(Sans titre)-1
— Forse — rispondeva la donna, quasi protendendo il sorriso contro il vento eroico della rapidità, nel battito del suo gran velo ora grigio ora argentino come i salici della pianura fuggente.
— Non forse. Bisogna che sia, bisogna che sia! È orribile quel che fate, Isabella: non ha alcuna scusa, alcuna discolpa. È una crudeltà quasi brutale, un'offesa atroce al corpo e all'anima, un disconoscimento inumano dell'amore e d'ogni bellezza e d'ogni gentilezza dell'amore, Isabella. Che volete voi fare di me? Volete rendermi ancor più disperato e più folle?
— Forse — rispondeva la donna, aguzzando il suo sorriso che il velo pareva confondere e quasi fumeggiare nei mobili riflessi, di sotto alle due ali ferrugigne che le coprivano gli orecchi inserite nel suo cappello a guisa d'elmetto intessuto d'una paglia larga e forte come trùcioli di frassino.
— Ah, se l'amore fosse una creatura viva e avesse gli occhi, potreste voi guardarlo senza vergognarvi?
— Non lo guardo.
— Mi amate?
— Non so.
— Vi prendete gioco di me?
— Tutto è gioco.
Il furore gonfiò il petto dell'uomo chino sul volante della sua rossa macchina precipitosa che correva l'antica strada romana con un rombo guerresco simile al rullo d'un vasto tamburo metallico.
— Siete capace di metter la vita per ultima posta?
— Capace di tutto.
Parve guizzarle tra i denti e il bianco degli occhi l'acutezza del sorriso formidabile come il baleno d'un'arme a doppio taglio. Con la destra il furibondo afferrò la leva, accelerò la corsa come nell'ardore d'una gara mortale, sentì pulsare nel suo proprio cuore la violenza del congegno esatto. Il vento gli mozzava le parole su le labbra arsicce.
— Ora ho la vostra vita nelle mie mani come questo cerchio.
— Sì.
— Posso distruggerla.
— Sì.
— Posso in un attimo scagliarla nella polvere, schiacciarla contro le pietre, fare di voi e di me un solo mucchio sanguinoso.
— Sì.
Protesa ella ripeteva la sillaba sibilante, con un misto d'irrisione e di voluttà selvaggia. E veramente l'uno e l'altro sangue si rinforzavano, balzavano; l'uno contro l'altro parevano ardere ed esplodere come l'essenza accesa dal magnete nel motore celato dal lungo cofano.
— La morte, la morte!
Non sbigottita ma ebra, ella mirava l'imagine di lui nel fanale mediano, ch'era come un teschio orecchiuto, costrutto di tre metalli: mirava nella spera convessa del rame il capo rimpicciolito, ingrossato il basso del corpo, la mano sinistra enorme su la guida dello sterzo. Percotendo il sole nella spera, il foco divorava la faccia; e dell'imagine allora non appariva a lei se non il mostruoso torace decapitato e il pugno gigantesco nel guanto rossastro.
— Mi tenterai e mi deluderai ancóra?
— Forse.
— Vedi quel carro, laggiù?
— Lo vedo.
Le parole erano come faville fulminee che si partissero non dalla bocca senza respiro ma dall'apice del cuore lottante. Il vento le rapiva e le mesceva all'immenso vortice di polvere alzato nella traccia spaventosa. Parevano non avere la figura del suono ma quella dell'ardore, disumanate dalla brevità nella luce, dalla solitudine nello spazio.
— Chiudi gli occhi, dammi le labbra.
— No.
— Mordimi, e chiudi gli occhi.
— No.
— Moriamo.
— Eccomi.
Combattevano senza toccarsi ma invasi dallo stesso delirio che agita gli amanti acri d'odio carnale sul letto scosso, quando il desiderio e la distruzione, la voluttà e lo strazio sono una sola febbre. Il mondo non fu se non polvere dietro di loro; le forze si alternarono e si confusero. La donna era separata sul suo sedile, né sfiorava pur col gomito il compagno; ma soffriva e gioiva come se i due pugni dominatori non reggessero il cerchio, ben lei tenessero presa per gli òmeri squassandola. E trasposta era in lui l'illusione medesima, ché egli sentiva sotto le sue mani nella potenza dell'impulso grandeggiare il palpito della creatura agognata. Ed entrambi, come nella mischia ignuda, avevano il viso cocente ma nella schiena il brivido gelido.
