Il ritorno del capo della famiglia, nella Sala Gialla, produsse una nuova commozione: sospiri, singhiozzi, mute strette di mano. Il principe era sempre pallido e parlava a stento, con gesti larghi di sconforto:
«Troppo tardi!... Più nulla da fare!... Fino a iersera stava benissimo, mangiò anzi con appetito due uova e bevve una tazza di latte... All'alba di stamani, improvvisamente, chiamò e...» e tacque, quasi non potendo proseguire.
Il signor Marco, deposta la valigia, confermava:
«Impossibile prevedere questa catastrofe... Nel primo momento, speravo fosse soltanto una sincope... ma purtroppo la triste verità...» Chiara e la cugina piangevano; il Priore deplorava specialmente che nessun sacerdote l'avesse assistita negli ultimi istanti; ma il signor Marco assicurò che ella erasi confessata due giorni innanzi, che il Vicario Ragusa era arrivato in tempo a darle l'assoluzione; mentre il principe da canto suo riferiva:
«Abbiamo improvvisato una cappella ardente... tutti i fiori della villa... ne hanno mandati da ogni parte...»
«E Ferdinando?» domandò Chiara
«Non è venuto?... Ah!» Egli si batté a un tratto la fronte. «Dovevo passar io ad avvertirlo!... Me ne sono scordato!... Baldassarre!... Baldassarre!...»
Ma, sul più bello, don Blasco, il quale aveva tenuto d'occhio la valigia quasi ci fosse dentro roba di contrabbando, lo tirò per la manica, domandando: «E il testamento?»
Il principe, con un altro tono di voce, non più dolente, ma premuroso, pieno di scrupoli:
«Il signor Marco qui presente» rispose, «m'ha comunicato che le ultime volontà di nostra madre sono depositate presso il notaio Rubino. Noi aspetteremo, se credete, l'arrivo di Raimondo e dello zio duca... Frattanto, abbiamo suggellato tutto quel che s'è trovato, per renderne stretto conto, a suo tempo, a chi di ragione... Il signor Marco possiede però un documento che riguarda i funerali... Credo che di questo si debba dar subito lettura...»
E il signor Marco, tratto di tasca un foglio, lesse in mezzo a un profondo silenzio:
«In questo giorno, 19 maggio 1855, trovandomi sana di mente e non di corpo, io sottoscritta, Teresa Uzeda principessa di Francalanza, raccomando l'anima a Dio e dispongo quanto appresso. Il giorno che piacerà al Signore chiamarmi con sé, ordino che il mio corpo sia affidato ai Reverendi Padri Cappuccini affinché sia da essi imbalsamato e nella necropoli del loro cenobio custodito. Voglio che il funerale sia celebrato, con quel decoro che compete alla famiglia, nella chiesa dei detti Padri in segno della mia devozione alla Beata Ximena, nostra gloriosa parente, la cui salma nella loro chiesa si venera. Durante il funerale e dopo che il mio corpo sarà imbalsamato, voglio, ordino e comando che esso sia vestito della tonaca delle Religiose di San Placido, e che alla cintura mi sia messa la corona del Santissimo Rosario donatami dalla mia diletta figlia Suor Maria Crocifissa il giorno della sua monacazione, e che sul petto mi sia posto il crocifisso d'avorio, memoria del mio amato consorte principe Consalvo di Francalanza. In segno di particolare penitenza ed umiltà, espressamente impongo che il mio capo sia appoggiato sopra una semplice e nuda tegola: così voglio e non altrimenti. Per la necropoli dei Cappuccini ordino che si costruisca una cassa a cristalli, dentro alla quale sarà posto il mio corpo nel modo di cui sopra; essa avrà una serratura con tre chiavi delle quali una rimarrà a mio figlio Raimondo conte di Lumera, la seconda, in segno di speciale benevolenza pei servigi prestatimi, al signor Marco Roscitano, mio procuratore e amministratore generale, e la terza al reverendo Padre Guardiano di esso cenobio dei Cappuccini. Nel caso però che il detto signor Roscitano dovesse lasciare l'amministrazione della mia casa, ordino che la chiave passi all'altro mio figlio Lodovico, Priore nel monastero di San Nicola dell'Arena. Questa è la mia volontà e non altra.
