Anche Aldo fu interrogato.
– Voi pure abitate nelle soffitte? – gli domandò il magistrato.
– Sì, signore, – egli rispose. – I miei mezzi non mi permettono di meglio. Mia madre e mia sorella fanno già abbastanza sacrifici per mantenermi qui agli studi.
– Da quanto tempo abitate in questa casa?
– Da quasi due anni.
– Conoscevate Giulietta?
– Conoscenza da vicini; ci salutavamo incontrandoci per le scale, e nulla più.
– Ieri la vedeste?
– No. Io passai quasi tutto il giorno fuori di casa, essendo giunta mia sorella che desiderava passare gli ultimi giorni di carnevale a Torino.
– È maritata, vostra sorella?
– Sì; a un benestante d’Ivrea: il signor Rivalta: – rispose con disinvoltura Aldo. – Ieri sera pranzai con lei all’albergo, poi siccome ella aveva desiderio di vedere un veglione, andammo a prendere un domino, ed io venni con lei a casa per cambiarmi d’abito,
«Avevo finito di abbigliarmi, mia sorella stava per mettersi la maschera, allorchè un grido giunse fino a noi. Mi slanciai per le scale e fu allora che arrestai l’assassino. –
Il magistrato aveva ascoltato con molto interesse.
– Dove si trova adesso vostra sorella? – domandò.
– All’albergo a riposare, in preda all’emozione sofferta questa notte.
– Mi hanno detto che essa vuole incaricarsi della bambina della vittima?
– Sì, signore, se non vi è nulla in contrario. Benchè non siamo ricchi, abbiamo preso a cuore la sorte di quella creaturina. Per adesso l’abbiamo affidata a Teresa, una brava donna, che l’ha tenuta a battesimo. Poi, appena mia sorella sarà tornata ad Ivrea ed avrà parlato con suo marito, la ritireranno con loro.
– Faranno davvero un’opera di carità, della quale tutte le persone di cuore non potranno che elogiarli. –
L’interrogatorio era finito. La soffitta fu chiusa coi suggelli, ed il giudice istruttore lasciò la casa, promettendo una ricompensa a chi gli recasse indizi sull’assassino.
Umberto Trani condusse seco Lorenzo il falegname, cui Giulietta aveva presentato un giorno il proprio fidanzato. Il magistrato sperava che l’operaio lo riconoscesse nell’assassino.
V.
– Contessa, ecco il conte: scende di carrozza.
– Bene, Celia; puoi ritirarti. –
La contessa Bianca Rossano rimase sola nel suo gabinetto da toelette. Accigliata, nervosa, sedette sul divano, rimanendo assorta.
Aveva il lungo accappatoio indossato nello scendere dal letto, e gli stupendi capelli neri sciolti sulle spalle.
Un lieve bussare all’uscio la fece trasalire.
– Avanti! – diss’ella.
Un uomo entrò, vestito da viaggio. Appariva pallido o commosso, ma nei suoi occhi era un raggio d’intensa felicità.
– Bianca! – esclamò stendendo le braccia. La contessa non fece gesto alcuno.
– Siete voi? – disse con acconto glaciale. – Non vi aspettavo così presto!
Egli rimase un istante come impietrito.
Il conte Rossano era un bell’uomo sui trentacinque anni, distintissimo. I suoi sguardi, pieni di dolcezza, lampeggiavano quasi sinistramente nella commozione.
Egli si slanciò verso la moglie, volle stringerla nelle sue braccia.
– Bianca, angelo mio, è così che mi accogli al mio ritorno? –
La giovane si svincolò.
– Finiamo questa ignobile commedia! – disse guardandolo con alterezza. – Ormai ho scoperto che siete un miserabile.
– Bianca! – gridò il conte, minaccioso.
– Un miserabile! – ripetè essa. – Ah! credevate di aver preso per moglie un’idiota da sfruttare a vostro talento!... Ebbene, vi siete ingannato: voi non mi conoscete ancora, ma io vi conosco: guardate. –
Si alzò, prese da una scatola di cristallo una lettera spiegazzata e la gettò con disprezzo sul viso di lui.
Il conte divenne livido: aveva compreso tutto.
Quella lettera, ricevuta una settimana prima, egli l’aveva ricercata invano, la credeva smarrita. Era la lettera di una donna e diceva:
«Livio mio, ti attendo con ansia. Già da un anno sospiro un tale istante! Ah! perchè non ero io ricca come quella sciocca che hai sposata e che non è la donna fatta per te? Tu continui a giurarmi che non solo non ami tua moglie, ma che è un vero tormento per te il fingere una tenerezza che non senti. Ebbene, presso di me ti consolerai di tanta noia! Ricordi le nostre follìe di un tempo? Mi lusingo che si rinnoveranno, che ti compenseranno delle nausee sofferte. Mi hai promesso un’intera settimana, una settimana di paradiso per entrambi. Mercoledì sera sarò alla stazione ad aspettarti e ritroverai il tuo nido come l’hai lasciato. Ti bacio lungamente con tutta l’anima.
