PROTEGGILA

2496 Words
PROTEGGILA Liz aprì lentamente gli occhi, il suono delle onde che si infrangevano era sempre più intenso, al punto da destarla dai suoi sogni. Stese le braccia e premette il bottone per spegnere la sveglia più dolce che avesse mai udito. Per un attimo si concesse di sorridere per il sogno che aveva appena fatto. Un uomo meraviglioso, uscito direttamente dalla copertina di uno dei romanzi della sua libreria, con gli occhi che sembravano usciti dall’oceano, sedeva sull’orlo della sua coscien­za, supplicandola di tornare. Lei gemette, ricordando la massa di muscoli che le aveva mostrato. Sospirò e si alzò dal letto. Se solo uomini del genere fossero davve­ro esistiti e avessero amato donne minute con corpi sinuosi e grandi occhi a mandorla. Gli occhi erano l’unica parte di sé che lei amava veramente. Il nocciola delle iridi era quasi color dell’oro con punte di verde. Spesso le veniva chiesto se indossasse lenti a contatto. I capelli non erano poi così male, ma li trovava insignificanti. Erano di colore castano chiaro, con riflessi rossi e dorati al sole. Usando del succo di limone in estate aveva ottenuto delle meches permanenti senza an­dare dal parrucchiere. Erano lunghi e aggrovigliati, ma risolveva il problema tenendoli raccolti in una coda di cavallo per la maggior parte del tempo. Oh, e quei maschi da sogno avrebbero dovuto an­che amare una ragazza che indossava infradito e bermuda piuttosto che abiti e tacchi alti. Giusto. Camminando lentamente verso il bagno, raggiunse il lavandino, aprì il rubinetto e si bagnò il viso. Strofinando via il sonno dagli oc­chi e asciugandosi, andò in cucina. Mise l’acqua sul fuoco e prese una mela dal frigorifero. Guardò fuori dalla finestra mentre metteva il tè aromatizzato nella teiera e ammirò il giardino sul retro. Non ave­va tutto lo spazio che avrebbe desiderato, ma aveva fatto del suo meglio con ciò che aveva. Nell’angolo in fondo c’era un piccolo stagno che ospitava le carpe Koi e una vecchia panca di legno trovata al mercatino. I suoi orticelli rialzati producevano erbe e verdure gustose anche così vicino alla città. Piante di gelsomino oltrepassava­no la recinzione e, malgrado la stagione della fioritura fosse breve, nella stagione primaverile poteva stare per ore lì a respirare il loro de­licato profumo mentre scriveva. Nei momenti di maggiore calura, avvertiva l’intenso desiderio di avere una piscina. Sperava che con le vendite del prossimo romanzo avrebbe potuto comprare una casa nuova. Una abbastanza grande per una piscina e un giardino. Tenen­do conto della difficile situazione economica, lei non aveva ritenuto saggio vendere la sua abitazione. Ne avrebbe ricavato poco, malgrado le ristrutturazioni. Il fischio del bollitore riportò i suoi pensieri alla cucina. Sollevò il metallo urlante dalla fiamma e versò l’acqua bollente sul tè sfuso. Per un momento lasciò che la mente indugiasse sul sogno della notte passata. Mise un po’ di miele nella teiera fumante e si sedette al pic­colo tavolo per rilassarsi. Era un altro pezzo di mobilio acquistato al mercatino dell’usato, ma lei amava il vero legno, anche con tutte le intaccature e imperfezioni. Non si trovavano più oggetti del genere. Anche dal più importante rivenditore si trovava lo stesso materiale pressato di scarsa qualità: spazzatura truciolata. Soffiando sul vapore bollente, portò il bicchiere alle labbra e sentì il fumo salire alla prima sorsata. Abbandonato il caffè per ciò che le faceva allo stomaco, aveva imparato a sentirsi altrettanto rinvigorita dagli infusi; ora era diventata una tè-dipendente. Verde, alle erbe e ai fiori bianchi che ben si abbinava al servizio di vetro. Possedeva una grande teiera Bodum ma, da quando era rimasta sola, le sembrava ri­dicolo usarla. E anche quando c’era MJ a dire il vero: lui non avrebbe mai toccato il tè. «È una bevanda da donne», avrebbe detto. Senza fermarsi a rimuginare sul suo ex fidanzato un minuto di più, vagò fino alla stanza da letto per vestirsi. Aveva delle cose da fare quel