CAPITOLO DUE

1494 Parole
CAPITOLO DUE «Water Dog!» Misi da parte la pentola che avevo appena finito di pulire e ne presi un’altra dalla pila, non curandomi neanche di guar­dare su. «Molto divertente», dissi. «Andremmo molto più ve­loci se tu facessi la tua parte invece di prendermi in giro.» Mio fratello Kian si abbassò sulle cosce. «Non ti sto pren­dendo in giro. Da’ un’occhiata.» Sospirai e mi tolsi i capelli dal viso. Un momento dopo, ero in piedi, schermandomi gli occhi con una mano. Due figu­re a cavallo si facevano strada lungo la collina erbosa. Indos­savano tuniche scarlatte e qarha dello stesso colore che si av­volgevano intorno alle loro teste, lasciando visibili solo gli oc­chi. Da ogni parte, le persone emergevano dalle tende in pelle di capra per vedere cosa stesse accadendo. Tensione ed eccita­zione risuonavano nel clan Four-Legs mentre le figure tirava­no le redini. «Sono davvero Water Dog», sussurrai. «Nessun altro indossa il rosso», rispose Kian. Non avevo mai visto i Water Dog, prima. Tutto ciò che sapevo su di loro era che servivano il Re e che cacciavano i Druj: spettri, lich, revenant. Come quello che aveva ucciso mia sorella un anno prima. Avvertii un moto di amarezza. Siete arrivati troppo tardi, avrei voluto urlargli contro. Siete arrivati troppo tardi per fare del bene. «Muoviti.» Kian mi afferrò la mano. «Andiamo a vedere perché sono qui.» Corsi lungo la discesa con lui, l’ormai familiare rabbia che mi bruciava nello stomaco. Nessuno incolpava mio zio per ciò che aveva fatto, neanche io. Una volta che uno spettro prende possesso di qualcuno, non può essere scacciato. Usa le sue vit­time fino a quando la persona non cade morta per la fa­me o il freddo o la mera stanchezza. E quindi ne troverà un’altra. Ashraf era al di là di ogni salvezza. Tutti lo sapevano. Eppure continuavo a vedere il suo volto nei miei sogni. Ancora la vedevo cadere nell’abisso, notte dopo notte, per me­si dopo la sua morte. Almeno pregavo che mia sorella fosse morta. Il suo corpo non era mai stato ritrovato. «Gente del clan Four-Legs!» Il primo cavaliere si tolse il qarha. Era giovane, solo di qualche anno più grande di me. «Sembra un barbaro», disse sottovoce mio fratello. Non avevo mai visto un barbaro, ma questo Water Dog aveva capelli color del rame e occhi grigi. Era una combina­zione azzeccata. Aveva un’aria di calma autorità, impressione ac­centuata dal sigillo reale – un grifone ruggente in un cer­chio – ricamato sulla tunica scarlatta. «Veniamo in nome di Re Artaxeros II e Jaagos, Satrapo di Tel Khalujah», disse il giovane in una voce squillante che rag­giunse anche le estremità della folla raccolta. «Siamo venuti a chiedere chi di voi desideri servire il Sacro Padre come Water Dog. Solo chi è tra i dodici e i sedici anni è idoneo al test.» Nessuno parlò. Raramente vedevamo forestieri e aveva­mo un innato sospetto verso chiunque non fosse della linea di sangue del clan Four-Legs per almeno una dozzina di genera­zioni, non importava quali distanti autorità dichiarassero di rap­presentare. «Le vostre famiglie saranno ben ricompensate.» Prese una borsa di monete e la scosse. Un mormorio si diffuse tra gli spettatori. Molti di noi era­no poveri, se si misurava la ricchezza in oro e argento. L’unica fonte di sostentamento della mia famiglia era rappresentata dagli animali. Scambiavamo latte e formaggio, e mia madre utilizzava la lana per tessere scialli che poi