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Castigo

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Trafiletto

Sono gli anni della Belle Époque. Cesare Dias, un signorotto napoletano dal carattere egoista, cinico e distaccato, sposa la bella e malinconica Anna, che lo ama profondamente, ma presto la tradisce con la sorella di lei, Laura, prendendosi gioco di Anna e delle sue sofferenze. Dopo avere scoperto il tradimento del marito, Anna si toglie la vita. Cesare non riesce a dimenticare e a perdonare se stesso e la propria amante, che dopo averlo perseguitato con la sua passione ossessiva, lo obbliga a sposarla, costringendolo a un matrimonio infelice. Ma un giorno, a Firenze, Cesare intravede in una carrozza una donna identica in tutto e per tutto ad Anna. È Hermione, duchessa di Cleveland, donna bellissima, colta, libera e sfuggente. Ma Hermione è davvero Hermione? La sua presenza, come uno spettro emerso dal regno dell’oltretomba, si aggira tra i personaggi del romanzo con il suo fascino ambiguo e misterioso, tormentandoli con un interrogativo fatale: è possibile che una creatura ormai scomparsa ritorni su questa Terra per ottenere vendetta o per trovare la pace e il riscatto dalle sofferenze che ebbe in vita?

Matilde Serao, con la sua scrittura intrisa di sfumature decadenti e d’impronta dannunziana, trasferisce le atmosfere nordiche del romanzo gotico in ambito mediterraneo, entro una Napoli e una Firenze tanto solari e aristocratiche, quanto dominate dal fascino del mistero e della morte. Una narrazione che ancora oggi è in grado di affascinare e rapire con le sue atmosfere stupende e lussureggianti di stampo ottocentesco e tardo romantico.

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I-1
IUn alto e tetro silenzio era nella stanza di Cesare Dias. Egli stava seduto nel seggiolone di cuoio bruno, teneva appoggiati i gomiti sulla grande scrivania di legno scolpito e le due mani gli nascondevano gli occhi e la fronte: si vedean solo i capelli un po’ scomposti e le labbra pallidissime sotto i mustacchi disfatti. Fuori, la triste giornata invernale declinava e tetre si facevano le ombre nell’austera stanza, tetre intorno a quella immobile figura di uomo di cui, nell’alto silenzio, parea non si udisse neanche il respiro. – Eccellenza... – mormorò una voce trepida. Cesare non si mosse: sembrava non avesse inteso. – Eccellenza, perdonate... – ripetette l’esitante e tremula voce. Allora egli, quasi a forza, liberò i suoi occhi e la sua fronte dal velo delle mani e fissò lo sguardo stanco e smarrito sulla cameriera, che lo aveva due volte interrogato. Non avea pianto, Cesare: ma tutto il volto aveva una espressione di stanchezza e di smarrimento. – Come debbo vestirla? – chiese la donna. Pensò un minuto: – Di bianco – disse, a voce sommessa. E come quella donna se ne andava, al suo domestico e terribile ufficio, egli la richiamò. – Il vestito da sposa: anche il velo. Un singulto spezzò il petto della cameriera. Cesare Dias la guardò, trasognato, come si guarda un fantasma: la mano, che egli aveva abbandonata sulla scrivania, tremava. La donna se ne andò, piangendo, senza che egli avesse soggiunto altro. Restò solo, di nuovo. Non un rumore giungeva dal resto dell’appartamento: non un rumore dalla strada. Annottava. Un servo entrò, portando una lampada accesa, coperta da un largo paralume, e la posò sulla scrivania, augurando la «buona sera». Ma il padrone non rispose: la luce della lampada, ristretta in cerchio vivido dal paralume, batteva sugli oggetti della scrivania che entravano nel suo alone luminoso. Cesare li guardava, intensamente, questi. Era il suo calamaio di bronzo antico, figurante un Fauno che accarezza una Chimera, i due o tre portasigarette di argento niellato, di cuoio impresso, i portacenere di porcellana giapponese dove erano ancora i resti di sigarette fumate al mattino; e la lucernetta che serviva ad accenderle, e due o tre scatole di foglietti, aperte, donde, talvolta, egli