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2 Sedici anni dopo. Milano, Tennis Club Ambrosiano, 20 luglio 2004, ore 15,30 Il bar in cui mi trovo non è decisamente quello che mi sarei aspettato da questa specie di balera ricolma di vecchi decrepiti imbottiti di soldi e che ha la pretesa di assurgere ad un luogo d’élite. Come dovrebbe, invece, essere la Club House dello strafico Tennis Club Ambrosiano di Milano. Pazienza… La mia solita birra alla spina c’è, a prescindere da ciò che la circonda in fatto di fauna, architettura e arredamento. Raccolgo col dito un po’ di schiuma che cola dal boccale ghiacciato. Sorseggio e mi guardo intorno: c’è un via vai di soci frequentatori... e socie frequentatrici dei miei coglioni. Ma in questi giorni soprattutto di ragazzi superarrapati che circolano a piede libero senza nascondere niente del loro fisico atletico. Sono arrivati da ogni parte del mondo per esibirsi, in questa caliente tournée estiva, nella cosa che meglio hanno imparato fino al compimento del loro sedicesimo anno di età: il gioco del tennis. Sono sparpagliati dappertutto. E giocano con tanta di quella grinta e bravura, che solo una fortunata miscela di passione e capacità fuori dal comune, può far raggiungere in campo. Ma io sono qui per catturarne uno solo. Eccolo là, con il suo fisico prestante, che sta terminando il suo ennesimo e intenso allenamento prima della finale che... avrebbe dovuto disputare questo pomeriggio alle cinque. Non sa che me lo sto mangiando con gli occhi. Rinfodera le racchette come fossero spade, si china e quando torna in posizione eretta, sulla sua spalla pende un borsone rosso della Nike che sembra molto pesante, se si osserva quanto si tendano i possenti muscoli del braccio che lo sorregge. Si guarda intorno, saluta l’amico, apre il cancelletto in ferro con un movimento ampio del braccio, ringrazia i raccattaballe e si avvia verso gli spogliatoi. Da solo… Molto bene. Molto, molto bene. Le sue scarpe rumoreggiano al calpestare della ghiaia. Alte siepi corrono lungo la recinzione di fondo del campo centrale, dal quale proviene il suono della pallina sul piatto-corde: due splendide ragazze stanno disputando la finale. Mi sembra che la biondina italiana stia perdendo. Oooh... poverina... Sento solo questi due rumori e mi ci immergo tutto: sono lontano anni e anni, mentre mi avvicino a lui, al punto da sentirne l’odore del sudore sulla pelle di tutto il corpo. È troppo tardi. Non posso più tornare indietro, e credo di non volerlo nemmeno. Gli giungo da dietro, lo supero quasi e in quel maledetto frangente, lo urto con l’intenzione di farlo. Quel contatto di spalle mi eccita, ma non sessualmente: ho in mano la sua vita che ho appena sfiorato. Di cui ho sentito la forza prorompente che solo l’essere così giovane ti dà: ti senti imbattibile e non solo nel tennis, vero, carino? Gli sono davanti. Può vedere la mia schiena. Mentre lo sento camminare alle mie spalle muovo la testa con un movimento lento e impercettibile, fino al punto in cui i miei occhi riescono ancora a vederlo. Lui non si accorge di nulla e continua con il suo incedere fiero e sicuro a camminare verso gli spogliatoi. Mi sento invisibile... si sente invincibile. Per un attimo, con la coda dell’occhio e solo quel tanto che basta a sorprenderlo ancora nei suoi ultimi movimenti che la vita fluente nelle sue vene gli consente, lo vedo sfilarsi i polsini di spugna, umidi del suo sudore, e ne fa scivolare uno sulla fronte. Chiude gli occhi e si lascia andare a mostrare finalmente la stanchezza che lo pervade dalla testa ai piedi, del resto nessuno ora lo può vedere, sta pensando, ma due occhi sono assurdamente puntati su di lui. Sono i miei, sono gli occhi... ora color nocciola di chi sta per compiere un atto malvagio e ne è consapevole. Mi fermo a guardare il grosso tabellone elettronico – che spunta davanti ad un albero altrettanto imponente – posizionato sulla rete di fondo del campo centrale. Ho giocato su quel campo una finale persa per un soffio. Di sfiga. Ai tempi della mia gioventù. Di cui altri si sono impossessati, non certo per un estremo atto di amore male interpretato. Il ragazzo entra negli spogliatoi. Lo