CAPITOLO TRERISORGERE DALLE FIAMME
L’uomo ha la possibilità di vivere dopo la morte.
Ma una possibilità e la sua realizzazione sono cose ben diverse.
Gurdjieff
6 luglio 2014
Roma, Italia
C’era una volta un luogo che lei conosceva molto bene. Un mondo che non esisteva più, perché lo aveva allontanato con forza, ma persisteva nei suoi ricordi, come un sogno che non si dilegua fino alla prima tazza di caffè. Li chiamava Anni Bui. Ma dentro ogni oscurità esiste la luce, e quella non faceva eccezione. Lei aveva trovato la sua luce lì, a Roma.
Trasse un respiro profondo e si alzò. Guardò il metallo levigato, piegato e battuto nei punti giusti. Il rame scintillante e l’argento opaco si intrecciavano l’uno con l’altro come i tralci della vite. Non era ancora finito, lo osservava con attenzione ma non riusciva a capire cosa mancasse. C’era bisogno di qualcos’altro. Qualcosa… di rosso.
Il centro arrotondato pareva appartenere a una pesante corazza passata attraverso innumerevoli battaglie. Sembrava antico, perfetto e logoro. Sì, il rosso doveva stare lì: una macchia di colore spruzzata nel centro con passione e con una forza che doveva emergere quando lo si guardava.
Gio lo osservò ancora un momento, fissando nella sua mente l’immagine di come sarebbe venuto. Poi si voltò e raggiunse il tavolo dove la aspettavano vernici, metalli, pezzi di stoffa, pennelli e molte altre piccole cianfrusaglie. Dopo aver rovistato un momento, trovò il rosso bruciato che faceva al caso suo. Mentre lo apriva sbuffò: non ce n’era abbastanza. Forse sarebbe potuto bastare, ma non voleva rischiare su un pezzo per il quale aveva lavorato quasi un mese.
Indossava una canottiera e una tuta da lavoro logora, la sua preferita, i capelli biondi raccolti sulla testa. Si trascinò fuori dallo studio e si diresse da Tela per rifornirsi.
Tela era un piccolo negozio a conduzione familiare e non aveva una selezione ampia come quella dei grandi rivenditori d’arte, ma Gio preferiva fare acquisti lì per l’atmosfera.
Sorrise al tintinnio familiare della campanella sulla porta che si richiudeva dietro di lei.
Camminò lentamente fino al bancone e, sorridendo, tese in avanti il barattolo.
«Ciao Gio, come vanno le cose, dolcezza?» disse la voce familiare dietro il bancone.
Gio alzò gli occhi su di lui ed emise una risatina. Un altro uomo che l’avesse chiamata dolcezza l’avrebbe fatta rabbrividire, ma Tress si era sempre comportato così fin dalla prima volta in cui era entrata lì, tre anni prima. «Ehi, Tress, tutto bene. Ho quasi terminato quel progetto a cui sto lavorando, ma ho bisogno di un po’ di rosso.»
Tress era più giovane di lei, aveva forse venticinque anni, e sembrava più un surfista della Costa Rica piuttosto che il commesso di un piccolo negozio di Roma. Vivere a Roma e lavorare in una bottega non era male, purché non si desiderasse fare davvero surf, visto che in città non c’era l’oceano. Guardò i suoi biondi capelli ricci lunghi fino alle spalle e i denti bianchi e perfetti. Lui le sorrise in un modo che – ne era certa – gli aveva procurato un bel po’ di appuntamenti e spostò un ricciolo che gli era scivolato davanti agli scintillanti occhi nocciola. Era abbronzato, come se trascorresse tutte le sue giornate in spiaggia, e la maglietta Hurley lasciava intravedere una muscolatura impressionante. Non c’era da stupirsi che stesse flirtando. Probabilmente ovunque andasse le donne lo prendevano d’assalto. Gio arrossì.
Tress se ne accorse e raddrizzò la schiena con orgoglio. «Certo, bella, torno subito.» Si allontanò, i jeans strappati sottolineavano il sedere così…
Oh mio Dio, Gio, ricomponiti! si disse, ridendo e guardandosi intorno nel negozio.