traeva un foglio per scrivere una parola a un amico: raro scrittore, avente in odio le lettere e le loro risposte. Tanti altri minuti e leggiadri oggetti, leggiadri nella serietà del loro gusto, avea quella grande scrivania, ma restavano in ombra, oltre il lume, perduti nell’oscuro del legno, fra le penombre che avevano invasa la gran camera. Cesare non guardava ciò; non guardava neppure il vasello di limpidissimo cristallo dove, ogni mattina, una mano innamorata veniva a mettere un mazzolino di fiori freschi. Sorridendo di piacere, il Fauno passava la mano carezzevole sulla nuca della Chimera; scintillava l’argento dei portasigarette, chiudendo il conforto, il sollievo dei brevi, malinconici pensieri del fumatore; la carta rammentava i piaceri fini, le ore squisite, i nomi delle persone simpatiche: ma presso il calamaio, l’alone della lampada mostrava due oggetti insoliti a quella scrivania e su cui stavano fissi gli occhi di Cesare Dias. Il primo era una piccola rivoltella delicatamente incrostata di acciaio e di avorio, come un gioiello; posava sulla scrivania, brillando nelle gentili intarsiature, vezzosa nella sua brevità, quasi lasciando indovinare, in tanta grazia, la precisione rigorosa del suo meccanismo. Ah, si rammentava bene, Cesare Dias, dove l’aveva comperata e quando; se ne ricordava con una lucidità vivissima; a Liegi, nel Belgio, in un molto noioso viaggio che aveva fatto colà, sei anni prima, seccatissimo di quel paese che imita la Francia, e capitato a Liegi solo per un suo segreto e bizzarro amore delle belle armi. Non se ne era servito mai, di questa rivoltella, così carina e l’aveva tenuta nel suo cassetto, dimenticata, rivedendola ogni tanto, quando gli capitava: non si ricordava chi l’avesse mai caricata. Adesso… il gioiello era lì, e attirava magneticamente i suoi occhi coi suoi punti luminosi. Pian piano la mano abbandonata sulla scrivania, si appressò all’arme, la toccò, il dito si posò sull’orlo della piccola canna dai metallici, crudeli riflessi. Per ribrezzo la mano si ritrasse: il dito era sporco di nero, un colpo era stato sparato, con quella leggiadra rivoltella. Più profondo si distese il pallore sul viso di Cesare. Accanto alla rivoltella giaceva ammucchiato, molle, un fazzolettino di batista, orlato di un lieve merletto. Piccole macchie di sangue bagnavano il merletto, alcune già secche e un poco scolorite, altre ancora fresche e vivide; la batista, poi, era tutta una larga macchia di sangue che agli orli, asciugandosi, s’ingialliva, mentre in mezzo era di un rosso fortissimo. Quel fazzoletto era stato composto, per tanto tempo, nella sua custodia di raso profumato, era passato per le bianche mani inguantate, al ballo, ai teatri, a tutti gli spettacoli della gioia umana; e poi, due ore prima, si era appoggiato sulla ferita sanguinante di un cuore infranto per sempre. E quelle piccole macchie di sangue, come quella larga macchia di sangue ancora umida, lo attiravano con il singolare e pauroso fascino che solo il sangue versato ha, poiché il sangue pare ancora vita, poiché il sangue è vita fluente. Aveva toccato la canna sudicia dal passaggio della palla micidiale, ma la sua mano di uomo non vinse l’orrore che gli faceva quel sangue, malgrado che, con tutte le misteriose forze delle cose vive, quel sangue invocasse le carezze della sua mano, i baci delle sue labbra, le lagrime dei suoi occhi. Da tre ore, su quella scrivania, egli aveva innanzi a sé quella rivoltella minuta e graziosa, quel fazzolettino muliebre: e non sapeva staccarne gli occhi, e per liberarsi da quella visione aveva dovuto nascondersi il volto fra le mani, vedendo ancora, attraverso le dita, lo scintillìo dell’arma micidiale e la larga macchia di sangue che copriva la batista. Quella rivoltella e quel sangue erano la morte: e, intorno a lui e in lui, era l’alto e tetro silenzio, la immobilità delle cose finite. Un lieve passo sfiorò il tappeto e un’ombra femminile venne ad appoggiarsi dall’altra