— Non temi?
— Non temo.
Ella guardava la morte e non credeva alla morte. Vide l'ombra d'un pioppo su la via splendida; distinse sul ciglio erboso il fiore intatto del vento, il labile globo di piuma sul gambo sottile; si contrasse, divenuta un solo istinto vitale dalla nuca al tallone, imitando il guizzo delle rondini vive che sfioravano il cofano pieno di fremito. E non mai aveva conosciuto la sua propria forma come in quel punto, non mai nel suo letto, non mai nel suo bagno, non mai davanti al suo specchio: le lunghe gambe lisce come quelle dei chiari Crocifissi d'argento levigate da mille e mille labbra pie; l'esiguità delle ginocchia agevoli in cui era il segreto del passo ammirabile; le piccole mammelle sul petto largo come il petto delle Muse vocali, dall'ossatura palese di sotto i muscoli smilzi; e le braccia non molli ma salde che pur sembravano portare la più fresca freschezza della vita come una ghirlanda rinnovata a ogni alba; e chiuse nei guanti flosci le magre mani fino alle unghie screziate di bianco, sensibili come il cuore purpureo, ricche di un'arte più misteriosa che i segni scritti nelle palme; e tutto il calore diffuso sotto la pelle come una stagione dorata, e l'inquietudine delle vene, e l'odore profondo.
«No, non moriamo. Il cuore ti trema. Il tuo furore è vano. Godi e soffri di me. Non sono mai stata così forte e così desiderabile».
I suoi pensieri nascevano dal suo brivido. Ed ella portava sotto le due ali basse il suo viso di dèmone non come una maschera di carne ma come la sommità stessa della sua anima accesa nel vento sonoro e velata di fallacia.
— Isabella! Isabella!
Simile al cavallo nervoso che sente dinanzi all'ostacolo mancare il coraggio del cavaliere ed è certo che non andrà dall'altra parte, ella sentiva l'esitazione nei pugni del guidatore; e già misurava con l'occhio lo spazio tra il carro e il canale ove le ninfee biancheggiavano. Un grido involontario le sfuggì quando una rondine urtò contro i bugni del radiatore camuso uccidendosi.
— Paura?
— Per la rondine.
— Vuoi?
— Sia.
— Isabella!
Allora ella guardò il viso raso del compagno, non nella spera di rame ma nel rombo del pericolo al suo fianco: il viso bronzino, disseccato e indurito su le ossa evidenti, chiuso fino al mento come da una sorta di camaglio; onde sporgeva carnosa la bocca quasi fosse gonfia di sete e di disperazione. Poi guardò innanzi a sé. Subitamente l'orrore le arrestò il palpito, ché il carro era là, carico di tronchi immani che si protendevano oltre le corna delle due coppie di buoi aggiogate. L'ultimo battito delle palpebre afferrò netta la forma degli strati legnosi nel taglio dei fusti. Poi ella chiuse gli occhi: fu scossa dalla violenza dello sterzo, udì gli urli dei bovari e un muggito lùgubre come se la macchina micidiale passasse sopra le bestie stritolate. Aprì gli occhi: qualcosa di verde, di candido, di fresco le entrò nelle pupille. La macchina correva, muggendo dalla sua sirena, lungo il margine erboso del canale ove le ninfee galleggiavano innumerevoli. Dietro, il vortice della polvere nascondeva il passo della morte. E un repentino riso stridette per entro l'ondeggiamento del velo, sotto le ali dell'elmetto, su la faccia incolume e invitta.
Era un riso involontario, un convulso riso femineo, che le riempiva di lacrime il cavo degli occhi, la piegava a mezzo del corpo e pareva fosse per spezzarla in ogni sussulto. Ma ella diede alla sua debolezza e al suo male l'apparenza dello scherno vittorioso.
— La morte! La morte! — singhiozzò nella gola stridula. — L'ultima posta! Avete ucciso una rondine e prestato un muggito di spavento a quattro buoi troppo placidi.
Ella non poteva domare quel riso che le si partiva dalle viscere, dal più profondo di sé, dall'ignoto abisso della sua sostanza, con un suono inimitabile che pur sembrava falso alla sua anima e a quella di chi l'udiva. E il compagno taceva, senza guardarla, oppresso da un'angoscia annodata come un rancore inerte, che gli impediva di raccogliere l'irrisione e di volgerla in lieve allegrezza.