«CINZIA».
Il conte, raccolto il foglio, balbettò:
– Non so che cosa tu voglia dire!
– Ah! – esclamò Bianca con violenza. – Ve lo spiegherò io. Quella lettera ha rotto fra noi qualsiasi rapporto: se non chiedo una riparazione, non è per vostro riguardo, ma per mio padre: non voglio che il povero vecchio soffra, sapendomi infelice. –
Bianca tacque, vinta dall’emozione.
Il conte si gettò ai suoi piedi.
– Perdono, Bianca, perdono! Sì, sono stato colpevole, ma ti giuro che quella donna ha mentito, scrivendo così.
– Basta! – gridò la contessa ritraendosi. – Non voglio scuse. A me poco importa ciò che colei scrive di me. Il fatto ignobile che nulla può cancellare, è di avermi inflitta l’offesa di un tradimento quotidiano; la vigliaccheria maggiore è di avermi fatto credere che partivate per assistere una zia morente. Ed io piansi, la sera della vostra partenza, pensando alla povera donna, pensando al vostro dolore. Invece, un’amante vile al pari di voi vi attendeva alla stazione, e chi sa le risate da voi fatte per avermi così ingannata! –
Il conte si avvicinò a lei.
– No, Bianca, no, non lo credere; sono stato colpevole, lo ripeto, ma non infame! –
Cercò di stringerla fra le braccia, ma essa lo respinse con una forza di cui il marito non l’avrebbe creduta capace.
– Mi fate nausea! – diss’ella.
Il conte sussultò.
– Bene! – disse con accento tragico. – Avete ragione; siate sicura che non cercherò più di avvicinarvi. –
Ed uscì dal gabinetto.
Rimasta sola, Bianca lasciò sfuggire un sospiro di sollievo: quell’uomo, ormai, le destava orrore. Seduta sulla poltrona, Bianca rivisse in un istante la vita passata.
Figlia unica di ricchissimi possidenti del Monferrato, era stata adorata dai suoi genitori.
Aveva un’istitutrice, una tedesca, anima eletta che si affezionò alla sua allieva e fu per lei quasi una madre.
Bianca possedeva una bellezza affascinante, un’intelligenza superiore, che l’istruzione sviluppò meravigliosamente. Sembrava assai timida, ma se un nobile pensiero la esaltava, diveniva audace, pronta a sfidare qualsiasi pericolo.
Fino ai quindici anni era vissuta felice.
La morte della madre fu il primo dolore della sua vita.
Erano scorsi due anni dalla morte della buona signora. Si era d’autunno, al tempo delle cacce. In una tenuta poco lontana da quella del padre di Bianca convennero gentiluomini torinesi, ospiti del marchese Passiflora, un gaudente, un prodigo, un gentiluomo tronfio di sè.
Costui aveva chiesto Bianca in moglie, ma la giovane lo aveva rifiutato perchè non le piaceva.
Mentre il marchese era a tavola cogli amici, cadde il discorso sul matrimonio, e ne furono dette di tutti i colori.
– Io fui una sola volta in procinto di prendere moglie, un anno fa, – disse il marchese Passiflora – ma fui bellamente respinto.
– La giovane era di difficile contentatura! – esclamò il conte Livio Rossano, arricciandosi i baffi.
– Mi fu detto che quella giovane sogna un eroe dei tempi antichi, un uomo che non abbia la più piccola macchia amorosa nel suo passato, che sia vissuto sempre nell’azzurro, che si dedichi a lei sola per tutta la vita. –
Il gaudente fu interrotto da uno scroscio di risa.
– Merita almeno, la bella, un tal cavaliere? – chiese ancora Rossano.
– Vi assicuro che un uomo si stimerebbe felice di divenire suo schiavo. Ha sedici anni o poco più, figura da ninfa, viso d’angelo, occhi brillanti come stelle, capelli neri e carnagione di latte e rosa. –
Vi fu un nuovo scoppio di risa.
– Passiflora, tu diventi poeta!
– Lo diventereste anche voialtri, se la conosceste, tanto più se aggiungo che quell’ammirabile creatura porta in dote al fortunato che saprà conquistarla la bagattella di due milioni, ed alla morte di suo padre ne avrà altrettanti. –
Vi fu un mormorìo d’ammirazione. Rossano trasalì.
– Dove si trova questa maraviglia? – chiese un barone sbarbato.
– È mia vicina, – rispose Passiflora – e se qualcuno desidera vederla, gli dirò che tutte le mattine si reca alla messa con l’istitutrice. –
La mattina seguente vi era una partita di caccia. Tutti si alzarono prima dell’alba. Quando si trovarono riuniti nella sala a terreno della villa Passiflora, il marchese notò che mancava il conte Rossano.
– Dov’è Livio? – chiese agli amici.
– Livio non verrà; – rispose il barone – questa notte si è sentito male, e mi prega di scusarlo presso te. –
Nessuno suppose che quella malattia fosse una finzione.