Teresa Uzeda»
Il signor Marco, che s'era rispettosamente inchinato al passaggio relativo alla sua persona, abbassò il foglio; il principe disse guardando in giro gli astanti:
«Le volontà di nostra madre sono leggi per noi. Sarà fatto secondo ha prescritto.»
«In tutto e per tutto...» confermò il Priore, chinando il capo.
Don Blasco, che soffiava come un mantice, non aspettò neppure che l'adunanza si sciogliesse. Afferrato il marchese per un bottone del soprabito, esclamò:
«Sempre pulcinellate?... Fin all'ultimo?... Per far ridere la gente?...»
E il signor Marco era appena salito al primo piano, nelle stanze dell'amministrazione contigue al suo quartierino, per dare ai dipendenti gli ordini opportuni, che le persone venute a cercarlo si presentarono a lui. Il ceraiolo di San Francesco veniva a offrire cera di prima qualità, lavorata all'uso di Venezia, a sei tari; il maestro Mascione portava una lettera dell'avvocato Spedalotti, il quale pregava il signor Marco di far eseguire la messa di requiem del giovane compositore; Brusa, il pittore, sollecitava l'appalto della decorazione pel funerale solenne della principessa...
«Come sapete che ci sarà un funerale solenne?»
«Per una signora come la principessa!»
«Ripassate domani...»
E Baldassarre chiamava:
«Signor Marco! Signor Marco!... Il principe!...»
Ma nuovi postulanti sopravvenivano. Nessuno l'aveva ancor detto, ma si sapeva che la principessa di Francalanza non poteva andare all'altro mondo senza una gran cerimonia, senza un gran scialacquo di quattrini, e ognuno sperava di guadagnarne. Raciti, il primo violino del Comunale, voleva offrire la messa funebre di suo figlio; saputo che Mascione aveva ottenuto una lettera di Spedalotti, era corso a sollecitare la raccomandazione più valevole del barone Vita; Santo Ferro, che aveva la manutenzione del giardino pubblico, sperava gli commettessero la camera ardente, e poiché Baldassarre, dal cortile, tornava a chiamare:
«Signor Marco! Signor Marco!... Il principe!...» il signor Marco si sbarazzò bruscamente dei postulanti:
«Ma andate al diavolo!... Ho altro da fare, adesso!»
Un formicaio, la chiesa dei Cappuccini nella mattina del sabato, che neppure il Giovedì Santo tanta gente traeva a visitarvi il Sepolcro. Tutta la notte era venuto dalla chiesa un frastuono di martelli, d'asce e di seghe, e le finestre erano state abbrunate fin dal giorno precedente. A buon'ora, dinanzi alla folla curiosa che gremiva la terrazza e le scalinate, avevano inchiodato sulla porta maggiore il drappellone di velluto nero con frange d'argento, sul quale leggevasi a caratteri d'oro:
PER L'ANIMA
DI
DONNA TERESA UZEDA E RISÀ
PRINCIPESSA DI FRANCALANZA
ESEQUIE
Verso sedici ore, don Carlo Canalà, col naso in aria, sotto la porta spiegava al principe di Roccasciano, tra le gomitate di quelli che entravano continuamente:
«Veda: all'esterno non giudicai conveniente... dilungarmi del soverchio.. Massima semplicità: per l'anima... esequie... Penso che nella sua concisione... per avventura...»
Ma gli urti, le pestate di piedi, le esclamazioni dei curiosi non gli consentivano di filare il discorso; la gente sbucava a torrenti da tutte le parti, sospingevasi in chiesa, calpestava i mendicanti venuti a mettersi accosto alle porte ed ai cancelli per far baiocchi.
«Sol esso il nome... onde i concetti, per avventura...»
Alla fine, don Cono si decise anch'egli ad entrare; ma, separato dal compagno, fu travolto, come un chicco di caffè nel macinino, dal turbine umano che per il troppo angusto passaggio s'ingolfava nella chiesa.
