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Inseguendo i ricordi

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Trafiletto

E se trovassi quel lui per cui sei stata messa su questa terra? Se fosse il tuo partner perfetto, la tua anima gemella? Se la tua vita con lui fosse molto più di quanto avresti potuto desiderare? Se voi due riusciste a creare una meravigliosa famiglia piena d’amore?

Io ho trovato quel lui ed era tutto per me.

Poi, un giorno, mi sono svegliata e lui era sparito. Erano tutti spariti.

Non posso accettarlo. Sono bloccata in una realtà che non mi appartiene, a struggermi per la vita che ho perduto e che era il tessuto stesso della mia anima.

Come posso trovare il mio futuro se il passato cerca di portarmi sempre più a fondo? Sto annegando e lotto per respirare in questa esistenza in cui nulla ha senso. Potrebbe essere solo follia... io potrei essere folle.

Ma se avessi provato la gioia di un amore che capita una volta nella vita, anche tu andresti a caccia dei ricordi.

***Questo è un libro autoconclusivo*** **Pensato per lettori maggiorenni per via dei contenuti**

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Capitolo 1 Una sensazione ostile mi colma il cervello. Il mio cranio si sta espandendo, pronto a esplodere per la pressione interna. Non avevo mai conosciuto un dolore così acuto. Tento di focalizzarne la fonte, ma nulla ha senso. Non riesco a concentrarmi. La stretta costante sul capo mi assorbe tutte le energie. Altre percezioni si insinuano nei recessi offuscati della mia coscienza. Ci sono odori contrastanti, un sapore sgradevole, suoni sconnessi, ma sono tutti echi a paragone di quell’assordante martellare. Bip. Bip. Gli impulsi incessanti, acuti, mi fanno male. Fateli smettere. Bip. Bip. Quel rumore ripetitivo sembra provenire da molto lontano, eppure allo stesso tempo la fonte si trova all’interno del mio cranio. A ogni squillo penetrante la pressione esplode, seguita da scosse di dolore. Che cos’è? Uso tutta la mia forza di volontà per concentrarmi. Non distrarti. Sento delle voci, ma non riesco a cogliere le parole. Percepisco qualcosa di caldo sulla mano. Credo. Sono scollegata dal mio corpo. Riesco a percepirne le diverse parti, ma non con chiarezza. Le sinapsi del cervello sono attive, tuttavia devono passare attraverso un labirinto di caos per raggiungere la loro destinazione. Quando infine arrivano in fondo, si ritrovano con più domande che risposte. L’informazione che restituiscono alla mente è permeata d’incertezza e disordine. Raccolgo un’enorme quantità d’energia per disporre di tutta la mia concentrazione. Apro gli occhi, solo per essere aggredita da una luce abbagliante. Li richiudo di scatto. Dove mi trovo? Perché sono così stanca? Non riesco a capirci niente, e non ho la forza di provarci. I bip svaniscono mentre l’oscurità mi trascina di nuovo giù, e io l’accolgo. *** Bip. Bip. Il motivo ritmico di suoni mi trascina fuori dal buio. Oltre le palpebre chiuse, posso avvertire la luce al di là del sonno da cui mi sto svegliando. La nebbia di prima s’è alzata. Il dolore, anche se ancora presente, è offuscato. Colgo una strana combinazione di odori: sostanze chimiche, dopobarba, menta, e gigli. «Mia? Mia? Puoi sentirmi, amore?», chiede una voce maschile. Non riesco a riconoscerla, ma è familiare. «Mia? Tesoro, sono la mamma. Mia, ce la fai ad aprire gli occhi?». Mamma? Mi preparo all’impatto con la luce intensa, poi apro appena le palpebre. Due figure sono curve su di me. Sbatto le ciglia, ho gli occhi secchi e irritati. «Mia?». Mamma singhiozza, prima di lasciarsi cadere con delicatezza sul mio petto, il corpo che sussulta sopra il mio al ritmo del pianto. Sono così confusa. «Mamma?». La mia voce non è che un sussurro. Quella breve domanda mi graffia la gola nell’uscire. Ho una cannuccia di plastica tra le labbra secche. «Ecco. Bevi», mi invita una voce maschile. L’acqua fredda mi dà una sensazione straordinaria mentre scivola lungo la gola. Mi tolgono la cannuccia dalla bocca prima che abbia finito, e subito me ne lamento. «Devi andarci piano. Non voglio che ti senta male», dice lui. La stanza poco alla volta diventa più nitida. Mi fa male il collo quando lo giro un po’. Sbatto più volte le palpebre, e sento che gli occhi, come tutto il resto, sono infiammati. Due donne si precipitano dentro al mio campo visivo. Mamma e l’uomo lasciano le mie mani e arretrano. Un turbinio d’attività mi circonda. «Che giornata memorabile!», dice la donna più bassa, con