1 Il ritorno dei Lorena
Mercoledì quattro maggio 1814, Napoleone Bonaparte è approdato a Portoferraio con la sua fregata inglese, l’Indomabile. L’Isola d’Elba lo ospiterà nel suo esilio.
Le note di una fanfara lo hanno accolto, uomini in alta uniforme hanno sollevato scintillanti sciabole per salutarlo con tutti gli onori, sopra i rulli di tamburi una folla entusiasta ha gridato il suo nome.
Bonaparte non può abbandonare l’Isola, ma ne è il sovrano. Le chiavi della città adesso sono nelle sue mani, Villa di San Martino e la Palazzina dei Mulini le sue lussuose dimore.
Il grande generale sarà presto raggiunto dalla contessa Maria Walewska e dal loro figlio Alexandre. Maria Luisa d’Asburgo, sua illustre consorte, è invece rimasta in Austria con il figlioletto.
L’uomo che ha cambiato le sorti del mondo, il genio militare, l’imperatore incoronato a Notre-Dame ha firmato un contratto in una chiesa di campagna che lo elegge sovrano di una piccola isola.
L’articolo del Gazzettino di Firenze, il giornale del granducato che usciva tre volte alla settimana, proseguiva con il sagace sarcasmo toscano.
Arrigo Martini, terminata la lettura, se la rise sotto i baffi bianchi che curava in modo maniacale, appoggiò sul tavolo la lente e scosse la testa.
Nel quartiere di Santa Maria Novella i Martini erano molto conosciuti, il palazzo rinascimentale, in via della Porta Rossa, vicino alla Loggia del Mercato Nuovo, apparteneva alla famiglia fiorentina da generazioni.
Proprietari terrieri e imprenditori tessili da sempre vivevano nella strada famosa per le botteghe artigiane dell’Arte della Seta, ma non temevano la concorrenza.
Oltre a due fabbriche tessili nella Val di Nievole, possedevano svariati immobili. Erano di loro proprietà anche una bottega di tessuti pregiati in via dell’Oche, protetta dall’imponente ombra della Cupola, svariati terreni nella Lucchesia e fruttuosi vigneti e oliveti in tutta la Toscana.
Si mostravano come una famiglia unita, eppure i problemi dentro le mura dei loro palazzi erano frequenti. Le vicende dei Martini, come quelle di tutte le famiglie in vista della città, erano pane per i pettegoli e incuriosivano i fiorentini non meno delle indiscrezioni che arrivavano dal granducato. Negli ultimi anni, la loro scalata al successo era stata interrotta da gravi lutti: Fulvio Martini, patrono della famiglia, era stato ucciso da una bomba in piazza Santa Trinita durante un’azione armata contro il governo napoleonico; donna Rosa, l’amata moglie di Arrigo, era morta per un male incurabile allo stomaco; Francesco, il primogenito di Rodolfo, arruolato tra le fila dei soldati della Corona francese, non aveva più fatto ritorno.
Arrigo, aiutandosi con il bastone, si alzò in piedi con fatica. Il dolore alla gamba ferita in guerra adesso era sopportabile, certo non avrebbe mai smesso del tutto di dargli qualche fitta, ma almeno non si sentiva più un inutile storpio. Negli anni aveva imparato a trattare col destino.
Dalla finestra dell’ultimo piano di Palazzo Martini l’uomo posò lo sguardo sui tetti e sul dedalo di stradine intorno alla piazza del Mercato e si godeva lo spettacolo che ogni giorno la sua città gli offriva.
“Donne, il pan dolce è ancora caldo, se non vi spicciate non ve ne tocca,” urlava qualche venditore, levando un tovagliolo dal cesto dei dolci per tentare il passante con le sue leccornie.
Gli ambulanti con i carretti carichi di lupini erano la concorrenza dall’altro lato della strada, mentre i bottegai sostavano sull’uscio del negozio e, mischiando la chiacchiera con la verità, la burla col dramma, raccontavano i fatti di tutti senza farsi mancare le solite volgarità.
Firenze era così: austera e popolana, culla della lingua italiana e della parolaccia.
Dalle baracche di legno accatastate e dalle abitazioni con le tettoie di metallo dei vicoli popolari, poco lontano dalle strade più nobili, arrivava al naso l’odore di fogna e di cibo fritto. In quei luoghi si esercitava la prostituzione e il prestito, non era quindi insolito vedere aggirarsi le guardie di Sua Maestà. La polizia però si accaniva soprattutto sui poveri mendicanti, sui monelli di strada o sulle puttane piuttosto che mettere le mani sui veri malavitosi.