parte della scrivania. Era Laura, sua cognata. Nella faccia della bionda fanciulla, candida faccia giovanile e verginale, nei grandi, chiari occhi azzurri, nel purissimo arco della bocca vi era la medesima espressione di smarrimento; il trasognare dello sguardo e della voce di coloro che furono stupefatti dalla più improvvisa fra le catastrofi. Ella aveva gittato sul suo vestito bianco uno scialle di merletto nero che le cadeva da una spalla, e i capelli biondi erano disciolti sulla nuca. Stette un poco lì, posando leggermente le mani sulla scrivania, come non si reggesse. A un momento si guardarono, smemorati, quasi non riconoscendosi. Ella per la prima parlò. – Non ho trovato nessuna lettera – disse, parlando a se stessa. Egli fece un cenno largo con la mano. Perché avrebbe dovuto esservi una lettera? – Nessuna, nessuna – si ostinò lei, con l’idea fissa dei disperati. – Ho guardato dovunque, nella sua stanza, altrove. Nessuna... niente... Cesare crollava il capo. Era naturale che nessuna lettera si trovasse: perché cercarla? – Eppure... avrebbe dovuto esservi... – soggiunse Laura. – Cercherò... cercherò ancora... Ma non se ne andò. Egli abbassava il capo, non volendo guardarla. Ella restava, presa anche lei dagli oggetti deposti sulla scrivania. – ... È quella? – chiese, poi, indicando la rivoltella. Anzi che parlare, Cesare assentì col capo. – Stava... vicino a lei? – Sì... – rispose Cesare, così piano che appena Laura l’udì. – Un sol colpo? – Un solo. – E... subito? – Subito. Tacquero, come se avesse sfiorato la loro testa il soffio gelido della morte. Laura si curvò, lentamente, sulla tavola, tenendo lo sguardo sul fazzoletto macchiato di sangue: lo voleva vedere più da vicino. – È suo? – domandò monotonamente, quasi che questo interrogatorio le sgorgasse dall’anima senza sua volontà. Ma un brivido di terrore, di ribrezzo, di pietà colse Cesare Dias. – Taci... – disse con voce fievole, coprendosi il volto con le mani. Ella era curva sulla scrivania, vinta dalla spaventosa seduzione del sangue, stendendo la mano per toccare il fazzoletto. – ... Molto sangue? – chiese, come in un sogno, Laura. – Taci, taci, taci – scongiurò lui, cadendo con la testa sul tavolino, con le braccia prosciolte. Ma ella aveva messo le mani sul fazzoletto e con le bianche dita frugava fra le pieghe sanguinose della batista e del merletto, senza che tremassero: soltanto con uno smarrimento maggiore negli occhi. Si alzò parlando a se stessa: – Niente, anche qui... bisognerà cercare altrove... Poi, chetamente, come era venuta, volse le spalle e se ne andò, col lembo dello scialle nero che le cadeva sull’abito bianco e coi capelli biondi che le si disfacevano sulle spalle. Si erano parlati, si eran guardati: l’un volto smarrito e stanco era il riflesso dello stanco e smarrito volto dell’altro, ma non si erano, forse, né visti, né uditi. – La signora è vestita – annunciò, rientrando, la cameriera. Egli trasalì e si levò immediatamente, dicendo: – Vengo. Non parea, forse, che il tempo si fosse arrestato di ventiquattro ore e che ella lo avesse mandato a chiamare per farglisi vedere nel suo vestito di broccato azzurro, prima di andare al teatro? Tutta l’anima di Cesare Dias vacillò, un minuto. Ripetette, vagamente: – Vengo... vengo... Doveva andare. La signora non era forse vestita col suo bell’abito? Ella si facea sempre guardare da lui, prima di andare al ballo, o al teatro, o alla passeggiata, e solo la sua approvazione la lusingava. La cameriera aveva fatto il suo compito, ed egli andava a dare il lasciapassare mondano alla giovane signora che era pronta. Vacillava lo spirito di Cesare fra il sogno e il desiderio. E mormorò bizzarramente: – Ditele... ditele che vengo... La povera donna lo guardò e crollò il capo. Non era che una semplice e oscura domestica; giammai la signora le aveva detto una sola parola dei suoi dolori, ma l’aveva sempre trattata con bontà. Crollò la testa alla strana ambasciata, mentre Cesare Dias si riaggiustava