CAPITOLO CINQUEL’ARTE SIAMO NOI
L’arte ci permette di ritrovarci e di perderci allo stesso tempo.
Thomas Merton
6 luglio 2014
Roma, Italia
Gio corse a casa con le guance ancora in fiamme. Come era possibile che in quella città ci fosse un uomo del genere – che possedeva il suo negozio di forniture preferito – e che lei non lo avesse mai incontrato? E poi… quello scambio di energia? Lei proveniva da una famiglia di sensitivi e, sebbene non fosse dotata di grande abilità paranormali, era sempre stata fortemente empatica. Doveva stare ben attenta alle compagnie che frequentava perché la assorbivano molto. Ma lui non lo aveva fatto. La sua energia era fluita attraverso di lei, si era mischiata alla sua e poi l’aveva lasciata andare. Forse era anche lui un empatico? Era l’unica spiegazione possibile per quello che era accaduto.
Il suo ex marito aveva quasi annientato la sua anima. Prima che fuggisse, l’aveva tormentata a lungo con abusi fisici e mentali. Solo adesso, dopo cinque anni, stava ricominciando ad avere fiducia nell’umanità. Se in quel periodo non era impazzita, era stato grazie alla sua arte. Sapeva che lui l’avrebbe cercata e aveva fatto di tutto perché non la rintracciasse. Non usava il suo vero nome né carte di credito o conti bancari se non sotto il falso cognome di Sopata. Era il nome di un amico d’infanzia che era morto troppo giovane e a cui lei voleva moto bene. Lui non aveva conosciuto quella parte della sua vita. Ormai erano trascorsi così tanti anni che non era più sicura che il suo ex la stesse ancora cercando ma, conoscendolo, temeva che non si sarebbe mai arreso. Le era servito così tanto tempo per raggiungere quella sensazione di semi sicurezza. Non avrebbe mai potuto tornare a casa e rivedere la sua famiglia. Non sarebbe mai potuta tornare quella che era. Avrebbe convissuto per sempre con la paura. Aveva trovato il modo di far sapere a sua madre che stava bene, aveva amici negli Stati Uniti che le inviavano cartoline da tutto il Paese. Quando era andata da lei, quella notte di cinque anni prima, sua madre aveva capito che non si sarebbero mai più riviste, per la sicurezza di entrambe. Il suo ex marito non avrebbe messo le mani addosso a sua madre, ma l’avrebbe spiata per scoprire dove si trovava lei. Prima di scappare, aveva lasciato a Maddox un biglietto in cui gli parlava di una busta che un avvocato avrebbe aperto dopo la morte di sua madre, qualora dubitassero che fosse sopraggiunta per cause naturali. A parte ciò, voleva soltanto sfuggirgli e tornare ad avere una vita almeno in apparenza normale. Tecnicamente era ancora sposata. Ma ormai non era più Giovanna Cattivo, e nemmeno Giovanna Alexander, il suo nome da nubile. Era facile tenere d’occhio Maddox, anche a distanza. Narcisista com’era, doveva avere sempre su di sé l’attenzione del mondo. Vederlo sui social network la faceva rabbrividire, ma era stanca di denunciare le sue menzogne. L’aveva già fatto abbastanza.
Gio camminò fino al suo appartamento ed entrò nello studio, la vernice rossa in mano. I pensieri che le avevano appena attraversato la testa facevano risuonare il suo stato d’animo con quel colore. Raggiunse il tavolo, sollevò il coperchio e tornò indietro con la lattina in mano. Vi immerse uno dei pennelli più grandi, lo fece scivolare delicatamente sul bordo, quindi tirò indietro il braccio e applicò il rosso con una tale energia che le si fermò il respiro.
Era perfetto.
La forza della pennellata era tutta nel centro, con spruzzi di rosso che si allargavano intorno e colavano leggermente verso il basso.
Perfetto. Davvero perfetto.
Fece un passo indietro ed espirò, rendendosi conto che stava tremando leggermente. Era il pezzo finito o il ricordo del suo ex a farla sentire in quel modo? Con le sopracciglia aggrottate, poggiò il pennello sul barattolo di vernice e sistemò entrambi gli oggetti sul tavolo da lavoro. Non importava. La sua opera d’arte era terminata. Ed era il pezzo migliore che avesse mai realizzato.
Si asciugò le mani sui pantaloni e si diresse in cucina, prese un calice dalla credenza e stappò una bottiglia di Silver Oak Cabernet che aveva tenuto in serbo per quel momento. Era il progetto più lungo a cui avesse lavorato e meritava di essere celebrato. Come avrebbe potuto venderlo? Quando portava a termine qualcosa si sentiva sempre come se avesse partorito, ma per realizzare quest’opera ci aveva messo così tanto che era come se fossero un tutt’uno.