Dentro le mura i garzoni invitavano gli stranieri a sedersi al tavolo delle trattorie, lusingandoli con frasi melliflue e sollevando un bel fiasco di vino; gli artigiani lavoravano ininterrottamente per produrre oggetti di cuoio, i famosi cappelli di paglia o per battere il ferro; i carri trainati da cavalli caricavano la rena per arginare l’Arno; gli studenti della Firenze bene uscivano dalle Scuole Pie fiorentine degli Scolopi, nell’antica casa de’ Cerchi, tra gli schiamazzi e le risate piene di allegria giovanile; le guardie della caserma di via Guicciardini sfilavano a piedi o a cavallo nelle loro divise rosse sfidando qualsiasi clima.
Firenze, nonostante la genuinità della sua gente, era il luogo dove l’arte e la cultura rappresentavano la sua vera forza. Era una cittadina che godeva ancora delle buone riforme, la pace e la libertà erano il suo più grande vanto, e temeva che, ribellandosi e alzando la testa verso altri orizzonti, avrebbe potuto perdere la sua gabbia dorata.
Così sarebbe stato fino ai moti del 1848.
Il richiamo della rivoluzione, e le gesta eroiche dei patrioti, però stava arrivando anche in Toscana e si insinuava negli animi appassionati dei più giovani; molti si arruolarono volontari nelle regioni del Lombardo-Veneto o si unirono ai giacobini piemontesi.
Firenze fioriva nonostante i freddi venti di guerra che soffiavano da ogni direzione. L’aria tiepida di primavera era arrivata sprigionando i colori e il profumo delle rose e dei glicini, la gente usciva dalle umide abitazioni per incontrarsi nelle piazze e lungo le sponde dell’Arno; le campane delle chiese salutavano il ritorno del granduca Ferdinando III di Toscana.
Il giglio affondava le radici nella sua terra fiera scaldata dal sole dei Medici. Gli stranieri erano poi venuti a corrompere la sua cultura, avevano stravolto la sua lingua con nuovi accenti, avevano imposto leggi e stili di vita forestieri.
Fiorenza, però, non concedeva a nessuno la sua anima e, nonostante i numerosi sovrani che si erano susseguiti, i fiorentini erano e sarebbero sempre stati i soli padroni della città.
Arrigo attraversò quei pensieri con un’espressione di orgoglio, chiuse appena gli occhi colpiti da un raggio di sole troppo violento e prese la pipa. Era il momento giusto per provare il nuovo tabacco importato dal Brasile, il preferito del fratello Rodolfo, che elogiava ogni nuovo prodotto proveniente dalle colonie straniere.
Dopo un periodo di lutti che era sembrato interminabile, finalmente i Martini vedevano una luce di speranza: la primogenita di Arrigo, Eleonora, lo aveva reso nonno della splendida Rosa, il nome di sua moglie, il suo bocciolo di rosa, come la chiamava lui e, poco dopo, il figlio Biagio aveva annunciato il fidanzamento con Anna Conti, una brava figliola proveniente da una famiglia nobile originaria di Piombino. Rodolfo aveva alleviato le sue pene da quando suo figlio Giovanni aveva cominciato a dargli belle soddisfazioni negli studi, preparandosi a diventare il delfino dei Martini nell’azienda di famiglia.
Conosceva bene quel passo veloce e un po’ trascinato.
“Vi piacciono, babbo? Li ho presi dalla Beppa.” Anche la voce avrebbe riconosciuto tra tutte, sottile e allegra.
Anna lo chiamava babbo dal giorno della festa di fidanzamento con suo figlio Biagio qualche mese prima. Nessuno la faceva sentire figlia come Arrigo, men che mai il suo vero genitore. Era stato l’unico a darle la protezione e l’affetto di un padre da quando, ancora bambina, frequentava casa Martini e Biagio era il suo amichetto.
In famiglia, però, c’era chi criticava la complicità tra nuora e suocero. Quando succedeva, Anna fingeva che non le importasse, ma era una vera sofferenza essere costretta a subire le frasi al veleno e gli sguardi inquisitori senza potere reagire.
“Ancora peonie?” chiese Arrigo osservando i bellissimi fiori di tutte le sfumature del rosa.
Anna reggeva il mazzo tra le braccia rigide, come se fosse estremamente prezioso e delicato. Chiamò la domestica Giuseppina perché lo mettesse a bagno nel vaso più bello.
