«Io lo lasciai credere, tanto più, dopo la morte di mio padre, sembrandomi altrimenti di profanare la sua memoria, di mancargli di rispetto.
«A voi sola confido questo segreto: a voi sola. Perchè se finora non mi sono mai curato del giudizio del mondo, se ho portato con rassegnazione la mia croce, adesso non è più così. Da che vi amo, sento che non potrei sopportare il vostro disprezzo.
«Peraltro, se domani vostro padre chiedesse chi sia il conte Livio Rossano e gli rispondessero: «un uomo viziato, un libertino che ha consumato nel giuoco e nelle donne quasi tutto il suo patrimonio», io non potrei difendermi senza accusare il padre mio.
«È orribile, credetelo, il soccombere sotto il peso delle calunnie. Vostro padre mi rifiuterebbe certo la vostra mano, e voi, Bianca, potreste, nel dubbio, respingermi.
«Ecco perchè al momento di partire ho voluto farvi la mia confessione, ho voluto dirvi che, anche respinto, calpestato, vi offrirò in olocausto tutti i miei dolori, ed esausto morirò col vostro nome sulle labbra.
«Ma se voi, tocca dai miei segreti dolori, acconsentiste ad amarmi, ad essere mia moglie, io vi dovrei più che la vita, vi dovrei l’onore, perchè, inalzandomi a voi così pura, nessuno crederebbe più allo calunnie lanciate su me; accettando il mio nome, si vedrà che non è indegno di voi.
«Bianca, questa è l’ora della mia vittoria o della mia sconfitta. Se dopo tutto quanto vi ho detto mi scriverete «venite», io saprò convincere vostro padre, saprò lottare da forte, per ottenere il diritto di farvi mia moglie.
«Se nulla riceverò alla fine della settimana, qui a Torino, nel mio vecchio palazzo del corso Palestro, io vi amerò tuttavia, vi amerò da morto come da vivo, e sarò vostro nell’eternità.
«LIVIO ROSSANO».
Bianca non si accorse quanto vi fosse di artificioso in quella lettera. Nel candore della sua anima, credette a tutto quanto il conte aveva scritto. Come non amare quell’uomo che un’ingiustizia atroce rendeva responsabile delle follie del padre?
Che importava se era rovinato? Non era essa ricca per entrambi? Livio dovrebbe tutto a lei, e sarebbero entrambi felici come nessun’altra coppia al mondo.
Bianca non esitò: il giorno stesso scrisse la parola che il conte aspettava; «Venite».
Intanto si recò dal padre, cui confessò tutto.
Egli presentì un’insidia sotto quella lettera, e tremò.
Una voce interna gli gridava:
«Quell’uomo mente!»
Ma come convincere sua figlia? A tutte le ragioni la giovinetta crollava la testa, dicendo:
– Anche tu scagli la tua pietra contro lui, vittima innocente! Io l’amo, l’amo, e se tu rifiuti il tuo consenso al nostro matrimonio, non mi resta che morire! –
Il padre fu vinto.
Il conte Rossano non tardò a presentarsi. Egli ammaliò il padre come aveva fatto della figlia: la sua aria dignitosa, la sua melanconia dissiparono ogni sospetto.
Un anno dopo, Bianca era sua moglie.
Passarono i mesi d’inverno a Torino, il resto nella tenuta del padre di Bianca, che non volle muoversi dai suoi possessi per non rendersi fastidioso al genero e tenendo presso di sè l’istitutrice della figlia per la direzione della casa.
L’anno seguente, col pretesto di alcuni affari, Livio si assentò spesso da casa, recandosi più specialmente a Milano; ma ogni giorno scriveva alla sposa, e quando tornava a lei si mostrava così premuroso, appassionato, che Bianca non ebbe mai il minimo sospetto.
Quell’inverno le assenze del conte furono più frequenti. In ultimo trovò la scusa di una zia malaticcia, che non gli conveniva trascurare, perchè ricchissima, e della quale egli era il solo erede, almeno lo sperava.
Il mercoledì grasso di quel carnevale Livio tornò a casa alla sera assai pallido, inquieto,
– Che hai, amor mio? – chiese Bianca spaventata.
– Mia zia sta malissimo e bisogna che io parta. –
Il conte sembrava oltremodo turbato.
– E dire – soggiunse – che non posso condurti meco, perchè, lo sai.... la zia voleva darmi per moglie la figlia d’una sua amica d’infanzia, e non perdona il mio matrimonio con un’altra! Ora è perfettamente riconciliata con me, ma la tua presenza le recherebbe dispiacere.
– Oh! io non vorrei per tutto l’oro del mondo turbare una povera vecchia morente. Va’.... va’ tu solo; io resterò qui a pregare per lei.
– Tu sei un angelo! – esclamò il conte baciandola.