Essa era buia, pei veli delle finestre, pei manti neri che rivestivano le pareti e pendevano dalle arcate delle cappelle e si stendevano lungo il cornicione. Sopra una piattaforma alta sei o sette gradini dal pavimento e girata da una triplice fila di ceri, sorgeva il catafalco: una piramide tronca le cui quattro facce, tappezzate d'ellera e di mortella, portavano nel mezzo, disegnati a fiori freschi, quattro grandi scudi della casa di Francalanza. Al sommo della piramide, due angeli d'argento inginocchiati da una sola gamba aspettavano di reggere il feretro. Ad ogni angolo inferiore del catafalco, su tripodi d'argento, erano confitte quattro torce grosse quanto le stanghe, con uno scudo di cartone legato a mezz'asta; sei valletti con le livree del secolo XVIII, rosse, nere e dorate, impalati come statue, con le facce rase di fresco, reggevano ciascuno una delle antiche bandiere d'alleanza; dopo i valletti dodici prefiche, vestite di neri manti, coi capelli scarmigliati, stavano tutt'intorno al catafalco coi fazzoletti in mano, per asciugarsi le lacrime. Ma bisognava lavorar di gomiti, camminare sui piedi dei vicini, lasciarsi ammaccare le costole e pestare i calli e sudare una camicia prima d'arrivare a quell'apparato, intorno al quale una folla d'operai, di servi, di donnicciuole stava estatica ad ammirare, in attesa del corteo, il finto marmo della piattaforma, le urne di cartone scaglionate sui gradini, le lacrime di carta argentata gocciolanti dai veli neri: «Una galanteria!... Una cosa mai vista!... Per questo sono signoroni!... Lasciate fare a loro!... E dodici piangenti!... Neanche pel funerale del papa!... Ma il cadavere è già posto al colatoio per l'imbalsamazione.» E Vito Rosa, il barbiere del principe, spiegava: «Appena sceso dal Belvedere fu portato a palazzo e gli fecero girare gli appartamenti per l'ultima volta, come usano... Il cataletto era portato a spalla, senza stanghe... e tutta la parentela dietro, la servitù con le torce accese, come una processione!...» Le comari esclamavano: «E una tegola sotto il capo!... Che gli mancavano forse cuscini di velluto?... Anzi, questo è per maggior penitenza, con la tonaca di San Placido: non capite?»
Ma la gente incalzava alle spalle e i discorsi s'interrompevano, i primi arrivati dovevano cedere il posto, se ne andavano sotto il palco dell'orchestra, eretto a ridosso dell'organo, con quattro ordini di panche e i manichi dei contrabbassi che spuntavano dal più alto, ma ancora vuoto; o giravano dalla parte opposta, verso la cappella della Beata Uzeda, tutta splendente di lampade votive; e si fermavano, una volta fuor della ressa, a guardare l'altare scavato dove si vedeva, attraverso un vetro, la cassa antica rivestita di cuoio, che racchiudeva il corpo della santa donna; poi tentavano tornare verso il centro della chiesa per leggere le iscrizioni attaccate agli altri altari; ma la folla era adesso compatta come un muro. Don Cono Canalà, data un'occhiata all'apparato, aveva tentato tre o quattro volte, per conto suo, d'avvicinarsi a qualcuno degli epitaffi, ma non era riuscito a spingersi tanto innanzi da leggerli; e col capo rovesciato, il cappello ammaccato dai continui urtoni, i piedi pestati, la camicia in sudore, tangheggiava come una barca in mezzo alla tempesta. Con belle maniere, dicendo: «Di grazia!... La prego!... Mi scusi!...» arrivò finalmente a tiro della prima tabella, dove leggevasi:
SOTTO MULIEBRI SPOGLIE
CUORE GAGLIARDO PIETOSO
ANIMO ELETTO MUNIFICO
SPIRITO SVEGLIATO FECONDO
ONNINAMENTE DEGNA
DELLA MAGNANIMA STIRPE
CHE LA FE' SUA
«Onninamente?....» disse il barone Carcaretta che si trovava a fianco di don Cono. «Che cosa significa?»