vendevamo al mer­cato di Tel Khalujah due volte all’anno. Una borsa di monete di quelle dimensioni rappresentava più denaro di quanto ne avremmo guadagnato in un decennio. «Cosa significa essere un Water Dog?» I suoi occhi vaga­rono su quel mare di volti, fermandosi su quelli vicini alla mia età. «Significa che difenderete gli innocenti, proteggerete i de­boli, punirete i malvagi. Sarete la mano del Sacro Padre e di­fenderete i confini settentrionali dai Druj. E, sì, userete i daeva per farlo.» «Demoni per cacciare demoni», mormorò qualcuno. Ero molto confusa su cosa fossero esattamente i daeva. I ragazzi più grandi sostenevano che fossero Druj anche loro, e che avessero dei poteri magici. Non capivo come i Water Dog potessero controllare creature del genere, ma a quanto pareva in qualche modo ci riuscivano. «Chi ha il coraggio di fare un passo avanti?» domandò il Water Dog. Il suo compagno aspettava sulla sella, il qarha an­cora stretto sul volto. Qualcosa nella sua figura mi suggeriva che fosse una donna. «Testeremo chiunque vorrà provare. Sa­rò chiaro: non siamo qui per reclutare con la forza. Questo non è un fardello, ma un onore. Non c’è posto per i codardi tra le nostre file.» Quel commento provocò del brusio tra la folla. Il Water Dog alzò una mano. «Non intendevo offendere. Il popolo dei Four-Legs è conosciuto per essere tra i più duri e forti dell’impero. Come potreste altrimenti adattarvi a vivere in queste terre inospitali? Siete i discendenti del grande eroe, Fe­reydun. Spero solo che il suo sangue non si sia indebolito.» Osservai gli occhi di mio padre. Era in piedi con le brac­cia incrociate, il cappello di feltro spinto sul capo. La sua espres­sione era indecifrabile. Quindi un ragazzo si fece avanti. «Voglio affrontare la prova», disse. Il fermento tra il pubblico aumentò. Altri due ragazzi si avvi­cinarono ai cavalieri, stretti uno all’altro. Sorridevano nervosa­mente. «Nessun altro?» Gli occhi del Water Dog scandagliarono la folla. Passarono su di me senza fermarsi, anche se indugia­rono per un momento su Kian. Mio fratello abbassò lo sguar­do. «No? Allora cominceremo la prova.» Iniziò a dirigere la cavalcatura verso la pendice. Demoni per cacciare demoni. Il mio cuore batteva più velocemente. Non sapevo cosa vo­lesse dire, ma di colpo vidi un modo per far smettere allo spiri­to inquieto e furioso di Ashraf di tormentarmi. Uccidere i Druj. Avrebbe significato abbandonare la mia famiglia. Il mio clan. Se fossi stata scelta, avrei potuto non vederli mai più. E, nel nostro mondo, quei legami significavano tutto. Se la co­munità allontanava una persona, questa era come se fosse morta. Accadeva solo per crimini gravi come la violenza o l’omicidio, cose rarissime tra la mia gente. Ma, quando succe­deva, il col­pevole diventava un fantasma. Il suo nome non ve­niva più pro­nunciato. Andarsene non era proprio la stessa cosa, nonostante an­che quello fosse un evento raro. C’era il clan Four-Legs e poi c’era la gente tenera e grassa oltre le montagne. Solo il primo conta­va. Ti prego, Nazafareen, aiutami… Eppure sapevo nel mio cuore che Ashraf non mi avrebbe mai lasciato in pace. Non fino a quando non l’avessi vendica­ta. «Aspettate!» Feci un passo in avanti. «Desidero affronta­re la prova.» Il Water Dog mi guardò a malapena. «Vieni con noi, allo­ra.» Avvertii gli sguardi della folla mentre seguivamo i due cava­lieri verso la tenda che avevano requisito. Kian