2 aprile

1387 Words
2 aprileQuella domenica mattina me ne stavo tanto bene nel lettone a ronfare, quando il telefono di casa cominciò a squillare insistentemente. Dopo il sesto squillo decisi di trascinarmi verso quell’attrezzo infernale; aprii la porta della camera e rotolai rasente al muro fino al mobiletto dell’ingresso, poi mi arrampicai abbandonandomi sulla sedia. Sollevai la cornetta come se stessi alzando un sacchetto di cemento e risposi flebilmente: «P… P… Pronto». «Oh, Fu’, ancora a dormi’ stai?», fece il mio interlocutore dall’altra parte dell’apparecchio. «So’ le nove, ma quando ti alzi? Dai che poi facciamo tardi», proseguì la voce. «Dai Federico, non mi puoi chiamare a quest’ora: è prestissimo; manca un sacco di tempo alla partita», risposi assonnato. Federico era il mio migliore amico, anche se per la verità non è che avessi una vasta gamma tra cui scegliere: riflettendoci però, anche se l’avessi avuta, avrei scelto comunque lui… escludendo ovviamente quella mattina. «No Fulvio, non hai capito, ci dobbiamo organizzare; oggi è un giorno troppo importante: all’Olimpico torna il barone, ti rendi conto?». Vi presento così un’altra delle mie passioni: il calcio. Quel giorno, in quell’annata disastrosa, tornava sulla panchina della Roma Nils Liedholm, il mitico allenatore dello scudetto 1983. Per l’occasione, io e Federico ci eravamo concessi addirittura l’ebbrezza dello stadio. Non eravamo assidui frequentatori, diciamo che qualche volta allietavamo la nostra stagione calcistica con quel brivido indescrivibile. «Vabbè Federi’ taglia corto, che vuoi fare allora?», dissi. «Allora, il programma è il seguente: prima andiamo a fare colazione al bar a piazza Bologna, poi di corsa all’alimentari a comprare i panini, poi passiamo a casa tua e voliamo allo stadio: che ne dici?», fece lui. «Va bene, a che ora ci vediamo?». «Nove e trenta». «Federi’, non ce la farò mai per le nove e mezza, facciamo le dieci?». «Va bene, ma non fare tardi, ciao». «Ah Federico aspetta…» “ha riattaccato quest’idiota”, pensai allargando il braccio con la cornetta in mano. Mi alzai dalla sedia infilandomi immediatamente in bagno per una doccia veloce. Mi asciugai e mi vestii a tempo di record. Nel record era compreso anche il mio passaggio in cucina per ingurgitare cinque o sei biscotti, perché è sempre meglio portarsi avanti col lavoro. Uscii trafelato alle dieci meno cinque minuti, lasciando ovviamente la doppia ciotola a Jerry; percorsi via Catanzaro quasi di corsa fino a piazza Bologna dove c’era il nostro bar. Manco a dirlo Federico era già lì che mi aspettava: «Dai Fulvio che è tardi». «Ma che tardi Federico, non è tardi; così mi viene l’ansia, relax, relax cacchio». «Sì sì, entriamo?». Varcammo la porta del bar. «Ah, eccoli tiè. Siete pronti?», fece l’uomo dietro il bancone. L’uomo dietro il bancone era Peppe, il barista. La sua presenza si faceva notare, quantomeno per la stazza notevole, essendo più o meno intorno al quintale. Ormai i capelli neri avevano lasciato spazio a quelli grigi, ma gli occhi chiari e vispi erano quelli di quando noi eravamo piccoli. «Oggi torna pure il barone, non sai che spettacolo; cari miei, questa e la volta buona che vi riprendiamo sicuro», a proposito: Peppe era della Lazio. Lo sfottò nei bar romani era sempre presente, in particolare la domenica. Figuriamoci poi quel giorno che dovevamo andare allo stadio. Le romane vivacchiavano a metà classifica, come al solito, a tre punti di distanza l’una dall’altra; e, sempre come al solito, anche quell’anno era come se a Roma giocassimo un campionato a due squadre. «Credo proprio di no Peppe. Vedrai che oggi vinciamo», disse Federico. «Ma ‘ndo volete anda’. Vi rendete conto che dall’inizio dell’anno ancora non vincete una partita». Effettivamente era vero, eravamo ad aprile e dall’inizio dell’anno avevamo racimolato massimo un punto a partita, i due punti assegnati alla vittoria erano ormai quasi una chimera. Mentre aspettavamo che Peppe facesse i cappuccini, ci avvicinammo all’immancabile tavolino con i giornali. Ne presi uno sfogliandolo fino all’inserto sportivo. «Dai Fulvio, spara la formazione di oggi», disse Federico. «Eccole, vediamo: Roma-Cesena… Roma-Cesena», scorrevo la pagina con gli occhi. «Sono pronto», asserì concentrato Federico. «Allora, la Roma schiera: Peruzzi, Tempestilli, Nela, Manfredonia, Oddi, Di Mauro, Renato, Massaro, Vöeller, Giannini, Policano», sciorinai i titolari con aria soddisfatta. «Allora state a posto», disse un simpatico cliente del bar, notoriamente tifoso della Lazio, mentre i romanisti