«Vi pregherei comunque di passare in sala d'attesa» gli fece notare con la maggior insistenza possibile.
«Ma se fossi stato là non avrei potuto spiegarvi tutto» disse il principe ridendo allegramente, «e voi sareste ancora inquieto guardando il mio mantello e il fagottino. Forse adesso non è più il caso che aspettiate il segretario, potreste andare ad annunciarmi voi stesso.»
«Senza segretario io non posso annunciare un visitatore come voi, e inoltre lui stesso poco fa mi ha ordinato di non disturbarlo per nessuno finché c'è di là il colonnello; soltanto Gavrila Ardalionyè può entrare senza essere annunciato.»
«È un funzionario?»
«Chi, Gavrila Ardalionyè? No, è un impiegato della Società. Ma almeno posate qui il vostro fagotto.»
«Ci avevo già pensato, se permettete. E, dite, non sarebbe meglio se mi togliessi anche il mantello?»
«Naturalmente. Non potete andare da lui col mantello.»
Il principe si alzò, si tolse in fretta il mantello e rimase con una giacca abbastanza decente e di buona fattura, anche se ormai logora. Sul panciotto c'era una catenella d'acciaio, e attaccato alla catenella un orologio d'argento di Ginevra.
Anche se il principe era un sempliciotto - ormai il domestico era arrivato a questa conclusione - tuttavia al domestico del generale apparve infine sconveniente continuare oltre la conversazione con il visitatore, nonostante il principe chissà perché gli piacesse, nel suo genere, naturalmente. Ma da un altro punto di vista egli suscitava in lui un deciso senso di disapprovazione.
«E la moglie del generale quando riceve?» chiese il principe sedendosi di nuovo nel posto di prima.
«Questo non è più affar mio. Riceve in ore diverse, secondo le persone. La modista la fanno passare anche alle undici. Anche Gavrila Ardalionyè viene fatto entrare prima degli altri, persino alla prima colazione.»
«Nelle stanze, qui da voi, fa più caldo che all'estero in inverno» osservò il principe, «però là per le strade fa più caldo che da noi, ma in casa in inverno un russo non riesce a viverci, perché non c'è abituato.»
«Non riscaldano?»
«Sì, sì, e anche le case sono costruite diversamente, cioè le stufe e le finestre.»
«Mmm! E voi avete viaggiato molto?»
«Per un quattro anni. Del resto sono rimasto quasi sempre nello stesso posto, in un villaggio.»
«Avete perso l'abitudine alla nostra vita?»
«Anche questo è vero. Ci credereste, mi meraviglio di me stesso, per non aver dimenticato il russo. Ecco, adesso parlo con voi e penso: però parlo bene! Forse è per questo che parlo così tanto, davvero, da ieri ho sempre voglia di parlar russo.»
«Mm! Ah! Vivevate a Pietroburgo prima?» (Per quanto il lacchè cercasse, non era possibile non continuare una conversazione tanto gentile e cortese.)
«A Pietroburgo? Quasi per niente. Così, solo di passaggio. E prima non sapevo nulla di qui, mentre adesso, a quanto si dice, ci sono così tante novità che anche chi sapeva deve imparare tutto daccapo. Adesso si fa un gran parlare dei tribunali.»
«Mm. I tribunali. I tribunali, sì, è vero che ci sono i tribunali. E là com'è, nei tribunali c'è più giustizia che qui, o no?»
«Non so, io ho sentito parlare assai bene dei nostri. Per esempio, da noi non c'è la pena di morte.»
«Laggiù invece fanno esecuzioni capitali?»
«Sì. Ne ho vista una in Francia, a Lione. Mi ci aveva portato Schneider.»
«Impiccano?»
«No, in Francia tagliano sempre la testa.»
«E che fanno, gridano?»
«Macché! È questione di un attimo. Mettono la persona sdraiata e cade giù un coltello largo così da una macchina che si chiama ghigliottina, pesantemente, con forza... La testa salta via in un batter d'occhio. I preparativi sono penosi. Ecco, quando leggono la sentenza, quando preparano e legano il condannato, e lo fanno salire sul patibolo, ecco, quella è una cosa orribile! Il popolo accorre, persino le donne, anche se là non hanno piacere che le donne assistano.»
«Non è affar loro.»
«Certo, certo! È una tale tortura!... Il delinquente era una persona intelligente, coraggiosa, forte, d'età matura, si chiamava Legros. Ebbene, vi dico, che lo crediate o no, che mentre saliva al patibolo piangeva, bianco come un foglio di carta. È mai possibile, dico io? Non è un orrore? Via, chi può piangere di spavento? Io non credevo che per lo spavento ci si potesse mettere a piangere, non dico un bambino, ma un uomo che non ha mai pianto, un uomo di quarantacinque anni. Che cosa succede all'anima in quei momenti? Fino a quali tormenti può essere spinta? È un oltraggio all'anima, niente altro che questo! È detto: “non uccidere”, e allora, perché uno ha ucciso bisogna uccidere anche lui? No, non è lecito. Ecco, è passato già un mese da che l'ho veduto, e l'ho ancora davanti agli occhi. L'ho sognato cinque volte.»
Il principe, parlando, s'era persino animato. Un leggero rossore s'era diffuso sul suo viso pallido, sebbene parlasse pacatamente come prima. Il cameriere lo seguiva con tale interesse e coinvolgimento, che pareva non volesse più distogliere lo sguardo da lui; forse era anch'egli un uomo dotato d'immaginazione e si sforzava di pensare.
«Meno male che soffrono poco» osservò, «quando la testa salta via.»