In quella stessa mattina, verso le sette, Bianca usciva con l’istitutrice, avviandosi per un sentiero campestre che in meno di un quarto d’ora conduceva al paese.
Essa respirava con delizia l’aria mattinale: mai la sua carnagione era apparsa più rosea e brillante.
Ad un tratto i suoi sguardi e quelli dell’istitutrice furono attirati da una curiosa scena; un bel giovane, in abito elegante da mattina, stava quasi accovacciato sull’erba, tentando di persuadere una bimba che balbettava fra i singhiozzi:
– La mamma mi batterà! –
La voce del giovane salì chiara e fresca fino a Bianca.
– No, carina, – diceva – la mamma non ti batterà, perchè io le dirò tutto. Via, alzati, torneremo insieme dallo speziale!
– No, sono troppo in ritardo!
– Più starai qui a piangere, più tarderai! –
Bianca si era avvicinata: ella conosceva la bambina.
– Mietta, che hai? – chiese.
Al suono di quella voce, il giovane fu in piedi e salutò con la disinvoltura di un gentiluomo.
– Essa piange – rispose – perchè ha rotto una boccetta di medicina che portava a casa.
– Hai qualcuno ammalato, Mietta? – chiese ancora Bianca, dopo aver ricambiato il saluto del giovane.
– Il vitello, – rispose la bambina – e la mamma mi aveva raccomandato di far presto. Io correvo con la boccetta in mano, quando sono caduta e si è rotta.
– Ed io le proponevo di tornare dallo speziale, che poi l’avrei accompagnata a casa, – soggiunse lo sconosciuto.
– Perchè non accetti? – domandò l’istitutrice.
– Perchè non ho più i soldi per comprare la medicina. –
Il giovane sorrise.
– I soldi te li avrei dati io.
– Non li voglio, perchè non lo conosco.
– E da me li prendi, Mietta?
– Oh! da lei, signorina Bianca, sì, e se dico alla mamma che l’ho incontrata, non mi sgriderà più! –
La giovinetta sorrise, e mentre estraeva il portamonete, lo sconosciuto disse:
– Ammiro la fierezza della piccina, come la sua fiducia in lei, signorina Bianca, angelo consolatore di queste terre! –
L’istitutrice intervenne, mentre le guance della giovane si facevano di fuoco.
– Il signore conosce la signorina?
– Chi non la conosce, nei dintorni? – rispose lo sconosciuto. – Io vengo spesso da queste parti, ospite del marchese Passiflora: sono il conte Livio Rossano. E adesso, prego di perdonare la mia audacia, della quale Mietta e la bontà sua, signorina, hanno colpa. –
E salutando di nuovo, s’allontanò.
Sapeva però che il colpo era fatto e che già si trovava più vicino alla giovane, che se l’avesse accompagnata.
Infatti il pensiero di Bianca era assorbito dall’immagine del conte Rossano, il cui volto le si era impresso nella mente in modo da non dimenticarlo più.
Il giorno stesso, mentre essa passeggiava soletta per l’ombroso viale che conduceva al cancello della sua villa, vide dietro a quello il conte Livio Rossano, immobile a contemplarla. Ma incontrando lo sguardo di lei, egli si limitò a salutare e disparve subito.
Fin da quel giorno Livio cercò tutti i mezzi per farsi vedere da lei, senza però osare di avvicinarla.
Quella rispettosa adorazione conquistò interamente Bianca, che ormai si cullava nell’incanto di quell’amore da tutti ignorato.
Erano cominciate le noiose piogge autunnali, che fecero fuggire dalla tenuta il marchese Passiflora ed i gentiluomini suoi amici. Ma il giorno della partenza di quegli scioperati, Mietta, venuta a portare un canestrino di mele a Bianca, introdotta nella stanza di questa, si tolse di sotto al grembiulino una lettera che aveva nascosta in tasca e gliela porse dicendo:
– Questa è per lei. Gliela manda quel forestiero che voleva darmi i soldi per la medicina. – Bianca ringraziò la fanciulla, e appena fu sola, lesse la lettera.
«Signorina, il mio ardire susciterà forse il vostro disprezzo, perchè avrei dovuto, prima che a voi, rivolgermi a vostro padre. Ma come affrontare un colloquio con lui prima di ottenerne il vostro permesso?
«Perdonatemi, ma fin da quando vi ho veduta, sono pazzo d’amore per voi.
«Voi avete risvegliato la mia anima addormentata, e vorrei rapirvi, trasportare in un mondo sconosciuto, dove nessuno potesse contendermi la felicità.
«Ascoltatemi: la mia vita è stata finora triste, isolata: perdei mia madre troppo presto; mio padre non si è curato mai di me. Egli era uno dei viveurs dell’alta società torinese, e siccome ci somigliavamo perfettamente, giacchè mio padre, colle risorse sapienti dell’arte e di un abile cameriere sembrava sempre giovane, quasi mio fratello maggiore, così una gran parte delle sue follìe si attribuivano a me.