presenti lo insultavano. Peppe ci avvertì con “garbo”: «Oh ragazzi, quando avete finito di sognare i cappuccini stanno qui ad aspettare». «Gentilissimo», risposi in tono ironico. Dopo aver ingurgitato cappuccino e cornetto ci apprestammo a uscire. «Signori, vi salutiamo», fece Federico alzando il braccio. «Tanto, sempre se vi dice bene, pareggiate», vaticinò Peppe. Comprato il pranzo, tornammo a casa a prendere il suo motorino, un SI blu. Incontrammo un ragazzino, che procedeva in senso opposto: aveva il casco. «Sai che palle con quel coso in testa», gridò verso di me Federico. Mi avvicinai un po’ a lui: «Ciccio, fai poco lo splendido perché vedrai che prima o poi metteranno l’obbligo anche per i maggiorenni; pensa a guardare la strada piuttosto». «Beh, se lo dici tu», rispose. Parcheggiammo poco prima di ponte Duca D’Aosta e proseguimmo a piedi. «Vedrai Federico che dall’anno prossimo, con l’apertura della metropolitana a piazza Bologna, sarà più facile arrivare. Con cinque minuti saremo a Termini e poi si potrà prendere la metro fino a Flaminio». «Beh, se ci credi; sei tu il giornalista, dovresti essere più informato di me», rispose lui non molto convinto. «Sono sicuro che ce la faranno. Non dimenticare che l’anno prossimo ci sono i mondiali e Roma ospita anche la finale», argomentai io. Arrivammo sotto l’ingresso “Distinti Sud”, lato “Tribuna Tevere”, da dove avremmo visto la partita; passammo i controlli e cominciammo a salire i gradini. Prendemmo posto. La curva non era ancora piena, mentre il nostro settore era praticamente vuoto e, a dire il vero, sarebbe rimasto così per l’intera partita. Finito il primo tempo, mentre ci rifocillavamo con un caffè comprato sui gradini, commentammo la partita insieme ai pochi presenti nel settore. Nemmeno a dirlo intorno a noi c’erano circa un centinaio di opinioni diverse sui giocatori, sulla partita, sull’allenatore e pure sul tempo di inizio primavera che non ci aveva concesso un nitido e splendido sole. Fortunatamente il tempo fu comunque clemente; evitare la pioggia nell’Olimpico del 1989 era ancora fondamentale, visto che i lavori per la copertura sarebbero cominciati solo di lì a poco. A pochi minuti dall’inizio del secondo tempo ci fu un fallo su Giannini all’altezza della trequarti di campo. Il ricordo va a quei momenti come immagini a rallentatore: Di Mauro, mentre il compagno era ancora a terra, smarcò sulla destra Vöeller, il pallone sembrava lungo; io non vedevo molto bene, non ci capii molto, vidi solo il tedesco buttarsi in scivolata tra il difensore e il portiere in uscita disperata. Per un istante non capii dove era andata a finire la palla, lo stadio iniziò a bollire: poi la vidi, la sfera passò tra il difensore e il portiere ormai a terra; procedette lenta verso il centro della porta. Alla fine entrò. Lo stadio esplose, sembrava di essere in un formicaio brulicante al lavoro: braccia e gambe che si confondevano, gente paonazza che si girava da tutti i lati alzando le braccia, fiumi di gente che scendeva i gradini. La mia schiena era pervasa da un brivido di eccitazione comune a tutti i presenti, alzai prima le braccia al cielo e poi le rivolsi verso il mio amico per condividere con lui quel momento meraviglioso, unico, sempre uguale, anche quando non si disputa la finale di Coppa dei Campioni. Mentre l’intero stadio cantava “tedesco vola”, io e Federico riprendemmo posto in quell’atmosfera incantevole e al tempo stesso non descrivibile a parole. Quando il frastuono tornò più sopportabile Federico si voltò verso di me: «A Fu’, ma che ha segnato Vöeller?». «Sì, vabbè buonanotte, mi sembra ovvio». «Non ho visto una mazza ma sono contento lo stesso». A dieci minuti dal termine entrò Bruno Conti, giocatore immenso; che poi non capivo perché giocasse così poco un giocatore così. Lo stadio era in piena esaltazione. Alla fine la gara terminò e la Roma vinse, anche se non era stata la partita più bella della storia. Vorrei dire due parole a compendio di queste righe, ma devo riconoscere che non è facile. Sarebbe necessario descrivere le emozioni del tifoso dopo una vittoria, soprattutto dopo un periodo negativo; vi dico subito che è impossibile; questa è una di quelle cose che non si può definire a parole e che prescinde da Lazio, Roma, Milan, Inter, Juventus o qualsiasi altra squadra. Uscimmo in un clima di festa come non se ne vedevano da tempo, cantando, ballando e innalzando mani e braccia al cielo. Fu così che imprimemmo per sempre nei nostri ricordi la prima vittoria della Roma 1989.
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