«Sapete che vi dico?» riprese il principe con ardore, «ecco, voi l'avete notato, esattamente come lo notano tutti, e la macchina, la ghigliottina, è pensata proprio per questo. Ma a me, allora, venne in mente un altro pensiero: e se fosse anche peggio? A voi la cosa può sembrare ridicola, bizzarra, ma con un po' d'immaginazione può venire in testa anche questo. Pensate un po', per esempio, alla tortura: ci sono sofferenze e ferite, c'è il tormento fisico, e tutto ciò dovrebbe distrarre dalle sofferenze dell'anima, perché si soffre soltanto per le ferite fino a che non si muore. Ma il dolore essenziale, quello più forte, forse, non è quello delle ferite, è il sapere con certezza che fra un'ora, poi fra dieci minuti, poi fra mezzo minuto, poi adesso, ecco, proprio ora, l'anima vola via dal corpo, e tu come persona non esisterai più, e questo ormai con certezza. La cosa più importante, ecco, è questa certezza. Ecco, come metti la testa sotto la lama e la senti scivolare sopra la testa, ecco, questo quarto di secondo è il più terribile. E sapete che questa non è una mia fantasia, ma che l'hanno detto in molti? Io ci credo a tal punto, che vi dirò schiettamente la mia opinione. Uccidere per un'uccisione è una punizione incomparabilmente più grande dello stesso delitto. L'omicidio su sentenza è incomparabilmente più orribile dell'omicidio del delinquente. Chi viene ucciso dai briganti viene sgozzato di notte, in un bosco, o da qualche altra parte, e fino all'ultimo momento spera di salvarsi. Ci sono esempi di persone che avevano già la gola tagliata e speravano ancora o correvano, o pregavano. Qui invece quest'ultima speranza, con la quale morire è dieci volte più leggero, la tolgono con certezza. Qui esiste una sentenza, e nel fatto che con certezza non sfuggirai sta tutto l'orribile tormento, e un tormento più forte al mondo non esiste. Voi potete mettere un soldato davanti a un cannone in combattimento, e sparargli addosso, e lui continuerà a sparare, ma leggete a questo stesso soldato una sentenza che lo condanna con certezza, e lui impazzirà o si metterà a piangere. Chi ha detto che la natura umana è capace di sopportare questo senza impazzire? Perché un simile oltraggio mostruoso, non necessario, inutile? Forse esiste anche una persona a cui hanno letto la sentenza, è stato dato il tempo di tormentarsi, e poi le hanno detto: “Vattene, sei graziato”. Ecco, forse quell'uomo potrebbe raccontarlo. Anche Cristo ha parlato di questo tormento, di questo orrore. No, non si può agire così con un uomo!»
Il cameriere, sebbene fosse incapace di esprimere tutto ciò come il principe, naturalmente, anche se non tutto, aveva capito però le cose fondamentali, come si poteva desumere anche dall'espressione intenerita del suo volto.
«Se avete tanta voglia di fumare» fece, «prego, è possibile, però fate in fretta, perché possono chiamarvi all'improvviso, e magari voi non ci siete. Ecco, là sotto quella scaletta, vedete, c'è una porta. Entrate e a destra c'è uno stanzino. Là potete fumare, però aprite lo sportellino della finestra, perché non è una cosa regolare...»
Ma il principe non fece in tempo ad andare a fumare. D'un tratto entrò nell'anticamera un giovanotto con delle carte in mano. Il cameriere si mise a togliergli la pelliccia. Il giovane gettò un'occhiata al principe.
«Questi, Gavrila Ardalionoviè» cominciò a dire il cameriere in tono confidenziale e quasi familiare, «dichiara di essere il principe Myškin, parente della signora. È arrivato col treno dall'estero e ha soltanto un fagottino...»
Il resto il principe non riuscì a udirlo, perché il cameriere s'era messo a bisbigliare. Gavrila Ardalionoviè ascoltò attentamente lanciando al principe occhiate piene di curiosità. Finalmente smise d'ascoltare e gli si avvicinò impaziente.
«Siete il principe Myškin?» chiese in modo oltremodo affabile e cortese. Era un giovane bellissimo, anch'egli di circa ventotto anni, un biondino slanciato, di statura media, con una barbetta alla Napoleone, un viso intelligente e molto bello. Soltanto il sorriso, nonostante tutta la sua gentilezza, era un po' troppo affettato; i denti, quando sorrideva, apparivano troppo regolari come perle; lo sguardo, nonostante tutta la sua allegria e l'apparente semplicità, era un po' troppo fisso e inquisitore.
«Probabilmente quando è solo non guarda affatto così, e forse non ride mai» intuì il principe.
Il principe spiegò in fretta, come poté, quasi le stesse cose che aveva spiegato prima al cameriere e ancor prima a Rogožin. Nel frattempo Gavrila Ardalionoviè pareva che stesse cercando di ricordare qualcosa.
«Non siete voi» chiese, «che un anno fa, forse anche meno, spediste una lettera, mi pare dalla Svizzera, a Elizaveta Prokof'evna?»
«Esattamente.»
«In tal caso qui vi conoscono e certamente vi ricordano. Volete parlare con Sua Eccellenza? Adesso riferisco... Sarà subito libero. Soltanto... dovreste passare in sala d'aspetto per ora... perché si trova qui?» fece severamente rivolto al cameriere.
«Vi assicuro, non ha voluto...»
In quel momento si aprì improvvisamente la porta dello studio e ne uscì un militare con una borsa in mano, che parlava a voce alta e si inchinava.
«Sei qui, Ganja?» chiamò una voce dallo studio, «vieni qui per favore!»
Gavrila Ardalionoviè fece un cenno col capo al principe e entrò in fretta nello studio.
Di lì a due minuti la porta si aprì di nuovo e si udì la voce sonora e affabile di Gavrila Ardalionoviè:
«Principe, favorite!»