Il giovedì mattina, mentre la cameriera spazzolava gli abiti del conte, vide un foglio cadere a terra e lo consegnò a Bianca, la quale, entrata nella sua camera, lesse la lettera ignobile che già conosciamo.
Ciò che provasse in quel momento sarebbe impossibile analizzarlo. Era la rovina di tutte le sue illusioni, di tutta la sua felicità!
Versò lacrime amare; ma era troppo intelligente per abbandonarsi alla disperazione; e colpita nell’anima, le venne l’idea di vendicarsi.
Voleva far soffrire quel miserabile, calpestare sotto i piedi l’onore di lui, gettargli in faccia queste parole: «Anch’io ho un’amante!»
Bianca sonò il campanello. Celia, devotissima a lei, accorse, ma rimase immota dallo stupore: il volto della contessa esprimeva la più energica determinazione: i suoi occhi scintillavano di arditezza.
– Celia, vai a comprarmi un domino nero, elegantissimo, e una maschera: stasera vado al veglione, sola.
– Mio Dio, se il conte lo sapesse...! –
Bianca proruppe in una convulsa risata.
– Mio marito si diverte senza me: è giusto che mi prenda la mia rivincita: leggi. –
E le porse la lettera di Cinzia.
Celia la percorse con un’indignazione impossibile ad esprimersi.
– Che infamia, eh? – disse la contessa. – Come ha saputo abbindolarmi bene! Ma d’ora innanzi vedrà di che sono capace! Io non rivelerò nulla a mio padre per non dargli troppo dolore o perchè potrebbe dirmi: «Tu l’hai voluto!» Non chiederò la separazione, ma fin da quest’istante ho un solo desiderio: ricambiare il tradimento. Vai, dunque, ad eseguire i miei ordini senza che altri lo sappia; mi fido di te. –
Celia obbedì. Ella avrebbe voluto accompagnare la padrona al veglione, ma Bianca rifiutò.
Quando la servitù fu coricata, la contessa indossò il domino e uscì.
La fidata cameriera sperava che Bianca, pentita del partito preso, ritornasse al palazzo prima di entrare al veglione. Per cui si mise ansiosa alla finestra, scrutando l’ombra del viale, intenta ad ogni rumore di carrozza.
Le ore passavano e Bianca non tornava.
Celia tremava.
Ma a un tratto sentì il rumore di una vettura che si avvicinava.
Si sporse dalla finestra e mormorò:
– È lei.... è lei.... –
Si precipitò ad aprire il portone, proprio al momento in cui Bianca pagava il vetturino.
Bianca le battè una mano sulla spalla, dicendole con accento carezzevole:
– Sono qui sana e salva, mia buona Celia. Andiamo su: ti raconterò tutto! –
La povera donna sentì allargarsi il cuore.
Quando Bianca si trovò nella propria camera, seduta presso il caminetto, raccontò alla sua fidata cameriera tutto quanto le era accaduto.
La povera donna non perdeva una parola: essa fremè al racconto dell’assassinio di Giulietta, ne{1} ascoltò trepidante i minimi particolari ed applaudì al buon cuore della sua padrona e dello studente, che volevano occuparsi dell’orfanella.
Un’ora dopo, la contessa dormiva tranquilla nel suo letto.
VI.
Erano appena suonate la nove quando la contessa, vestita semplicemente di panno nero, bussava alla soffitta dello studente.
Aldo le aprì e la riconobbe subito. Con un inchino rispettoso si ritrasse indietro per farla passare, ed appena l’uscio fu chiuso le prese le mani.
– Quanto vi ringrazio, signora, di essere venuta! –
Bianca si lasciò stringere le manine, ma fissando il giovane coi suoi occhi luminosi:
– Signora? – ripetè. – Dimenticate che sono vostra sorella? –
Aldo riprese tosto la sua disinvoltura.
– È vero, Speranza; ma non osavo ricordarvelo temendo di offendervi.
– Se pensassi che da voi potessi avere un’offesa, me ne andrei subito. Ho pienamente fiducia in.... mio fratello. –
Vi era una tal semplicità, un tal candore nell’insieme della giovane, in ogni sua parola, che Aldo ne fu affascinato.
– Grazie! – ripetè, portandosi questa volta le manine di lei alle labbra.
Bianca arrossì un poco ma sedutasi sul divano chiese:
– Ditemi che è successo dopo la mia partenza. –
Egli le disse che la bimba, svegliatasi, chiamava la mamma, non voleva che la mamma. Teresa l’aveva portata nella sua soffitta, per calmarla.
– Povera angioletta! – disse Bianca con le lacrime agli occhi. – Io desidero vivamente di abbracciarla.
– Stamani non ve lo permetto, – rispose Aldo. – C’è nel casamento il giudice istruttore: Umberto Trani. –
Bianca divenne pallidissima.
