dammi il cane e basta.»
Ashraf si adombrò, ma tirò fuori il cucciolo dalla giacca. Si divincolava. Cullai il suo corpicino caldo in una mano mentre facevo spazio per lui tra i miei strati di vestiti. E quindi l’animaletto emise un forte latrato e scalciò con le zampe posteriori. Le unghie affilate scavarono nei miei polsi. Persi la presa per un momento, ma fu tutto ciò che ci volle. Il cucciolo era scappato e ora fuggiva nella tempesta.
Senza una parola, Ashraf gli corse dietro. In un istante svanì dietro una roccia. Sussurrai un’imprecazione e la seguii.
Eravamo state avvertite di non abbandonare mai il sentiero. Di mantenere sempre il nostro posto nella lunga carovana del clan Four-Legs. Ma io conoscevo quelle montagne abbastanza bene da ritrovare la via, anche in condizioni tanto avverse. E Ashraf non mi aveva dato altra scelta.
Seguii le sue impronte, chiamandola per nome. Il vento portava via la mia voce nel momento stesso in cui lasciava i polmoni. Quanto potevano andare lontani una ragazzina e il suo cucciolo?
Non molto, a quanto pareva. Superai una pila di massi caduti e le impronte si interruppero di colpo. «Ashraf!» gridai. «Dove sei? Fa troppo freddo per giocare.»
Mi voltai in un lento cerchio, il panico che mi risaliva nel petto mentre vedevo quanto fossi vicina al bordo di un precipizio che svaniva nella neve turbinante. Non avrei saputo dire quanto fosse profondo. Trenta metri? Trecento? Millecinquecento? Le impronte non conducevano verso il bordo, però. Si interrompevano bruscamente a un paio di metri di distanza. Oltre quel punto, la neve pareva intatta.
«Ashraf!» gridai ancora.
E quindi udii un basso guaito. Era il cane, tremava in una cavità. Mi avvicinai con i palmi all’infuori. Lui mi osservava con circospezione.
«Andiamo, stupido cane», dissi.
Mi ero appena inginocchiata per raggiungerlo quando un basso ringhio gli risalì nella gola. Quindi il cane provò a stringersi per infilarsi ancora di più nella fessura. I suoi occhi erano fissi su qualcosa dietro di me.
Avevo un coltellino in un fodero alla cintura. Annaspai per afferrarlo. C’erano lupi in quelle montagne, anche se non erano soliti attaccare un umano alla luce del sole, così vicino all’intero clan. Forse il rigido inverno arrivato in anticipo li aveva resi disperati.
Mi girai di scatto e tirai un sospiro di sollievo. Era mia sorella. Era in piedi davanti al bordo del crepaccio, con il vento che le soffiava contro la schiena, portandole i capelli davanti al volto. Riuscivo a malapena a distinguere i suoi lineamenti nell’oscurità del cappuccio.
«Grazie al Sacro Padre», dissi. «Andiamo, dobbiamo tornare prima che ci lascino indietro.»
Ashraf non si mosse. Il ringhio si trasformò in un pietoso e acuto guaito che mi fece rabbrividire.
«Cosa c’è che non va?» domandai. Il vento cessò per un istante, lasciando un po’ di silenzio. Il respiro si condensava davanti a me in pennacchi bianchi alla luce morente. Presto sarebbe scesa la notte. «Ashraf?» Mossi un passo verso di lei. «Sei troppo vicina al bordo. Vieni via.»
«Zitto», disse mia sorella al cane, e la voce non era la sua.
Il mio cuore cominciò a martellare, lentamente e dolorosamente.
«Fermati», dissi. «Fermati e basta.»
Ashraf non rispose. Avrei voluto prendere il cane, infilarlo nella giacca e rimettermi in marcia ma, improvvisamente, non me la sentivo di darle le spalle. Da dove veniva? Perché le impronte si interrompevano?
Era solo una ragazzina. La mia irritante sorella minore, che mi seguiva ovunque e non mi dava mai un momento di pace. Che mi implorava di farle le trecce esattamente come le mie e che metteva sempre la sua parte di lamponi nel mio piatto perché sapeva che erano la mia frutta preferita.
«Se non vieni subito, lo dirò a papà», la avvertii.
«Lo dirò a papà», ripeté lei. La mia stessa voce, rilanciata contro di me.
Mi sentii rizzare i peli sul collo.
Non so quanto rimanemmo così nella neve. Abbastanza perché cominciasse ad accumularsi sul suo cappuccio e sulle sue spalle. Abbastanza perché l’ultima traccia di luce del giorno svanisse dal cielo. Mi sentivo congelata, incapace di pensare. Non capivo cosa stesse accadendo, solo che c’era qualcosa di tangibilmente sbagliato in mia sorella e che non avevo idea di cosa fare al riguardo. Mi sentivo intrappolata in un incubo, il tipo in cui ogni movimento è pesante e faticoso, come una formica che si dimeni nel miele.