vedo scomparire dietro una porta che si chiude da sola. Ma che certo non basterà a salvargli la vita. So come si chiama. Il suo nome, però, non ha molta importanza, quel che, invece, mi interessa sono le sue scelte... dimmerda. E finalmente lo avevo trovato. Lui, Alberto Tous, spagnolo, carino e sensibile al punto da fare innamorare una dolce tennista alla quale pochi giorni prima su un foglio di carta aveva lasciato una dedica un po’ amara, ma che ricordava più un arrivederci che un addio. Lo avevo visto scrivere su quel pezzo di giornale che la ragazza aveva prontamente strappato da una rivista di moda, stancamente appollaiata insieme ad altre sopra un tavolino di cristallo, in vana attesa di essere sfogliata: quelli dovrebbero essere posti da Olivieri, Pinketts o Scerbanenco. Tre artisti della penna così diversi, ma similmente affascinanti e coraggiosi, tanto da catturare l’intero animo di chi li legge. Ma a non meno di così dovrebbe arrivare il gusto letterario di chi frequenta quei lussuosi divani che, invece, per me scadono nell’ostentazione anche di quanti ci si siedono sopra. Che poi dal parrucchiere sfogliano a tutto andare quei rotocalchi ammazza-cervelli, grazie ai quali conoscono molte più cose sull’Isola di famosi di quante ne sappiano di sé e della loro squallida vita. La ragazza, con quel gesto pronto di chi sa il fatto suo, aveva mostrato tutta la sua apprensione che le derivava dalla consapevolezza che se non lo avesse fatto subito, avrebbe perduto per sempre quell’occasione unica di instaurare con quel bel ragazzo spagnolo, con i capelli lunghi e sudati, che giocava con la sinistra e soprattutto da dio, un rapporto che riguardava esclusivamente lui e lei. Il suo cuore era colmo di sensazioni da portare dentro anche quando sarebbero ripartiti verso nuove mete tennistiche, a volte non sempre le stesse per ognuno di loro. Poi, la ragazza piegò il loro pezzo di carta con un gesto solenne mentre lo guardava negli occhi, ricambiata. La vidi allungare una mano che scivolò amorevolmente sul bel viso del bel ragazzo ed ebbi la certezza che tutti i sensi dei loro giovani corpi fossero, in quell’attimo breve, concentrati su quel punto di contatto unico e irripetibile. Erano sicuri che quel dolce toccare, comunque fossero andate le cose tra loro, mai nessuno avrebbe potuto portarselo via. Vidi la ragazza allontanarsi verso la toilette con il suo gonnellino arancione – che ondeggiando intorno ai fianchi lasciava ben poco alla mia fantasia – e con gli occhi arrossati di chi sta provando sensazioni contrastanti di eterno amore e di rabbia, con la Spagna nel cuore e l’Italia sotto i piedi. Mi stavo alzando dopo aver terminato di sorseggiare la mia solita birra, quando notai che stava uscendo dal bagno con le racchette sotto il braccio. Non so cosa mi spinse verso quella porta. Mi avvicinai per entrare, ma prima lasciai che lei uscisse, non senza esserci scambiati uno sguardo che mi sembrò sul momento troppo carico di significati per una ragazza che era appena stata davanti ad uno specchio ad asciugarsi vere lacrime di sofferenza. Aaah... sedici anni, sedici anni! Anche se in effetti io non sono poi tanto male. In questo momento, sono alto 1 e 90, capelli lisci e chiari non troppo corti, non troppo lunghi, occhi color nocciola, rotondi e incastonati in un viso che a guardarlo non lascia scampo. Ma se non vuoi cadermi tra le braccia, allora, cerchi nel mio corpo un appiglio sicuro per rimanere immobile dove sei, nella speranza di notare anche solo un difetto che ti convinca che in fondo rinunciare a me è davvero poca cosa. Il problema sorge nel momento in cui ti accorgi che i glutei sono perfettamente in tono e avvolti in un paio di jeans, che a dire il vero non indosso molto volentieri, ma che non nasconde nemmeno l’estrema bellezza di due gambe sportive e potenti quanto basta. E allora, quel che potrebbe ancora restare in vita dentro di te, quale ultima chance per rimanere indifferente certo solo esteriormente a tanto fascino, crolla miseramente alla vista delle mie spalle larghe e del torace possente meravigliosamente fasciati dalle cuciture di una T-shirt Ralph Lauren beige, che sono costretto a indossare per