il camice blu, mentre mi solleva il braccio e lo avvolge in un misuratore di pressione. «Sapevamo che saresti tornata tra noi. Hai fatto un bel sonno, signorina». Mi sorride con calore e intanto il tessuto intorno al mio bicipite inizia a gonfiarsi d’aria. Guarda il monitor a lato del mio letto. «Come ti senti?», chiede quella più alta, con il camice bianco, che mi sta proiettando una luce negli occhi. «Ehm… bene». «Hai mal di testa?». Annuisco. «Ti procureremo qualche antidolorifico in più per quello. Riesci a seguire la luce?», chiede, prendendo la penna luminosa e muovendola avanti e indietro, poi in alto e in basso. «Perfetto. Puoi dirmi il tuo nome?». «Mia Chapman». «Quanti anni hai, Mia?». «Ehm...», esito. Quasi dico ventiquattro, ma poi mi balena in testa un altro numero. «Trenta». «Trenta?», mi interroga la dottoressa. Annuisco. «Sai perché sei qui?». «No», rispondo con sincerità. «Hai avuto un incidente d’auto. Ti ricordi qualcosa?». Cerco di riportare gli eventi alla memoria. Non rammento nulla di un incidente. Scuoto il capo per farlo capire. «Non c’è problema. A volte i ricordi impiegano del tempo a tornare quando i pazienti si risvegliano dal coma. Oppure potresti averlo rimosso del tutto. Anche quello succede spesso. Torneremo tra poco per farti qualche altro test, e poi Lauren», indica l’infermiera con un cenno del capo, «ti porterà giù al reparto di radiologia per fare delle ecografie. Per ora tutto sembra andare benissimo, quindi prima ti lasceremo un po’ di tempo per stare con la tua famiglia». L’infermiera e la dottoressa escono dalla stanza, e i miei due visitatori riprendono i loro posti accanto al letto, entrambi mi afferrano una mano. Guardo i desolati muri bianchi davanti a me e noto che sono abbelliti da disegni colorati. Mi concentro su una bambina stilizzata dai lunghi capelli biondi, sovrastata da un arcobaleno; la linea sottile del suo braccio si allunga a tenere il guinzaglio del suo cucciolo. Benché la bimba e l’animale siano stilizzati, sono a un altro livello rispetto agli scarabocchi multicolore che li circondano. Sono piuttosto in linea con le mie capacità artistiche nel disegno. Sorrido, perché so che sono un regalo di mia sorella, Gracelyn. «Regan ha fatto questi disegni per te». Guardo mia madre in viso. Ha le labbra incurvate in un sorriso e gli occhi colmi di lacrime. «Regan?». «Sì, la figlia di Grace. Ti ricordi di Regan, vero?». Non rispondo. Mi volto invece verso l’altro lato della stanza, dove tutto è coperto di mazzi di fiori. Scorgo parecchi vasi pieni di gigli. Sapevo di averne sentito l’odore. Non esiste nulla al mondo come quel profumo. La fragranza, fresca, potente e inconfondibile, mi fa venire in mente matrimoni, estati e amore. È una delle cose che preferisco. Mamma nota che sto ammirando le composizioni floreali. «Tantissime persone hanno mandato fiori per tutto il tempo del tuo ricovero». Sorride tra sé. «Come vedi, hai sempre avuto gigli in abbondanza. Grace, Grayson, e io te li abbiamo portati ogni settimana, per essere certi che non mancassero mai nella tua stanza. Sappiamo che sono i tuoi preferiti». La sua voce si fa flebile e il sorriso viene soppiantato da un’espressione addolorata. «Per quanto tempo?». Non riesco ancora a parlare con un tono normale. «Sei mesi». Mi giro verso l’uomo che, seduto sul lato del letto, mi accarezza la mano. Ha gli occhi colmi di lacrime non versate. «Sei stata in coma per sei mesi». Lo fisso mentre elaboro le sue parole. I ricordi si riaffacciano alla mia mente, e all’improvviso so chi è. Si chiama Grayson Strong. Ci conosciamo dalle superiori. I suoi genitori sono Bob e Shirley Strong, e dirigono una clinica veterinaria nella zona sud di Austin. Ha tre sorelle e un fratello. So tutto di lui. Ma perché è qui? «Grayson?», chiedo. «Eccomi, Mia. Vedrai che starai bene». I grandi occhi nocciola brillano mentre mi guarda. Sul suo volto leggo dolore, sollievo e amore. Mi osserva con un’espressione carica d’adorazione. Mi sforzo di trovarle una spiegazione, ma poi ho un sussulto, e scatto a sedere sul letto. «Dov’è Aiden?», grido. Mamma e Grayson si guardano. Le loro espressioni mi provocano un brivido di puro panico lungo la spina dorsale. C’è qualcosa di strano. «Mamma, dov’è Aiden? L’hai chiamato? È con i bambini?». Mia madre mi stringe delicatamente la mano. Il suo sguardo teso scatta verso Grayson prima di tornare a posarsi su di me. «Chi è Aiden, tesoro?». Tenta di usare un tono rassicurante, ma percepisco il tremito nella sua voce. «Mio