Tutto doveva passare sotto il controllo di donna Fedora, ma le peonie erano i fiori preferiti dalla padrona di casa, che di certo avrebbe approvato la scelta. Ogni membro della famiglia aveva ascoltato, almeno una volta, il racconto di come il generale Fulvio Martini l’aveva corteggiata donandole, ogni giorno per un mese, mazzi di peonie.
“Avete letto l’articolo?” domandò Anna sistemando i fiori, senza alzare la testa per guardare il suocero. I fini capelli castani e il viso rotondo e acerbo erano illuminati dai raggi del sole, i grandi occhi marroni sembravano due gemme d’ambra. “È pericoloso quel sarcasmo, ma che volete…”
“Bimba cara, i Lorena non s’infuriano certo se si sbugiarda Bonaparte.” Arrigo si trattenne nel dire cosa pensava veramente del sommo imperatore e dei familiari a cui aveva messo un trono sotto il sedere.
Anna era affascinata dalla politica, colpa del suo Biagio, che le aveva trasmesso quello scomodo interesse. Col tempo aveva imparato il coraggio delle proprie idee, e adesso poteva ammettere che il principe Rospigliosi, che amministrava il Granducato in assenza del sovrano, non le piaceva, faceva del personalismo, un termine che aveva sentito proprio dal fidanzato, e ancora meno sopportava l’atteggiamento neutrale di Ferdinando III.
Era evidente che, a parte le buone riforme ordinate dal precedente granduca Pietro Leopoldo I, Firenze non era più la Dominante che era stata nel Rinascimento.
Si compiacque con se stessa per quella riflessione così dotta e acuta. Una gentildonna, però, non doveva mostrare attenzione a simili argomenti, era sconveniente, così le avevano detto. Secondo i Martini, la sua curiosità accesa e i modi spicci potevano scalfire il lustro della famiglia.
Anna sorrise, fiera della sua disobbedienza.
Sui muri erano affissi gli editti che proclamavano il definitivo cambio di governo. La città gongolava tra i continui festeggiamenti. Ovunque era stato innalzato il blasone dei Lorena d’Asburgo al posto dello stemma napoleonico.
Arrigo, leggendo il nome di Ferdinando III a grandi lettere, pensò a quante volte aveva assistito a quelle scene di entusiasmo per l’insediamento di un nuovo sovrano. In quindici anni si erano susseguite diverse dinastie, molti reggenti avevano abdicato e si erano formati tanti governi provvisori.
Quando il regime napoleonico aveva ceduto il territorio dei Lorena ai Borboni, nel 1801, il granduca Ferdinando III di Toscana era stato costretto ad abdicare e ad accontentarsi del principato di Salisburgo e di quello di Wurzburg.
Il giorno in cui Ludovico di Borbone era giunto a Firenze, anche i Martini avevano ironizzato sul fatto di avere per la prima volta un re. Povero Ludovico, la sua salute malconcia non gli aveva permesso di governare a lungo, e alla sua morte era stata la moglie Maria Luisa di Borbone a prendere il potere. Il suo tempo era stato troppo breve: nel 1807 Napoleone aveva decretato la fine del regno dei Borboni e si riprese la Toscana, che plasmò sotto l’impronta della sua dittatura fino al 1814.
Non sapeva, l’imperatore, che i fiorentini sono sempre stati il popolo dei guelfi e dei ghibellini, difficili da educare a un governo che non parla toscano?
L’unico straniero che il popolo aveva amato sinceramente, e non per costrizione, era stato Leopoldo I. Lui sì che aveva dato onore e gloria a Firenze. La sua riforma aveva rappresentato una rivoluzione su tutti i fronti, dai lavori pubblici, alla sanità, dalla giustizia, alle finanze.
Arrigo e Anna si spostarono nel giardino della casa. Era un piccolo eden, un’oasi rigenerante, un luogo senza tempo circondato da un patio di colonne con i capitelli corinzi e statue di marmo di Carrara, piante e fiori di ogni tipo che crescevano rigogliosi vicino a una fontana barocca.
Lì, nel giardino del palazzo, donna Fedora parlava con i suoi morti.
Minuta e delicata, mostrava da sempre un’innata eleganza e un sorriso materno. Nei giorni in cui la malinconia la visitava, lei le lasciava la porta aperta per andare incontro ai ricordi. In quei momenti si rivolgeva al marito Fulvio, alla nuora Rosa e anche al nipote disperso, come potessero ascoltarla. Raccontava ai loro spiriti i problemi che le causava quella complicata famiglia, rideva stringendo i piccoli e guizzanti occhi azzurri, e subito dopo piangeva. Nessuno della famiglia la contraddiceva, forse perché nessuno aveva ancora lasciato andare completamente quelle anime.