l’occasione. Quando fui dentro la toilette, ciò che vidi mi stupì al punto da provare sconcerto: sulla mensola di marmo nero sopra il lavandino con la rubinetteria dorata troneggiava il biglietto. Prima che la ragazza si accorgesse di aver dimenticato il suo tesoro e che un senso di angoscia la pervadesse tutta spingendola a correre in bagno come non aveva mai fatto nemmeno nelle sue migliori performance tennistiche, mi appropriai del biglietto con un gesto del braccio che ricorda la lingua del rospo quando scatta all’infuori e cattura la sua preda. Mi chiusi in uno dei quattro servizi a disposizione, quello riservato alla clientela maschile, e aspettai il ritorno di lei. Non dovetti attendere molto perché l’imprecazione che seguì il rumore della porta che si apriva non mi lasciò dubbi su chi fosse la persona che, adesso, era chiusa nella toilette insieme a me. Volli fermamente vivere fino in fondo quel momento. Decisi così di uscire e ciò che mi trovai di fronte furono due occhi verdi spalancati sulla vita che era stata così crudele con lei, tanto da rubarle qualcosa che avrebbe dovuto essere indissolubilmente suo e di lui. Il suo sguardo mi si appiccicò addosso. Ovunque. “Scusi, ha, per caso, visto qui sopra un pezzo di carta?”. Il suo dito indice a indicare la mensola. Con la faccia più innocente che avessi da spiattellarle lì sul momento: “Mi dispiace, ma non ho visto nulla che assomigliasse a un biglietto strappato da una rivista e amorevolmente ripiegato in quattro”. “Come fa a sapere che?..” ribatté lei, più incuriosita che allarmata. Devo dire che, in quel momento, avrei voluto confortarla con parole del tipo: – Cara, se mi guardassi ancora una volta negli occhi, e non solo in quelli, ti accorgeresti che in fondo quel biglietto non è poi così importante. Alla tua età i sentimenti ti fanno sentire in paradiso o ti trascinano all’inferno, e tutto nella durata di pochi istanti. Ma mi astenni dall’assumere quell’atteggiamento paterno e da play-boy consumato al tempo stesso, che ritenni non mi si addicesse affatto in quel momento: “Ti ho vista mentre lo strappavi e lo davi al ragazzo, ma del biglietto qui in bagno mi spiace nessuna traccia”. Poi, incalzando con un tono e uno sguardo che solo l’esperienza poteva farmi sfoderare in quel frangente, le dissi con tutto il candore del mondo: “Sei molto carina con quel gonnellino arancione, ma toglimi una curiosità, tu, per caso, sotto indossi le mutandine di pizzo, tipo quelle che ho visto sul sedere di Serena Williams quando si è piegata a raccogliere una palla da terra?”. A dire il vero, ciò che accadde dopo non lo ricordo nitidamente, ma quello che ho ancora stampato sulla fronte è un reticolo di circa 3 centimetri per 2 ancora pulsante e rosso impresso con la sua racchetta che, e questo lo ricordo, invece, molto bene, sfoderò alla velocità della luce da un lungo fodero nero. Bene, un reticolo da curare. Un’altra ferita da dimenticare. In via del tutto eccezionale, per questa settimana gli illustrissimi signori soci dovranno fare a meno di sollazzarsi nei campi da tennis e spulciarsi sotto le docce. La mia speranza è quella di trovare uno spogliatoio vuoto... e pieno solo di lui e di me. Il cigolio degli ingranaggi non oleati è attutito dallo scroscio dell’acqua: il ragazzo si sta dando una bella rinfrescata. Non c’è nessuno. Non ci sono nemmeno le tendine alla Psycho, ma in questo momento so quello che Norman provava: la consapevolezza che sta per uccidere, la rabbia che monta e monta all’interno del cranio. Perché cazzo non hai fatto quello che volevi? Te l’hanno sempre spacciato come un atto schifoso di puro egoismo. E invece, dovevi solo provare a vivere a modo tuo la tua ancor giovane vita... che io sto per stroncare. Perché guardavi i film polizieschi, quelli degli anni ‘70, dio bono... tu non eri neanche nato!, con un occhio aggrappato al televisore e l’altro sull’orologio che per te aveva sempre i minuti contati. Non ti facevano mai godere un cazzo di niente, né il film, né l’allenamento maledetto che ti obbligavano a fare. Non è, forse, così? Perché ci andavi? Perché non rimanevi col culo inchiodato alla sedia a guardarti il tuo film con Maurizio Merli