«Importa interamente, o vogliam dire del tutto... Onninamente degna della stirpe... Come le piace questo concetto?...»
«Eh, va bene; ma non capisco perché si divertano a pescar le parole difficili!»
«Veda...» spiegò allora don Cono, insinuante: «lo stile epigrafico tiene al sommo grado del nobile e del sostenuto... Io non potevo adoprare...»
«Ah, l'avete scritta voi?»
«Sissignore... ma non solo, veramente: di unita col cavaliere don Eugenio... Io ho curato sovra tutto la forma... Bramerei vedere le altre: temo non abbian preso un qualche abbaglio, in copiando...»
Ma la chiesa era talmente gremita che potevano appena fare due passi ogni quarto d'ora; e tutt'intorno la gente che non riusciva ad andare né avanti né indietro né a veder altro fuorché la cima della piramide, ingannava l'impazienza dell'attesa chiacchierando, dicendo vita, morte e miracoli della principessa: «Adesso i suoi figli potranno respirare! Li ha tenuti in un pugno di ferro...» «I suoi figli: quali?...» «Costrinse don Lodovico, il secondogenito, a farsi monaco mentre gli toccava il titolo di duca; la primogenita fu chiusa alla badìa!... Se campava ancora ci avrebbe messo anche l'altra!... Maritò Chiara perché questa non voleva maritarsi!... Tutto per amor d'un solo, del contino Raimondo...» «Ma il padre?...» «Il padre, ai suoi tempi, non contava più del due di briscola; la principessa teneva in un pugno lui e il suocero!...»
Però tutti riconoscevano che, se non fosse stata lei, a quell'ora non avrebbero avuto più niente. Ignorante, sì; ma accorta, calcolatrice!
«È vero che non sapeva leggere né scrivere?»
«Sapeva leggere soltanto nel libro delle devozioni e in quello dei conti!»
Frattanto don Cono avvicinavasi, a passo di formica, alla seconda iscrizione:
ORBATA
DEL TUO FIDO CONSORTE
NEL MORTALE VIAGGIO
VECE FACESTI
AL TUOI FIGLI
DEL PADRE LORO.
Prima ancora di scorgere i caratteri, don Cono che la sapeva a memoria, recitò l'epigrafe al barone, fermandosi un poco a ciascuna parola, più a lungo ad ogni capoverso, gestendo con la mano come se spruzzasse acqua benedetta, per sottolineare i passaggi salienti:
«Ignoro se approvate questo concetto: orbata... vece facesti...»
Ma nuove ondate della folla lo divisero la seconda volta dal compagno. Veniva ora dalla terrazza e dalle scalinate un vasto sussurro, perché i rintocchi del mortorio annunziavano finalmente la partenza del corteo dal palazzo.
Intorno alla casa Francalanza c'era sempre una fiera, per le tante carrozze aspettanti, pel tanto popolo fremente d'impazienza. Dal portone socchiuso vedevasi un'altra folla ragunata nei due cortili, uno sciame di servi con le livree nere che andavano e venivano, il maestro di casa senza cappello che s'affannava a dar ordini, la carrozza di gala a quattro cavalli che sarebbe servita da carro funebre. Quando finalmente le due pesanti imposte girarono sui cardini, tutte le teste si voltarono, tutte le persone s'alzarono sulle punte dei piedi. Veniva innanzi la fila dei frati Cappuccini con la croce, poi la carrozza funebre, dentro alla quale si vedeva il feretro di velluto rosso, fiancheggiata da tutta la servitù con le torce in mano; poi l'Ospizio Uzeda dei vecchi indigenti, tutti a testa nuda; poi le ragazze dell'Orfanotrofio coi veli azzurri pendenti fino a terra; poi tutte le carrozze di famiglia: altri due tiri a quattro, cinque tiri a due, e poi ancora un altro gruppo di gente: una quarantina d'uomini, la più parte barbuti, con le giubbe di velluto nero, anch'essi coi ceri in mano.