Riempì il bicchiere e bevve un lungo sorso, assaporando il gusto raffinato di quel vino costoso che si concedeva forse una volta all’anno. Avrebbe dovuto lasciarlo respirare per un po’, ma non c’era tempo. Questa particolare bottiglia era speciale perché le era stata regalata da una cara amica. Una delle poche che aveva, e l’unica persona che faceva parte della sua cerchia ristretta, a parte Agnese della Furini Gallery. Agnese rappresentava una figura materna, ma Jade era la sua migliore amica. Trascorrevano molto tempo insieme. Anche lei era un’artista. Si erano incontrate alle mostre d’arte che entrambe frequentavano quando Gio era arrivata in Italia ed erano andate subito d’accordo. Ma, sebbene nel presente condividessero tutto, nemmeno Jade conosceva il suo passato. Forse era per quello che le piaceva così tanto. Jade non aveva mai curiosato. Era spontanea e divertente. Aveva stupendi capelli rossi, a cui spesso cambiava colore, e bellissimi tatuaggi su tutto il corpo. Non aveva filtri e per Gio era una boccata di aria fresca. Aveva occhi profondi color ambra e si truccava e vestiva alla moda, l’esatto opposto di Gio. Non che lei non volesse truccarsi o vestirsi con stile, semplicemente era abituata a stare nel suo studio con il camice o la tuta da lavoro. In Italia le donne erano molto diverse: sempre vestite in modo impeccabile, davano un gran peso alla moda. Jade non l’aveva mai guardata dall’alto in basso, come facevano spesso le ragazze italiane, ed era stata una compagnia piacevole per tutti quegli anni. Era sempre l’anima della festa e Gio poteva rilassarsi con lei. Era un’amicizia perfetta.
Suonò il campanello e Gio fece un salto. Non stava aspettando nessuno. Si mosse esitante verso la porta e tirò un profondo respiro prima di guardare nello spioncino. Sussultò, tutto ciò che riusciva a vedere erano un petto e delle grosse braccia su cui le maniche lasciavano intravedere dei tatuaggi.
Tress, ti ucciderò per questo.
Aprì le cinque serrature e schiuse la porta.
«Dante? Ciao, ehm, ho dimenticato qualcosa al negozio?» gli chiese con il cuore che le batteva nel petto.
«Ciao Gio, mi dispiace irrompere in questo modo, ma mi serve qualcuno che faccia un test per me e Tress mi ha detto che tu lavori con i metalli. Un nuovo produttore ha portato questi e ho bisogno di qualcuno che mi dica se funzionano bene.»
Tese la tagliatrice laser verso di lei. Gio la osservò, poi gli rivolse uno sguardo confuso, senza prendere l’oggetto dalle sue mani.
«Per favore?»
Il modo in cui pronunciò quelle parole quasi la fece sciogliere.
«N-non so cosa dire», balbettò con un groppo in gola.
«Semplice. Di’ che mi farai sapere come funziona. Non voglio prenderla se non è una buona tagliatrice. E io non lavoro con i metalli.»
Poi sorrise, facendole battere il cuore ancora più forte.
«Va bene. La proverò e ti farò sapere.»
Dante guardò il vino che aveva in mano. «Festeggi?»
Avrebbe voluto scolarsi il bicchiere per calmare i nervi. L’energia che lui sprigionava la faceva tremare.
«S-sì», balbettò ancora, «ho appena finito una cosa a cui lavoravo da un bel po’. Ho l’abitudine di festeggiare con questo particolare vino quando porto a termine un progetto importante.»
Si mordicchiò il labbro inferiore e oscillò sui talloni.
«Mi piacerebbe vederlo. Posso?» Mentre aspettava una risposta, Dante portò le mani al pizzetto e si accarezzò la barba.
Gio esitò. Poche persone erano state nel suo studio. Ma come avrebbe potuto dirgli di no? Si era accorto che stava tremando?
«Io, ehm…» Guardò i suoi occhi grigi come l’acciaio e capitolò. «Okay.»
Indietreggiò per far entrare quella sagoma enorme e si stupì che non dovesse abbassare la testa per passare dalla porta. Avrebbe potuto sollevare la sua struttura minuta con una sola mano.
«Prego, seguimi. Lo studio è qui dietro.»
Mentre camminava, percepiva chiaramente la sua energia. Era di nuovo al massimo dell’intensità. Si muoveva fluidamente dentro e fuori di lei con una tale potenza da costringerla a stringere forte il bicchiere perché non cadesse.
Entrarono nel salotto riadattato che adesso era il suo studio, l’opera era nel centro, sul cavalletto. Una parte di lei era felice che lui la vedesse – andava orgogliosa di quel pezzo – ma l’altra parte temeva le critiche. E se non gli fosse piaciuta? Si rendeva conto di tremare, sia per la sua vicinanza sia per il nervosismo: lui stava per vedere una sua creazione.