marito, mamma!», urlo. «Sta arrivando? Perché non è qui? Dovrebbe esserci!». È tutto così difficile da comprendere. Non so ancora bene cosa pensare della mia situazione, ma so che avere Aiden accanto a me renderebbe tutto più facile. «Non ci siamo sposati», dice Grayson. «Hai avuto l’incidente mentre andavi alla cena prenuziale». Lo scruto. Non mi è ancora chiaro cosa ci faccia qui, e non so di che stia parlando, ma ho una paura terribile che lui e mia madre mi stiano nascondendo qualcosa. «Cosa sta succedendo, mamma?». Distolgo lo guardo da Grayson. Strappo via la mano dalla sua presa e lo indico con il dito. «Perché è qui? Dov’è Aiden?». Mia madre si morde il labbro in un moto nervoso, i suoi occhi saettano di nuovo verso Grayson. La aggredisco: «Smettila di ignorarmi! Perché non mi dici dov’è? Era in macchina anche lui? È ferito? Per favore, voglio saperlo!». Le lacrime mi rigano il volto mentre l’angoscia mi esplode dentro. Un terrore mai provato prima mi imprigiona i pensieri. Tutti i possibili “e se” mi annebbiano i sensi. E se Aiden fosse stato con me? E se i bambini fossero stati con me? E se non stessero bene? Non appena l’ultimo pensiero mi sfiora la mente, mi poso le mani sul petto. Si aprono sulla pelle per difendere il cuore che sta per disintegrarsi in un milione di pezzi indistinguibili l’uno dall’altro. Mia mamma stringe le labbra in una linea sottile, poi inspira a fondo e risponde: «Tu non hai un marito di nome Aiden. Tu non hai nessun marito, Mia. Grayson è il tuo promesso sposo». «E Aiden?», grido. Scuote il capo. «Non ti ho mai sentita nominare nessun Aiden prima d’ora, tesoro». «Non sai dove sia?». Scrolla di nuovo la testa. La paura continua a scorrermi nelle vene. Il cuore batte così forte che l’eco mi martella le tempie. «Dove sono i miei bambini?». La supplica è quasi un sussurro. Un’altra triste scrollata di capo. Grido: «I miei bambini, mamma! Dove sono?». Raddrizza la schiena e si alza dal bordo del letto. Non smette di torcersi le mani. «Mia», ha la voce incerta, il tono addolorato, «tu non hai figli». La fisso a bocca spalancata. Come può dire una cosa simile? Perché mi fa del male? Eppure mi ama. «Per favore, non farmi questo. Dove sono Hudson, Gracie e Caden? Caden è ancora un neonato, mamma. Ha bisogno di me. Hanno tutti bisogno di me!». «Tua sorella, Grace, è a casa. Verrà presto a trovarti». «Non sto parlando di mia sorella Grace! Parlo di mia figlia! Dove sono i miei bambini?», urlo, sopraffatta dal panico. Le lacrime le inondano il volto. Le trema la voce quando dice: «Non hai nessun bambino, Mia. Mi dispiace». «Stai mentendo! Perché mi fai questo? Dov’è Aiden? Dov’è la mia famiglia? Dimmelo!». Lei china di scatto il capo e continua a piangere. Mi volgo verso Grayson. «Gray, tu lo sai? Lo sai? Perché non me li lascia vedere?». Lui sembra troppo terrorizzato per rispondere. «Mia, tu non hai bambini, e non hai un marito perché non ci siamo ancora sposati». «Bugiardo!», urlo. «Siete due bugiardi!». Singhiozzo, e le lacrime mi inondano il viso, mentre mi siedo e getto le gambe giù dal letto. Devo fermarmi un attimo a riprendere il controllo su me stessa, perché un’ondata di nausea mi assale. Appena è passata mi strappo le flebo dal braccio. Sento mia madre dire qualcosa a qualcuno, ma non ci faccio caso. Devo andar via. Devo trovare Aiden e i bambini. C’è qualcosa che non va, ed è ovvio che nessuno qui ha intenzione di aiutarmi. Delle infermiere si precipitano nella stanza. Mi afferrano. Le loro voci mi implorano. Vogliono che torni a sdraiarmi. Anche loro mi stanno separando dai miei cari. «Me ne vado a cercare la mia famiglia! Dove sono?», ruggisco più forte che posso. Sono annientata dal dolore, dalla confusione e dalla rabbia. Non so cosa stia succedendo. Mi sono svegliata in un mondo pieno di caos, ma appena troverò Aiden starò bene. Lui ha sempre aggiustato tutto. L’adrenalina che alimenta la mia furia svanisce, e uno sfinimento improvviso mi confonde. Guardo la siringa in mano all’infermiera vicino a me. Il mio corpo ricade sul letto, e le palpebre si fanno pesanti. Mi concentro su mia madre, in piedi in un angolo della stanza. Si copre la bocca con le mani mentre piange. Il mio cuore è diviso tra il desiderio di consolarla e quello di urlare. Mi si chiudono le palpebre, e incontro quei brillanti occhi verdi che mi fissano in mezzo all’oscurità. Mi focalizzo su quelli finché il buio prende il sopravvento, e non ho più paura.

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