Il respiro di Ashraf, notai distrattamente, non produceva condensa. Era della stessa temperatura dell’aria.
Non so cosa sarebbe accaduto se il cane non avesse cominciato ad abbaiare. Latrati e guaiti frenetici interruppero il mio stato di trance e mossi un passo verso di lei. Le tirai indietro il cappuccio. Vidi i suoi occhi, non più di un tenue azzurro, ma di un altro colore, qualcosa di oscuro e senziente. Aveva divorato il bianco e ora parevano coriacee mandorle nere nel suo volto.
Feci cadere il coltello. Avvertii l’urina scendere lungo l’interno delle cosce.
I denti di Ashraf si chiusero di scatto e lei balzò su di me, facendoci finire entrambe a terra. Ruzzolammo nella neve. Sentii il bordo del precipizio spalancarsi sulla mia schiena. Le mie dita artigliarono le rocce ghiacciate, alla ricerca di un qualunque appiglio. Quindi mi trovai a scalciare nell’aria. Il terrore mi rese selvaggia. Lottai, cercando di togliermela di dosso, ma Ashraf era troppo forte. Soffiava il suo respiro gelido contro il mio orecchio.
Urlai, scivolando inesorabilmente oltre il bordo. E infine delle mani mi afferrarono e mi tirarono su. Vidi il viso di mio zio. Sembrava arrabbiato e confuso.
«In nome del Padre, cosa state facendo voi due?» domandò, lasciandomi andare.
Senza rialzarmi, mi allontanai. Mio zio teneva ancora Ashraf per il braccio. Non riuscivo a parlare, ma potevo indicare. Lui la guardò per la prima volta e finalmente capì, facendo un passo indietro quando la confusione si trasformò in paura. La bocca di mia sorella si piegò in un sorriso. E io capii cosa aveva intenzione di fare. Mio zio era alto e forte. Qualunque cosa avesse preso Ashraf, avrebbe fatto lo stesso con mio zio e poi con me, infine sarebbe tornata all’accampamento e ci avrebbe presi tutti, uno per uno.
Sussurrai una preghiera senza parole e cercai a tentoni il coltello, mezzo sepolto nella neve.
«Druj», sibilò mio zio.
Druj.
Non ne avevo mai visto uno, ma avevo sentito parlare di loro quando le braci negli accampamenti si andavano spegnendo. Di come venissero dal nord in un’ondata senza fine, cose non-morte con spade di ferro e ombre il cui tocco significava la fine. Di come alcuni, quelli chiamati spettri, indossassero i corpi degli uomini, facendo diventare i loro occhi neri come i crepacci più profondi…
In un movimento confuso troppo veloce da seguire, Ashraf abbatté al suolo mio zio e fu a cavalcioni sul suo petto, la bocca spalancata a rivelare gengive nere. Un vapore oscuro le usciva dalla gola. Strisciava verso mio zio. Il coltello tremò nella mia mano.
«Ashraf», la implorai, mentre le lacrime si congelavano sulle mie guance, ma non mi mossi. Avevo troppa paura.
Avrebbe preso possesso di mio zio se il bordo non avesse ceduto. Ci fu uno schiocco fragoroso e il ghiaccio si inclinò. E quindi Ashraf si trovò a scivolare nel vuoto. Mi morsi la lingua e sentii il sapore del sangue mentre una piccola mano si aggrappava all’argine.
Sopra il rumore del vento, mi sentii chiamare da una voce esile. «Nazafareen.»
Strisciai verso di lei, singhiozzando e tremando.
Ashraf penzolava in mezzo alla neve mulinante. «Ti prego, Nazafareen, aiutami. Sto scivolando…»
La guardai in faccia e, per un secondo, rividi mia sorella. Solo una ragazzina di sette estati. Sembrava così piccola e fragile contro l’oceano di oscurità sottostante.
«Ti prego, Nazafareen», mi chiamò di nuovo, e questa volta la voce era la sua, dolce e acuta. E spaventata.
Da qualche parte dietro di me, il cane ululava e ululava.
Come avrei potuto lasciarla morire?
Le afferrai la mano e cominciai a tirarla su. Fu allora che con l’altro braccio saettò verso l’alto e mi afferrò i capelli. Avevo ancora il coltello, ma non avrei potuto usarlo su di lei. Neanche per salvarmi la vita. Così non capii quando la lama affondò nella sua gola.
Mi guardai la mano, intontita. Il coltello era ancora lì. Era quello di mio zio a essere conficcato nella carne di Ashraf. Lei si scosse una volta, due. Le dita simili ad artigli mi lasciarono andare.
Guardai mentre la cosa che aveva preso mia sorella precipitava nelle tenebre.