— Tutto è gioco — disse.
Moderava la corsa. Ora la strada era solitaria; e tutta la pianura in quel punto era una solitudine lontana come una ricordanza musicale, fatta di segni e d'intervalli costanti; ché gli argini verdi, e sovr'essi le pallide vie diritte, e i canali molli, i filari di salci di pioppi di gelsi, tutte le linee consentivano a quella dell'orizzonte, in concorde lentezza si prolungavano verso l'infinito. E il regno era del cielo inoccupato; ché qualcosa d'aereo, per tante quiete acque specchianti, alleviava la terra come i grandi occhi allèviano il volto umano.
Sopra la pulsazione del motore e sopra il riso della donna, che parevan salire dalla stessa meccanica inconsapevolezza, egli percepiva il silenzio senza confine. E da quella chiara libertà del cielo sgombro, e da tutte quelle bianche liste ricorrenti per la verdura, e dal balenare delle rondini sul fiso sguardo degli stagni, gli si compose l'imagine del suo volo. E imaginò di condurre non la rapidità che striscia ma quella che si solleva; imaginò di ritrovarsi nella lunga fusoliera che formava il corpo del suo congegno dedàleo tra i due vasti trapezii costrutti di frassino d'acciaio e di tela, dietro il ventaglio tremendo dei cilindri irti d'alette, di là dai quali girava una forza indicibile come l'aria: l'elica dalle curvature divine.
La donna aveva soffocato il riso, che di tratto in tratto rinasceva come un singulto infantile.
— Credo che siamo folli, Paolo — disse con una voce che si posò sul cuore dell'uomo come una mano cauta in atto d'imprigionare qualcosa che sia per fuggirsi.
Egli rivide, in un lampo, Isabella Inghirami sotto la tettoia che crepitava alla pioggia primaverile, là, fra i rotoli dei fili d'acciaio, fra le lunghe verghe di legno, fra i mucchi dei trucioli, negli stridori della sega, nei gemiti della lima, nei colpi del martello, mentre una tacita febbre umana pareva quasi raggiare intorno al grande airone inanimato che aveva già la tela tesa su le cèntine delle sue ali. Ah perché d'improvviso quell'opera delicata e misteriosa come il lavoro dei liutai, fatta di pazienza di passione di coraggio, e di eterno sogno e di antica favola, perché era divenuta una incerta carcassa al paragone della somma di vita accorsa da tutti i punti dell'Universo e adunata meravigliosamente su quel volto quasi esangue i cui sùbiti rossori commovevano come gli accenti sublimi dell'eloquenza e come le grida dei fanciulli? Quanto ingegno teso e ostinato, quanta accortezza e destrezza, quante prove e riprove nel trovare i modi delle legature, delle giunture, degli innesti! E per qual segreto, a un tratto, ecco, le fragili falangi di quelle dita ripiegate all'angolo di quella bocca socchiusa potevano assumere un valore che aboliva tutto l'acume della ricerca e tutta la gioia dell'invenzione? Egli rivide la visitatrice, poggiata senza peso il gomito contro una costa della fusoliera, presso il timone verticale, sotto una sàrtia rigida d'acciaio, con la mano senza guanto fra la gota e il mento a reggere il viso chino nell'attitudine dell'ascolto, sembrando l'ombra del cappello alato raccogliere l'astuzia molteplice e la seduzione sagace di Mercurio imberbe.
— Ancóra pensate male di me, Paolo? O sognate il volo di domani?
Gli parve che in lei corresse un lieve fremito.
— Penso — rispose — a quel giorno che entraste per la prima volta nel mio piccolo cantiere sul prato di Settefonti.
— Me ne ricordo.
Ella risentì gli sguardi timidi e diffidenti degli artieri, il fresco d'una larga gocciola caduta dalla tettoia su la sua mano ignuda, il fruscìo dei trucioli all'orlo della sua gonna, il dolore alla caviglia impigliata in un filo d'acciaio, l'odore della vernice e della pioggia, l'ansia dissimulata del suo cuore sotto il suo artificio.
— Entraste, come chi apre una porta e comanda a un estraneo: «Lascia tutto e vieni con me». E non dubita dell'obbedienza.
— Sapevo — ella disse — una parola bella e strana come un nome di maga, che significa: «Vieni-con-me». E non me ne ricordo più.