– Io lo conosco! – balbettò. – Le cose s’imbrogliano....–
Aldo la tranquillò:
– No, no, tutto andrà bene! Peraltro, sarà meglio che non torniate qui prima che sia finita ogni inchiesta sul feroce assassinio. Io dirò che siete partita per Ivrea onde ottenere il consenso di vostro marito per adottare la piccina: mia sorella è già avvertita di tutto e mi scriverà in conseguenza. Mostrerò la sua lettera al giudice istruttore ed a Teresa.
– Che penserà vostra sorella di me? – disse Bianca trepidante.
– Quello che ne penso io stesso: – rispose lo studente – che siete degna della massima stima, del massimo rispetto. –
Bianca era commossa.
– Ma voi non conoscete di me che il nome che vi ho dato!
– Mi è bastato vedervi per giudicarvi. Non vi chiedo i vostri segreti! per me siete Speranza, una cara sorella, e sono pronto a dare tutto il mio sangue per risparmiarvi una lacrima. State dunque tranquilla. Se non vi vedrò per qualche tempo, avrete mie lettere che vi terranno informata di tutto. Dove debbo scrivervi?
– Scrivete fermo in posta, al nome di Celia Lari. È il nome della mia cameriera, una donna fidatissima, che si farebbe ammazzare per me. Ora me ne vado: baciate per me la bambina. E il cadavere della sua sventurata madre è ancora là?
– No, l’hanno trasportato alla sala anatomica per l’autopsia. –
Bianca ebbe un fremito.
– Povera sventurata! E il suo assassino ha confessato?
– No, egli nega; non ha voluto dire il suo nome; nessuno l’ha riconosciuto.
– È strano! –
Rimase un istante pensierosa, quindi chiese:
– Non si potrebbe dare alla vittima onorevole sepoltura perchè la sua bambina possa un giorno pregare sulla tomba di lei?
– Ci abbiamo già pensato e sta girando nel casamento una sottoscrizione per l’acquisto di una fossa privata. Solo nelle soffitte, abitate da gente bisognosa, si sono raccolte sessanta lire.
– Nobili cuori! Troveremo più tardi il mezzo di soccorrerli segretamente.
– Quanto siete buona!
– Cerco d’imitare.... mio fratello. Ma parleremo di tutto ciò più tardi. Eccovi intanto il mio obolo per la sottoscrizione. –
Così dicendo si tolse di tasca un elegantissimo portafogli e ne levò due biglietti da cento lire. Aldo sussultò.
– Non posso accettarli, Speranza! Un povero studente come me non potrebbe fare una tale offerta, e neppure mia sorella. Qual nome dovrei dunque mettere sulla lista?
– Un incognito. –
Bianca lo guardava stendendogli la manina. Egli la strinse nella sua e si sorrisero. Ma vi era una profonda commozione in quel sorriso.
Poco dopo la contessa lasciava la soffitta,
Il giorno seguente essa ebbe una lettera di Aldo, che le dava ragguagli sull’interrogatorio del giudice istruttore, sulla bambina, l’esortava a star quieta, non essendovi bisogno della sua testimonianza. Poi Aldo aggiungeva:
«Quando sarà finito tutto questo, potrò rivedervi, Speranza? Nel dire il vostro nome, mi sento capace delle più nobili cose!
«Voi mi avete fatto molto bene, sorella mia! Chi avrebbe mai detto che in una notte di carnevale avrei trovato la mia felicità? Peraltro, questa felicità, nata da un dolore, mi fa quasi paura. Ma non voglio pensarci adesso. Se la felicità non esiste sulla terra, noi la creeremo a forza di doveri, di lotte, di sacrifizi.»
Bianca lesse più volte quella lettera, presa da un incanto nuovo, quasi una nuova luce sorgesse nella sua esistenza.
Aldo le scrisse tutti i giorni, e Bianca già obliava il marito in quella pura ebbrezza dello spirito, quando il conte Rossano, di ritorno, la svegliò dal suo sogno.
Ma allora tutta la sua anima si ribellò, il ricordo del tradimento risorse e la contessa ricevette il conte come abbiamo veduto.
Rimasta sola nello spogliatoio, essa riandava il passato, allorchè Celia entrò.
– Ho una lettera da consegnarle, – disse.
– Dammela subito, Ho bisogno di respirare qualche cosa di puro. –
Afferrò bramosa la lettera di Aldo, ma appena l’ebbe aperta, tornò pallidissima. Essa lesse ad alta voce:
«Speranza, tutto il nostro piano si sfascia.
«Ieri il giudice istruttore mi fece chiamare nel suo gabinetto e mi chiese, guardandomi fisso:
«– Vostra sorella non è più tornata a Torino?
«– No, signore, – risposi.
«– Ebbene, telegrafatele che urge la sua presenza. –
«Mi turbai, ma risposi:
«– Bene! Telegraferò. –
«Appena fui lungi dagli sguardi del giudice istruttore, ebbi un momento di disperazione.
«Che è successo perchè il giudice istruttore mi abbia fatto tale intimazione?