giorno, tra le quali magari anche scrivere. Chi avrebbe mai pen­sato che una donna con tante cose da dire sarebbe rimasta senza parole? I soldi cominciavano a scarseggiare: se non avesse trovato una soluzione, il suo agente l’avrebbe scaricata e si sarebbe dovuta trovare un lavoro vero. Rabbrividì al solo pensiero. I diritti non erano più pagati come un tempo e le idee non arrivavano. Forse, se fosse uscita, avrebbe tratto ispirazione per i suoi personaggi osservando la gente comune. Aprendo l’ampio e lussuoso armadio che si trovava in una camera altrimenti mediocre, diede uno sguardo ai vestiti di cotone, di lino e ai pantaloncini appesi. Sul fondo c’erano ombre di grigio e nero e qualche accenno di rosso per le occasioni più importanti, ma li in­dossava raramente. A dominare erano più che altro tonalità color terra e abiti casual. Nessun Pulitzer sarebbe stato accettato vestito così, ma erano dannatamente comodi. Trovò un semplice abito giallo che aderiva al seno, legato dietro al collo e largo sui fianchi. Sorrise compiaciuta. MJ poteva non apprez­zare il suo gusto in fatto di vestiario, mai abbastanza sofisticato, ma lei in quel modo si sentiva una dea. Non c’era niente che la facesse sentire così libera come un abito del genere in una mattina di prima­vera. I pantaloncini avrebbero aspettato l’indomani. Trovò un paio di infradito di una tonalità spaventosamente vicina al giallo con dei sen­suali laccetti intorno ai polpacci. Sì, sarebbero calzati a pennello. Liz si tirò fuori dalla vestaglia dopo un’ultima stiracchiatina e un sorso di tè, ed entrò nella bellezza di quel vestito di cotone. Sorrise e si diresse verso il bagno dove si applicò un idratante solare, si lavò i denti e si pettinò. Non era una di quelle donne che si truccavano molto e la maggior parte dei giorni usava solo fondotinta e lucidalab­bra. Un giorno avrebbe dovuto lavorarci su, ma non ancora. Il gremlin dell’età non le aveva ancora fatto visita, con le sue brutte pic­cole rughe e i capelli grigi. Oh, sarebbe arrivato abbastanza presto, ma lei non voleva affrettarlo con un sovradosaggio di trucchi. Inoltre non stava cercando di impressionare nessuno. Erano circa sei mesi che MJ era uscito dalla sua vita. Erano solo lei, la sua piccola casa e il suo giardino. E i discorsi saltuari del suo agente che cercava di spro­narla a terminare l’ultimo romanzo. Il parco dove si recava nei mo­menti in cui non riusciva a scrivere aveva dei sentieri nascosti e, quando si stancava di stare ferma a osservare gli altri, se la svignava percorrendone uno a caso per provare la sensazione di perdersi tra la foresta, senza smarrirsi veramente. Il suo rituale mattutino era quasi completo, mise la colonna sonora de Il Gladiatore e sorseggiò il resto del tè di fronte al laptop. L’orrore nei suoi occhi si rifletteva nel vetro vacillante mentre re­stava inerte, incapace di comprendere ciò che accadeva. L’oscurità incipiente nelle sue iridi iniziò a dilagare fintanto che ci fu solo una fangosa pozza di mezzanotte dove una volta c’era il blu. Liz guardava le righe e non riusciva ad andare avanti. Era uno schifo e lei lo sapeva. Tre mesi e niente più di questo affiorava dagli oscuri recessi della sua mente. Aveva appena trentacinque anni ma sembrava che la sua vita da autrice fosse terminata. Si strofinò gli oc­chi con il pollice e l’indice. Durava così tanto il blocco degli scrittori? Stephen King si era mai seduto davanti allo schermo con l’assoluta accettazione che niente sarebbe andato a riempire il bianco circo­stante? No, probabilmente non lo aveva mai fatto. Non che lei fosse a quel livello, tanto per cominciare. Si alzò sospirando profondamente, portò il recipiente in cucina e lo posò sul ripiano. L’aria fresca l’avrebbe aiutata. Sciacquò la teiera con una spugna marina e la ripose sullo scolapiatti. C’era una piccola lavastoviglie vicino al lavandino, ma la usava raramente. Con una sola persona da sfamare non vedeva il senso di aspettare che fosse piena per utilizzarla. Determinata a modificare la sua