macchinalmente i capelli scomposti, con l’istinto di chi deve presentarsi corretto innanzi a una signora. – Eccellenza, – soggiunse la donna, dopo un’esitazione – ho messo anche il crocefisso... sul petto... – Avete fatto bene – rispose lui subito, con l’anima nuovamente immobilizzata nel pensiero della morte. – E anche la Madonna.. della Seggiola... quella Madonna di cui era tanto devota. Quella Mamma e quel Figlio sanno tutto... e le avranno già perdonato... Sanno tutto... – È vero, sanno tutto – replicò lui. La donna uscì. Cesare camminò un paio di volte, su e giù per la severa stanza, si fermò un istante innanzi all’oscuro suo letto, coperto da una coltre bruna; sull’arazzo, in fondo al baldacchino, il gran crocefisso di avorio stendeva le braccia sulla croce nera. Poi, un rumor sordo si udì fuori. Cesare andò al balcone; un vento di tempesta si levava nella sera invernale, le nuvole basse parea che scendessero a opprimere la terra e il mare; la piazza della Vittoria era nera e deserta; era nero l’orizzonte del cielo e del mare, su cui smortamente biancheggiava la base del monumento senza statua, sulla riva; e nell’ombra profonda, indistintamente, si vedea ondeggiare la palma, al vento tempestoso. Così, l’alto e tetro silenzio della casa, della sua austera stanza, era attraversato, ogni tanto, da questo rumorìo ancora basso, come sotterraneo, del vento che si levava. Egli si trasse di là, senza neanche chiudere le imposte, contro la imminente bufera notturna che si levava dal mare; attraversò la sua stanza senza fermarsi, senza voltarsi indietro; attraversò il lungo corridoio che portava alla camera di sua moglie e restò sulla soglia, colpito da un acuto profumo, colpito da una viva luce. Le pietose mani, che avevano vestito la signora, avevano anche buttato per terra, sul tappeto bianco a grandi miosotidi azzurre, sui mobili di quella chiara e lieta stanza, sulle poltrone, dovunque, quanti fiori si erano trovati in casa, quanti fiori si erano trovati al vicino mercato dei fiori, a Chiaia. Acutamente odoravano le bianche rose di gennaio: sottilmente odoravano le dolci rose thea; soavemente odoravano dei mazzolini precoci di violette: freschi e freddi fiori d’inverno, caduti come una pioggia in ogni angolo della bella stanza, dove la signora stava, vestita. Il gran balcone che dava sulla piazza della Vittoria era chiuso; erano sbarrate le imposte; abbassate le portiere di stoffa, sciolte dai loro lacci; abbassata la gran tendina di merletto; così nell’aria, più fortemente odoravano i fiori sparsi. In quel chiarore, ogni oggetto, nella stanza della signora, si vedea precisamente, nitidamente: sul tavolino da toletta, innanzi allo specchio dalla larga cornice d’argento, fra tutte le graziose, le leggiadre cose, che servono a fare l’acconciatura di una donna, vi era la coppa di bronzo antico, dove ella lasciava i gioielli che aveva portati nella giornata; e vi erano le stelle di brillanti che le avevano ornato la testa e il seno, la sera innanzi, al teatro; vi era il filo di perle che aveva portato al collo, e un grande spillo a trifoglio, fatto da tre perle nere, di cui una, malaugurosamente, mancava; e sul piano del tavolino, fra le boccette e i vasellini, le forcinelle di tartaruga che non aveva messo fra i capelli, al mattino: e innanzi allo specchio, tre candelabri ardevano; e fra i gioielli, i ninnoli eleganti, i pettini di avorio e le forcelle di tartaruga che avevan sostenuto il peso delle nere trecce, eran cadute delle rose, dei mazzolini di violette, dal freddo profumo dei giorni d’inverno. Sopra una poltrona erano ancora la vestaglia di velluto nero, che ella aveva portato nella lunga notte insonne, e una sciarpa di crespo bianco che ella aveva al collo, messe lì, come se ancora aspettassero la persona che le riprendesse, per indossarle; e anche sovr’esse eran caduti i fiori, sul tetro velluto della veste e sul morbido tessuto della sciarpa.

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