e a trangugiare a più non posso miliardi di fottute noccioline? Mentre verdi volanti ti catturavano il cervello con un inseguimento da mozzare il fiato e da incollare gli occhi al teleschermo ...e nient’altro fuori. Col cuore che ti sfondava il petto perché, porca troia!, non ti lasciavano fare quello che cazzo ti pareva! Perché ti alzavi con la rabbia e l’angoscia fino alla nausea e spegnevi la tivù? Mentre la tua cara nonna, l’unica, diceva: – Fai quello che ti senti di fare, cerbiatto mio. E parlava piano per non farsi buttare fuori di casa. Ma tu, senza capire, con il tuo solito e unico amico di sempre, un borsone nero dell’Ellesse in cui ci infilavi dentro anche le racchette di alluminio, quelle verdi della Yonex ...fantastiche!, uscivi di casa e come un condannato a morte prendevi il tuo Boxer blu e andavi a fare una cosa in cui riuscivi da dio e che ti faceva sembrare ancora più figo, con quei capelli lunghi, sudati e neri, e quante e quante ragazze di cui, però, non te ne fregava un cazzo. E mentre eri lì a rincorrere come un coglione la pallina da una parte all’altra del campo, non sapevi se crederci nel tennis. Senza riuscire a darti una risposta, respiravi tutto il tormento del vuoto che ti risucchiava in un abisso ancora più buio. Dentro il quale tremavi di paura. Dentro il quale ti sentivi irrimediabilmente solo. Per chi cazzo lo stai facendo? Il dubbio mi scavava dentro come quella dannata scheggia di segatura nell’occhio che una volta si usava in campo per asciugare il sudore delle mani e che prendevi da quelle scatolette in ferro che pendevano dalla recinzione a bordo campo. Dio che schifo quando ci hai trovato dentro una pezzo di cacca messo là da qualche maledetto stronzo! E pensare che io su quella cazzo di terra rossa manco ci volevo stare! Il dubbio di non sapere dove stessi andando e la sensazione di usurpazione facevano squillare forte un campanello d’allarme nel tuo stomaco e tu lo sentivi, oddio se lo sentivi!… Ma avrebbe dovuto metterti in guardia sul fatto inconfutabile che la tua fottuta vita ce l’avevano in mano quei due stronzi dei tuoi genitori: – Invece, tu che cazzo hai fatto? Hai eseguito alla lettera le massacranti direttive che ti venivano impartite! – Solo così ho la certezza di essere amato. – Tutte stronzate! Quante maledette partite sei costretto a vincere? – È l’unico modo per sentirmi degno del loro amore. – E quando perdi? – Fanno finta che non esito, e io mi sento in colpa. – Hanno fatto credere anche a te che la loro vita dipende da quella fottuta partita che tu, deludendoli a morte, avevi osato perdere! Quante corse disperate ti hanno costretto a fare, col fiato spezzato e il cuore a mille per addentare quel bene di lusso? Perché era questo per te l’amore. Come cazzo hai fatto a non accorgerti di nulla? Perché non ti sei mai ribellato a tanto egoismo, misto ad una sordità e una cecità senza confini? – Potevi farlo tu! – E tu, allora?! Hai lasciato che fossero gli altri a decidere per te cose che ti appiccicavano addosso ogni giorno a forza. E ora hai il terrore di muoverti al di fuori di quel recinto che ti hanno costruito intorno. Oltre il quale anch’io credevo che ci fosse il baratro, oltre il quale ancora l’abisso in cui ero convinto di precipitare, se solo avessi mosso un passo di testa mia. – Nemmeno tu li hai mandati affanculo! Perché non l’hai mai fatto? – Quando? Quando non mi rivolgevano più la parola o erano solo sibili di sprezzo quelli che uscivano dalla loro bocca se mi azzardavo a dire che volevo fare a modo mio? O se in un atto di estrema ribellione (?!) non andavo a fare allenamento? Non ci riuscivo... Perdio, non ci sono mai riuscito! Dio, se l’avessi fatto! Ma tu, bel ragazzo spagnolo, perché cazzo non hai scelto di fare ciò che volevi veramente? Oggi ti saresti salvato, oggi io non sarei qui costretto a ucciderti per liberarmi per sempre di quella orrenda parte che mi porto dentro, come un demone insaziabile che mi divora giorno e notte. Ma tu, brutto stronzo di uno spagnolo che stai facendo la doccia a Milano, che ci sei venuto a fare qui, se volevi andare a gareggiare con la tua moto da cross? L’ho saputo, sai?, che l’hai comprata di seconda