prospettiva sulla situazione attua­le, afferrò le chiavi e andò alla porta d’ingresso. Un nuovo atteggiamento era forse ciò che le serviva. Ogni giornata acquista va­lore per ciò che ne facciamo, dopotutto. O qualche stronzata del genere. Si diresse verso l’automobile senza neanche dare uno sguardo al placido vicinato. In quel momento, se fosse stata allenata a riconoscere le sottili va­riazioni d’energia attorno a lei, avrebbe notato un uomo di grossa stazza appostato sotto l’albero di kumquat nel cortile. Lo sconosciuto aveva occhi grigi come l’acciaio che non la lasciavano mai, seguendo i suoi movimenti sia dentro che fuori la casa. * * * Il Guardiano stava in piedi crogiolandosi nel bagliore infuocato della quercia che mascherava la sua presenza, ancora invisibile a oc­chi mortali. Non che qualcuno lo potesse vedere a meno che lui non lo avesse voluto, ma ciò non aveva importanza. Thaelin osservava con il respiro mozzato le ombre che a mano a mano cominciavano a contorcersi e a prendere vita lungo i campi. Un essere senza volto poteva benissimo nascondersi nelle ombre, in attesa di colpire. Le braccia tatuate erano incrociate sul petto e un grande anello d’oro sul dito anulare destro intarsiato con rune tamburellava leggermente sull’altro avambraccio. Era già arrivata? Pensava che l’avrebbe vista al parco almeno un’ora prima e invece la Custode non era ancora giun­ta. O la donna aveva grandi poteri o era in ritardo. Doveva trattarsi della seconda ipotesi, era una donna dopotutto. Avvertì una calda brezza dietro di sé e toccò di riflesso la spada, ma non per colpire. Voltatosi, fu salutato da un tetro Kelt e un sorri­dente Lucio. Questi aveva occhi che, seppur saggi, ricordavano sempre quelli di un bambino la mattina di Natale. Non che fosse simile a un ragazzino se non nello spirito. Quell’uomo avrebbe potu­to strappare l’anima a un’Ombra con un leggero sforzo o abbatterne un’intera legione solo con la sua saratai. Questo perché aveva inizia­to a combattere prima che la Dea gli venisse in aiuto. Ciononostante, per qualche motivo, lui era meno stanco degli altri. Forse perché non aveva mai avuto vita mortale? Thaelin scacciò i pensieri. Forse un giorno avrebbe avuto il coraggio per sedersi con il Capo e discuterne, ma non oggi. Si abbracciarono come di consueto e Keltor scrutò i campi, incre­spando le sopracciglia alla vista delle ombre lungo i lati. Poteva sentire che la Custode era stata lì almeno un giorno prima, come aveva fatto a non essere catturata? Se lui riusciva a percepirla, gli oscuri avrebbero potuto cogliere il suo profumo ancora meglio. «Ehi, Kelt, sei qui per sostituirmi presumo? Be’, buona fortuna. Tutti si domandano come sia potuto accadere. Comunque sia, questo è il sentiero che lei prende per starsene da sola. È quasi impossibile tenere le Ombre a bada. Stanno diventando sempre più audaci. Non ci vorrà molto.» «Dov’è questo Custode?» Thaelin alzò le spalle e si passò una mano tra i corti capelli biondi. «Non ne ho idea. Dante la sta sorvegliando, mentre io ho desistito circa un’ora fa. Forse un Custode donna non avverte più di tanto la nostra influenza.» Keltor lo schernì. «Cosa? E comunque ancora non capisco come abbia potuto resistere così a lungo. E senza un maestro, poi.» Si girò verso Lucio. «Hai detto che non è proprio una bambina? Cosa intendevi esattamente?» Thaelin soffocò una risata. «Ah fratello, non è una bambina. È una donna con proprio un bel… portamento, se vuoi. Se non fosse stato per le rune sul mio dito avrei infranto un po’ le regole e la sarei anda­ta a salutare.» Keltor brontolò e lo colpì sulla testa. «Simili discorsi possono met­tere in pericolo noi e il Custode. Hai perso la testa, Thae? Siamo già abbastanza in pericolo senza pensieri del genere. Maledizione al tuo giovane sangue.» «Questo è il motivo per cui sarai tu a sorvegliarla, Kelt», disse Lucio. Thaelin ridacchiò e guardò verso il sentiero dove una donna con un piccolo abito giallo camminava verso di loro. «Guarda da te, Kelt. E se mi colpirai ancora