Moltissimi artisti si rifornivano lì, forse per questo amava quel luogo. Era facile scomparire in una città come Roma. Per sua stessa ammissione, Tress non era un artista, ma sapeva dirti dove si trovava e a cosa serviva ogni articolo nel negozio. E chiamava dolcezza tutte le ragazze. Il modo in cui lo diceva era quasi gradevole e per questo nessuna lo aveva mai schiaffeggiato. Ma se avesse continuato a guardarlo in quel modo, Gio gli avrebbe inviato i segnali sbagliati. Per quanto lui fosse carino, lei non era lì per trovare un altro uomo, non importava quanto tempo fosse passato. Al solo pensiero si sentiva soffocare. No. Tress era attraente, ma lei era lì per nascondersi, praticare la sua arte e trovare un’altra strada verso l’amore che le mancava dopo quegli anni dolorosi. Scacciò i pensieri che le avvelenavano la mente e tornò a concentrarsi sulla missione del giorno.
Mentre lui mescolava la vernice, Gio fece un giro per il negozio e diede un’occhiata ai vari articoli chiedendosi se ci fosse qualcos’altro che potesse servirle. Il suo sguardo cadde su uno scaffale nell’angolo dove erano state sistemate delle scatole nuove. Si avvicinò per guardare e rimase sorpresa. Erano esposte delle torce laser compatte per il taglio dei metalli. Erano molto più piccole della sua tagliatrice al plasma e completamente portatili. Le aveva già viste, non sapeva quanto bene lavorassero in confronto alla sua macchina al plasma ingombrante e difficilmente trasportabile, ma con una di quelle sarebbe stato più facile organizzare un’esibizione della sua arte dal vivo. Rigirò la scatola tra le mani, cercò la garanzia, che poteva anche non esserci, e si soffermò a studiarne la forma.
È così piccola. Potrei portarla ovunque.
Proprio in quel momento suonò la campanella e Gio inspirò a fatica, l’aria nella stanza le sembrò improvvisamente scomparsa. Si nascose tra gli scaffali mentre un uomo enorme – non avrebbe saputo in quale altro modo descrivere quella figura imponente – si dirigeva verso il bancone. Dalle maniche di cotone nero spuntavano dei tatuaggi, ma da quella distanza Gio non riusciva a distinguere i disegni. Una presenza diversa da tutto ciò che aveva conosciuto fino ad allora assorbì completamente la sua attenzione. Era bellissimo, quasi inumano. I capelli scuri erano corti, ma mossi e arruffati intorno alle orecchie, e il pizzetto, corto e ordinato, valorizzava la mascella perfettamente quadrata. Gli occhi sembravano blu in contrasto con l’abbronzatura del viso, anche se non si vedevano bene. Grazie a Dio si era allontanata dal bancone. Sospirò in silenzio mentre lo guardava dirigersi laddove avrebbe dovuto trovarsi Tress.
Ma improvvisamente si fermò, si voltò verso di lei e la guardò come una bestia famelica. Le venne la pelle d’oca e di nuovo le si fermò il respiro.
Grigio scuro… non blu, sono quasi metallici.
E quegli occhi grigi erano vortici senza fine. Riusciva a sentirlo, nonostante cercasse di impedirlo per salvarsi dall’imbarazzo. Dio, non solo riusciva a sentirlo, ma l’anima di lui la raggiungeva nel profondo e la risucchiava, per poi rimetterla in circolo. Era come se stesse riciclando la sua energia. Mai, nemmeno una volta prima di allora, aveva provato qualcosa di simile. Di solito le persone la svuotavano e lei sentiva che le rubavano l’energia. In cambio le rimaneva un brutto mal di testa e un forte bisogno di vitamina B. Ma questo… uno scambio?
Gli occhi dello sconosciuto brillarono per un momento, come se emanassero una luce, e dal punto in cui si trovava giunse il profumo più inebriante che Gio avesse mai avvertito, anche se le sembrava impossibile percepire il suo odore a quella distanza. I suoi sensi erano in fiamme, le dita le formicolavano e iniziò a tremare per quanto tutto era intenso. Non era mai svenuta prima di allora. Nemmeno una volta nei suoi trentatré anni di vita. Ma cos’altro potevano significare il ronzio nelle orecchie e la sensazione di leggerezza nella testa? Sopraggiunsero le vertigini e il mondo si fece nebuloso. Proprio un attimo prima che sentisse cedere le ginocchia, lui la sostenne tra le braccia. Il fuoco che l’aveva travolta si spense e lei si ritrovò semplicemente a guardare un uomo bellissimo e preoccupato.
«Tutto bene, signorina?» chiese, sorreggendola tra le braccia d’acciaio.
Rossa in volto come la vernice che Tress stava miscelando per lei, Gio tirò un respiro profondo e sentì che le vertigini si placavano, ma subentrava il terrore. «Sì, certo», mormorò. «Deve essere il caldo. Mi dispiace. Mi scusi tanto.»