mano con i tuoi stramaledetti risparmi e ti sferza dentro come una sciabolata il fatto che i tuoi cari, ...non ancora estinti, fanno finta che neanche ce l’hai una moto! Avevi detto che quella competizione la sognavi anche di notte, altro che scopata con quella biondina italiana dolce e carina! Altro che gran fisico da sfoggiare, ma che non ti accorgi nemmeno di avere, mentre pensi di passare inosservato sotto gli occhi di quelle giovani puttanelle che alla tua vista butterebbero molto volentieri a mare i loro scarsi propositi di brave bambine e ti salterebbero addosso come delle sanguisughe affamate. Cristo santo! Vuoi saperla una cosa? Dicono che c’è una zona del cervello in cui risiedono i freni inibitori che ci differenziano dalle bestie e che ci impediscono di fare tante cosucce brutte e cattive... Mi è sembrato, però, di capire che quella zona nel mio cervello non sia sviluppata in modo normale. Quindi, mio caro ragazzo, bere una birra al bar e andare via senza pagare il conto mi provoca lo stesso disappunto di quando farò penetrare nel tuo cuore la lama affilata del mio coltello a serramanico. Un colpo di tosse basta a farlo girare. Nessun tipo di allarme riesco a leggere nei suoi occhi. Solo un lento e rilassato movimento del corpo me lo fa vedere in tutta la sua bellezza. Peccato, davvero peccato… Poi, con voce impietosa che trasuda tutta la rabbia dei secoli: “Sai perché non ho mai giocato a pallavolo?”. Io credo che il senso completo della frase lo abbia colto al volo, ma pensandoci bene, ciò che, probabilmente, non riesce a capire è perché quest’uomo apparentemente normale abbia inspiegabilmente deciso di comportarsi come un pazzo. Chiude rapido l’acqua. Allunga un braccio per tastare la parete di fianco alla ricerca della spugna bianca del suo accappatoio che non fa in tempo ad avvolgerlo tutto perché lo strappo via dalle sue mani. Ho bisogno del suo torace nudo. Scaglio lontano l’accappatoio mentre conficco i miei occhi dentro i suoi, che finalmente cominciano a parlarmi di paura e sembrano tremare insieme a tutto il suo splendido corpo, nudo e bagnato. Rispondo alla mia stessa domanda con una delle mie tante voci: “Perché ero convinto che tutto ciò che mi piaceva fosse irraggiungibile e vergognoso, che la mia vita aveva un senso solo se avessi giocato a tennis”. Il mio coltello contro la sua gola. Terrorizzato e incredulo di fronte ad un incubo spaventoso che, invece, per me ha tutto il senso del mondo, muove le labbra quel tanto che basta a fare uscire un soffio di voce: “¿Por qué me hiciste esto? ¿Qué te hice... yo no te conozco... yo nunca te vi...”. Parole strozzate, occhi sbarrati che guizzano in ogni direzione dietro di me, nella terribile speranza di vedere entrare qualcuno negli spogliatoi. Ma non c’è nessuno. E io devo fare presto. La mia voce è in preda all’eccitazione in un crescendo di autentica follia e il fiato che fa muovere il mio petto su e giù vorticosamente, gonfia e sgonfia i polmoni avidi di ossigeno da risputargli in faccia come fosse veleno: “Sono io che conosco te! E per questo devi morire!”. Il coltello penetra nel solito punto del torace, fino a sprofondare con forza dentro il suo cuore. È un istante brevissimo, in cui il suo corpo si accascia sul pavimento bagnato dall’acqua della sua doccia. E credo che in quell’ultimo deflusso di vita riesca ancora a sentire ciò che esce dalla mia bocca, tesa a mostrare un ghigno che riproduce tutta la morte... che lui sta vivendo in questo estremo sguardo di terrore: “Tu e Maurizio Merli avete una cosa in comune: siete morti tutti e due in un Tennis Club”. Dalla mia mano scivola a terra la cartolina e svanisco oltre la porta, sulla ghiaia silenziosa, oltre le siepi, oltre ogni cosa si frapponga fra me e il mondo intorno, come meglio non saprebbe fare il più grande illusionista di tutti i tempi, Houdini. Addio… Alberto… Arrivederci, invece, a te dolce ragazzina bionda e carina e saprò consolarti come meriti, stesa chissà dove con gli occhi spalancati sulla mia fronte su cui giacerà ancora il reticolo che, ne sono sicuro, sarai contenta di avermi stampato addosso a mo’ di tatuaggio.
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