ce la vedremo con la spada più tardi.» Keltor sorrise al desiderio del giovane Guardiano di farsi prendere a calci ma poi volse lo sguardo verso il viottolo e il respiro gli si fermò in gola. Il sole ardeva nei suoi lunghi capelli mentre lei si muoveva lungo il tracciato, con il vestito pericolosamente corto sulle cosce e la sedu­cente scollatura a ‘V’. Era minuscola in confronto a lui, ma le sue gambe erano forti e belle così come il resto del corpo. Tonica e con dolci curve e senza gioielli che la adornassero tranne che per un luccichio di metallo sull’alluce e un altro anello alla mano destra. Piccolo, con una pietra rossa scintillante nel mezzo. Inconsapevole, la ragazza procedeva verso di loro a grandi passi. «Kelt, respira», lo rimproverò Thaelin, dandogli una gomitata nel fianco. Come se un mortale avesse potuto provocare un qualche effetto su di lui. «Va’ ad allenarti, Thaelin. Ne avrai bisogno più tardi per la sfida che mi hai lanciato.» «Allenarmi?» domandò l’altro con un largo sorriso. «E per quale motivo? La vecchiaia ti ha reso lento.» Prima che Keltor potesse pronunciare un’altra parola, al posto di Thaelin c’era solo un’increspatura nell’aria. Gli occhi di Kelt tornarono al puntino giallo di donna che cammina­va lungo il sentiero con movimenti lenti ma calcolati, le gambe lunghe rispetto alla corporatura minuta. Chi diavolo le permetteva di uscire di casa con quel dannato vestito indosso? La pelle bianca e de­licata del seno, appena tenuto insieme dal vestito, sobbalzava a ogni passo. Non può essere il Custode. «Ma lo è, fratello. E ora capisci perché non posso mettere i giovani Guardiani a proteggerla? Potrebbero esserle più dannosi che le Om­bre stesse.» Un grugnito salì dalla gola di Keltor e Lucio alzò le sopracci­glia. «Forse ho sottovalutato la sua forza. Se non te la senti non ti co­stringerò, Kelt. Sicuramente posso vedere se uno dei compagni può…» «No, Lucio», disse l’altro, bloccando subito quella possibilità. «Nessun altro la sorveglierà se non io e forse Dante, se avrò bisogno di lasciarla sola per poco tempo. Siamo i più anziani oltre a te e non permetterò che qualcuno dei giovani guardi… questa donna.» Un brivido di rabbia lo percorse all’idea degli appetiti dei giovani Immortali. Se qualcuno l’avesse sfiorata anche con un dito lo avreb­be ridotto in mille pezzi. L’amico scosse il capo. «Come desideri, Kelt, ma vedo che questa donna fa effetto anche a te e ciò mi rende esitante. Abbi cura di lei e, se devi, non esitare a chiedere aiuto a Dante. E naturalmente a me, se ne avessi bisogno.» Keltor annuì appena, senza distogliere lo sguardo da lei. «E si chiama Liz, nel caso in cui avessi bisogno di mo­strarti.» «Lizbet?» «No, siamo in un altro secolo. Solo Liz.» Keltor sorrise. Non aveva più usato un nomignolo per una donna dai tempi di Emi. Faceva lo stesso: non avrebbe avuto bisogno di mo­strarsi. Era sufficiente proteggerla dalle Ombre. Ma quando lei alzò lo sguardo e il sole riversò fiamme nei suoi occhi e tra i capelli, lui av­vertì una strana sensazione. La donna guardò dritta attraverso di lui, riflessi oro e verde vorticanti in bellissime pozze castane. Avvertì un nodo allo stomaco e sentì il fuoco che gli divampava dentro man mano che il Rito della Rivendicazione cresceva in lui. Guardò il viso di Lucio che, per una volta, non stava sorridendo. «Come può essere? Il tuo odore è diventato più intenso per un Cu­stode?» Grugnì. Non sarebbe stato soggiogato così facilmente. «Non è nien­te, Lucio, solo la mia reazione ai suoi occhi e il fatto che sia un Custode femmina. Sono abbastanza vecchio da poterla contrastare. Ha bisogno di un insegnante, e velocemente. Il suo potere è… straor­dinario.» Lucio scosse il capo e guardò verso Liz. Aveva visto la Rivendica­zione nel suo amico, come poteva opporvisi? E per di più verso un Custode. Era una tragedia. «Ti lascio se sarai certo di poterla… controllare.» Keltor guardò bruscamente il suo leader e annuì. «Sì. La controlle­rò.»
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