Dante si avvicinò e per un momento rimase a guardarla senza dire nulla, continuando a giocare con il pizzetto, cosa che lei trovava estremamente intrigante. Ci girò intorno, guardandola con attenzione. Nei suoi occhi di ghiaccio c’era il fuoco, e lei poteva sentirne il calore.
«È stupenda, Gio. Una meraviglia.» Si voltò per guardarla negli occhi. «Devo averla. Quanto mi costerà?»
Gio sentì le dita allentare la presa sul bicchiere, quasi al punto da farlo cadere. Aprì la bocca per parlare, ma non le uscirono le parole.
«Sono serio, Gio. Quanto costa?»
«Io-io non ne ho idea. L’ho finita dieci minuti fa. Le mie opere d’arte vanno alla Furini e vengono vendute lì. Non ho ancora pensato al prezzo.»
«Quanto tempo ti ci è voluto?»
«Quasi un mese.»
«Avrei detto di più. È un pezzo così complesso. E sì, il rosso ci sta alla perfezione. Lo rende quasi vivo. Cosa provavi quando hai dato quel colore?»
La conversazione era così naturale che lei rispose senza nemmeno pensarci. «Rabbia.»
Lui alzò le sopracciglia, ma non disse nulla.
Lei si sorprese della sua ammissione. E se non l’avesse più voluta? I soldi stavano finendo e aveva un gran bisogno di vendere.
«Ti darò ventimila euro.»
Questa volta il bicchiere cadde e si frantumò sul pavimento.
«Cavolo!» farfugliò Gio, le guance di nuovo in fiamme. Le girava la testa. Davvero aveva detto ventimila? «Oddio, che imbranata! Perdonami. Devo pulire, torno tra un secondo.»
Quasi volò fuori dalla stanza, ma lui la seguì in cucina e prese i tovaglioli di carta mentre lei si muniva di sgrassatore e cestino della spazzatura. Le girava di nuovo la testa come quando era nel negozio. Cosa diavolo le succedeva?
«Scusami, Gio, se ti sembra un insulto al tuo lavoro. Dimmi tu il prezzo. Devo averla. Colleziono opere d’arte in metallo, perché non possiedo questo talento, e questa è assolutamente eccezionale. Perché non ho mai sentito parlare di te prima d’ora?»
Dentro di lei risuonò un campanello d’allarme. Perché nessuno sa chi sono.
«No, no», obiettò. «È più che sufficiente. In realtà, è troppo. Non posso permetterti di pagare così tanto. Alla galleria verrebbe venduto per un quarto di quella cifra, forse.»
«Devi cambiare galleria», le disse Dante, aggrottando la fronte. «Se questo è indicativo degli altri tuoi lavori, allora dovresti vendere esclusivamente nelle migliori gallerie del mondo.»
Gio sentì le guance infiammarsi. «Mi ritengo fortunata perché posso fare un lavoro che amo e c’è gente a cui interessa comprarlo. Esporre le proprie opere a Roma, Parigi e New York è il sogno di ogni artista, ma la realtà è ben diversa. La Furini Gallery è di proprietà di una mia amica. Se così non fosse, probabilmente le mie creazioni non sarebbero esposte da nessuna parte.»
«Vedremo, Gio. Un talento come il tuo arriva sempre da qualche parte. A volte è solo questione di tempo.»
Gio si chinò a raccogliere il bicchiere ma, distratta dalle sue parole, valutò male un pezzo di vetro affilato e si tagliò un dito.
«Oh», esclamò, mentre il sangue iniziava a scorrerle lungo la mano. «Che diavolo mi succede oggi?»
* * *
Dante dilatò le narici. Dovette fare uno sforzo enorme per non portare alla bocca quel dito. Lei profumava di paradiso.
«Dammi un secondo. Devo sciacquarlo.»
Lui annuì, incapace di pronunciare una parola. Quel profumo lo stava inebriando. Il suo stesso odore divenne più intenso. Dalla bocca gli uscì un grugnito basso, che Gio non riuscì a percepire. Sentì l’acqua scorrere in cucina e si chinò a raccogliere i vetri. Non poteva permettere che si tagliasse di nuovo o le sarebbe saltato addosso. Aveva ripulito tutto, quando lei tornò con due bicchieri di vino e un cerotto al dito.
«Unisciti a me. Cercherò di non far cadere anche questo.»
Sorrise in modo spontaneo per la prima volta da quando si erano incontrati. Perché era tanto diffidente? Cosa le era capitato? Ribolliva di rabbia al solo pensiero. Se qualcuno le aveva fatto del male, sarebbe morto. Di una morte lenta e dolorosa. Scosse la testa, chiedendosi perché lei gli suscitasse una reazione tanto intensa.