Evitò di guardarlo negli occhi. Temeva di rimanere delusa, di scoprire che si era inventata tutto. Che peccato. Era stato così terribilmente intenso.
«Tress, acqua, subito!» ordinò lui, e la sua voce le rimbombò in testa.
Tress, preoccupato, arrivò subito con una bottiglietta d’acqua naturale. «Oh diavolo, Gio, stai bene? Cos’è successo?» chiese, porgendole la bottiglia.
«Sto bene, davvero, Tress. E…» Rivolse lo sguardo verso l’affascinante sconosciuto. «Chiunque tu sia, grazie, ma sto bene.»
Ma non era vero. Le orecchie ancora le pulsavano e si sentiva instabile. Quello scambio intenso era cessato, ma le sembrava di bruciare ovunque la toccasse. Forse lui poteva spegnere quel fuoco? Trovò il coraggio di guardarlo nuovamente negli occhi e non vide niente a parte la sua immagine riflessa.
Scosse la testa e abbassò lo sguardo. «Mi dispiace molto. Non so cosa mi sia preso. Passerà.»
Per convincerli, Gio bevve un sorso d’acqua e si raddrizzò sulla schiena più che poteva, un metro e sessantacinque vicino al loro metro e ottanta e passa… le gambe ancora tremolanti.
Lo sconosciuto la guardò con attenzione prima di lasciarsi andare e porgerle la mano. «Gio? Io sono Dante. Il proprietario di Tela. Vorrei dire che è un piacere, ma vedere una bella donna quasi svenuta non è esattamente piacevole. Comunque, per la cronaca, sei la benvenuta tra le mie braccia in qualsiasi momento.» Un sorriso fatale balenò sul suo viso. «Sei americana?»
Il suo accento era marcatamente italiano, ma parlava un inglese perfetto. Gio gli lanciò uno sguardo e lui sorrise di nuovo.
Fantastico, non gli manca nemmeno il senso dell’umorismo.
«Ciao Dante, sì, sono Gio. Però di solito non svengo. E una volta ero americana, ma adesso la mia casa è Roma. È un piacere comunque, a parte essere caduta tra le tue braccia, non che tu non abbia delle belle braccia ma…» Scosse la testa e cercò di ricomporsi. Le guance si accesero di rosso. «Dio, okay, lasciami riprovare. Ciao Dante.»
Tese la mano, sorridendo nonostante il completo imbarazzo, e strinse quella di lui. A quel contatto calde onde di piacere fluirono dentro di lei. Quando lo guardò negli occhi, la vide di nuovo. Non era la stessa intensità che aveva percepito quando l’uomo aveva attraversato la stanza, ma di una cosa era certa: non l’aveva immaginata. Era là, e l’aveva sentita nel profondo dell’anima.
«T-Tress?» chiese, tremando di nuovo. «Penso di aver bisogno di quella vernice ora.»
Vide lo sguardo di Dante divenire più luminoso per un momento, il suo odore le fece di nuovo girare la testa. Chi era e cosa diavolo era quel profumo? Non aveva mai incontrato qualcuno più empatico di lei. Lui le teneva ancora la mano e Gio non la ritrasse. Rimasero lì in silenzio per un tempo che sembrò un’eternità, ma in realtà non passarono che due secondi prima dell’intervento di Tress.
«Certo Gio, è qui, baby. Ti farò il conto più tardi.»
Con le guance ancora in fiamme, prese il barattolo che le veniva offerto e sorrise a entrambi, lasciando a malincuore la mano di Dante. Perdere il contatto fu quasi doloroso. Di nuovo si chiese cosa fosse quell’uomo.
«Dante, grazie per il salvataggio. Tress, grazie per la vernice. A più tardi.»
Si precipitò fuori dalla porta e a malapena sentì il tintinnio della campanella sopra la sua testa.
* * *
Non riusciva a leggere i suoi pensieri. Lei chi diavolo era?
«Chi era, Tress?»
«È Gio. Vi siete appena presentati. Ti stai rimbambendo con l’età?» Tress rise per un attimo, poi si interruppe. Lui lo guardò con occhi furenti. «Okay, calmo, Dante. È Gio, diminutivo di Giovanna, ma a lei non piace quel nome. Ha un conto qui. Un secondo, amico.» Tress frugò tra le cartelle dietro la scrivania e trovò la sua scheda. «Ecco: nome, indirizzo, eccetera.»