era pallido per lo shock, ma non provò a fermarmi. Né lo fece mia madre, che torceva lo scialle con le mani segnate dal tempo. Non avrebbe­ro potuto. Mi ero offerta volontaria e avrei affrontato la prova, che i miei genitori lo volessero o meno. Uno a uno, fummo convocati nella tenda. Mi abbassai a terra, cercando di non agitarmi, gli occhi degli altri volontari su di me, roventi e sprezzanti. Fui l’ultima a essere chiamata. Quando venne il mio turno, entrai a testa alta, nonostante mi aspettassi di fallire in qualunque prova avessero ideato. Sape­vo come usare un arco o un coltello, ma non avevo mai ma­neggiato altre armi. Il Water Dog che aspettava all’interno era quello con l’aspet­to da barbaro. Portava una spada al fianco e mi doman­dai se combattere con lui facesse parte della prova. In tal caso, il mio destino era segnato. «Il mio nome è Ilyas», disse. «Qual è il tuo?» Glielo dissi. «Nazafareen», ripeté. «Voglio che indossi questo e che mi dica cosa senti.» Mi mise un bracciale d’oro intorno al polso. Notai che an­che lui ne aveva uno. L’oro era caldo contro la mia pelle, ma era tutto. «Chiudi gli occhi», mi ordinò gentilmente Ilyas. «Lascia che la tua mente vaghi libera.» La fai facile, pensai, ripulendomi dal sudore sui palmi. Chiusi gli occhi. Passò un minuto. Cominciai a diventare im­paziente. La gamba mi faceva male. Un crampo, immaginai, flettendo il piede nudo con una smorfia. «Cos’è stato?» domandò Ilyas. «Niente.» «Dimmelo.» Non era una richiesta. «Solo dolori della crescita. È così che li chiama mia ma­dre.» «Dove?» Mi toccai il polpaccio. «Qui.» Ilyas sorrise. Tirò su la gamba del pantalone. C’era una bru­tale ferita in via di guarigione. «Sono caduto due settimane fa. La gamba è finita su una roccia.» Lo guardai, senza capire cosa intendesse. «È la mia ferita quella che stai sentendo, Nazafareen», spiegò. «Oh.» Aggrottai le sopracciglia e mi strofinai il polpac­cio. Era una strana sensazione. Un dolore mio e, al tempo stes­so, non mio. «Hai il dono. Solo uno su mille ce l’ha. Questi», disse, in­dicando l’oggetto intorno al mio polso, «sono bracciali. Quan­do due esseri umani li indossano, c’è un certo grado di empa­tia se chi li ha è dotato. Quando invece li mettono un uomo e un daeva… be’, è più intenso.» Sembrava molto soddisfatto di sé. «Tu sei la prima che abbiamo trovato dopo parecchio tem­po.» «Che succede ora?» domandai. «Ti portiamo a Tel Khalujah. Al palazzo del satrapo. Quella sarà la tua nuova casa.» I suoi occhi grigi si fecero seri. «Sei sicura di volerlo? Non è una vita facile, non ti mentirò al ri­guardo.» «Va bene», dissi. «La mia vita non è facile comunque.» Lui rise. «Immagino di no. Andiamo, lasciami parlare con tuo padre.» «Ilyas?» Il suo nome fuoruscì in modo strano dalla mia lingua. «Cosa sono i daeva? Sono davvero Druj?» «Sì, sono Druj. Ma sono Druj domati. Il magus te lo spie­gherà.» Sorrise. «Stavamo quasi per non passare da queste parti. Zohra pensava che avremmo dovuto aggirare le monta­gne. Quindi abbiamo visto un gregge di capre e lo abbiamo se­guito. Forse il Sacro Padre voleva che ti trovassimo.» Feci il segno della fiamma, le prime due dita della mano si­nistra a sfiorare la fronte, le labbra, il cuore. Buoni pensieri, buone parole, buone azioni. Ilyas annuì in segno di approvazione. «Siamo la luce con­tro l’oscurità. Non dimenticarlo mai, Nazafareen.»
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