Dante gliela tolse dalle mani, la guardò e memorizzò ogni cosa prima di piegare il foglio e metterselo in tasca. Giovanna Sopata. Via della Conciliazione 111. 3331 968 818.
Proprio in quel momento il telefono di Dante squillò e apparve il numero di Thia. Era la terza volta che lo chiamava, quel giorno. Fece scorrere il dito sullo schermo e lo avvicinò all’orecchio. «Cosa c’è, Thia?»
Dall’altro capo giunse la sua voce lenta e seducente. «È passato troppo tempo, Dante. Sono affamata. E il mio sangue brama di nutrirti», sussurrò.
«Ora non è il momento, mi dispiace. Oggi dovrai trovarti qualcun altro.»
A quel punto sarebbe stato impossibile non percepire la sua delusione. «Davvero? Dopo tutto questo tempo? Cento anni, Dante, e quante volte ti ho chiesto qualcosa? Non ti vedo da settimane», urlò. La sua natura di Jahi emerse forte e chiara.
Dante corrucciò lo sguardo. «Thia, sai bene quanto me cosa siamo stati in questi cento anni e, fino a oggi, ti andava bene. Che ti succede? Non ti sei nutrita per niente dall’ultima volta che ti ho visto? Non è affatto da te.»
Sentì qualcosa andare in frantumi contro un muro e chiuse gli occhi. Sapeva che prima o poi sarebbe capitato. Le permetteva di prendere il sopravvento perché era scritto nei suoi geni. E di sicuro aveva bisogno di altra lorite.
«Io do, Dante. Mi interesso a te… e a noi. Ho sempre fatto tutto quello che volevi e una delle poche volte in cui ti chiedo qualcosa tu mi dici che non puoi essere disturbato. Cosa c’è di tanto importante da impedirti di muovere il culo e venire subito a scoparmi?» La sua voce si addolcì e divenne simile a un fruscio. «Per favore, Dante, ho bisogno di te.»
Dante sospirò, la loro storia valeva troppo per ignorarla, ma ultimamente la sua natura l’aveva consumata completamente e la Thia dolce e mite era scomparsa del tutto, cosa che, fino a quel giorno, per lui andava benissimo. Anche lei, come tutti, aveva pagato un prezzo per l’Immortalità e non aveva impedito all’oscurità della maledizione di prendere il sopravvento. Dante doveva mettere fine a tutto ciò, ma di persona. Thia lo meritava e Dio sapeva di cosa sarebbe stata capace se lui non avesse cercato di farla scendere da quell’altalena che dondolava nel buio. «Thisalla, verrò da te, il prima possibile. In questo momento sono impegnato, ma verrò.»
Un sospirò provenne dal telefono. «Va bene, Dante, a presto.»
«Ciao Thia.»
Chiuse la comunicazione e guardò Tress, che aveva sollevato gli occhi con curiosità.
«Non pensarci nemmeno a fare domande. E Giovanna non dovrà pagare mai più. Capito?»
Tress inarcò le sopracciglia e annuì. «Certo.»
«E cosa stava guardando mentre era qui?»
«Quelle nuove tagliatrici per metalli, credo. Crea oggetti con materiali naturali, soprattutto metalli.»
Dante annuì, si diresse agli scaffali e ne prese una. «Ci vediamo, Tress.»
«Ciao Dante. Ehi, cos’è questo nuovo profumo che porti? Mi serve.»
* * *
Ma Dante era già uscito e Tress, ridacchiando, tornò a concentrarsi sul computer. Guardava il nuovo sito a cui si era abbonato, facendo scorrere i volti delle numerose ninfe che erano in attesa del loro lui. Immortal Match aveva preso piede dopo essere nato dall’idea di un magnaccia americano, un Immortale, che era diventato un genio dell’IT. Il problema era la sua scarsa affidabilità, dovendo cambiare server e ID in continuazione per evitare le interferenze degli umani. Comunque, finché non avesse trovato la sua vera Immortal Match, di certo non avrebbe fatto male a nessuno. Gli anni erano lunghi; combattere senza svaghi avrebbe condotto chiunque alla pazzia. L’emancipazione era necessaria per la maggior parte dei Guardiani. Era vero, avrebbe potuto andare al Dark Heart, ma perché avere a che fare con le tipe melodrammatiche di New York se poteva starsene a Roma? Si soffermò su una bellezza dai capelli castani che era disponibile per un appuntamento venerdì notte. Iniziò a scriverle un messaggio.