Il vanto del giardino era la pianta di melograno che Biagio aveva regalato a donna Fedora per un compleanno. “È simbolo di prosperità, nonna,” le aveva detto. Povero Biagio, era stato deriso da tutti; la sua pianta aveva sfigurato al cospetto dei gioielli e della seta regalati dal resto della famiglia all’amata nonna.
Rodolfo Martini aveva pranzato con il principe Giuseppe Rospigliosi, consigliere privato, gran ciambellano e commissario straordinario di Ferdinando III di Toscana, con diverse deleghe amministrative. In pratica, al principe era stato affidato il compito di amministrare il Granducato in attesa del ritorno del vero sovrano. E da quel momento aveva gonfiato il proprio ego sempre di più.
Pur detestandolo, Rodolfo, da bravo arrivista, lo frequentava assiduamente, e sperava in un particolare ringraziamento da parte del granduca a tempo debito.
Martini piombò nel giardino dove Arrigo e Anna discutevano, ma a malapena li considerò. Si tolse il cappello a cilindro e se la prese con i domestici che non si erano precipitati a servirlo. In realtà se la sarebbe presa con chiunque, la rabbia stava distruggendo il suo già provato autocontrollo. Ordinò che gli venisse servita subito la solita brocca di limonata fresca con le foglioline di menta, poi lanciò il bastone con il pomello in argento su cui era scolpita una testa di leone.
“Ha un viziaccio il Rospigliosi, promette menzogne! Dovrebbe tutelare noi commercianti e invece cosa fa? Firma per il blocco del porto franco! Bada che c’è scritto in questa lettera,” sbottò allungando un foglio al fratello.
Dalla strada il popolo urlava il nome di Ferdinando.
“Urlate, urlate” rincarò la dose il Martini. “Dovrebbe essere già qui il nostro sovrano, a vedere come il suo uomo di fiducia ci sta rovinando.”
“Ma che dici? Gli sarà stato ordinato dal granduca di firmare il regolamento.”
“Vuoi sapere come stanno le cose, Arrigo? Presto detto: il caro principe si fa le leggi che gli fanno comodo con le persone che gli servono!”
Poi si mise a camminare nervosamente avanti e indietro, le mani in tasca, la mascella irrigidita per la tensione. “Da settimane si aspetta dei carichi di fili di seta per la torcitura, pietre preziose dall’Africa per le decorazioni, tinture, tutta roba che non giunge ancora,” ringhiò. Fissava i due come fossero la causa di quei fallimenti. “E poi, se vogliamo dirla tutta, il tuo figliolo, invece di studiare lettere ed essere pappa e ciccia coi giacobini, dovrebbe darci una mano! C’è bisogno di chi sa fare gli affari nella Tessuti Martini, non di belle parole,” concluse passandosi la mano nervosa sui folti capelli neri; gli occhi azzurri sembravano lame di ghiaccio.
“Con permesso, non mi sento bene, vado a governare i cavalli,” disse Anna intimidita. Era pallida in volto e d’istinto abbassò lo sguardo, impaziente di sparire dalla scena.
Arrigo, desolato, ordinò al domestico di accompagnarla a casa.
Ma una volta rimasto solo con il fratello si sentì libero di inveire. “Chetati!” gli urlò. Avrebbe voluto prenderlo a pugni, ma non sarebbe riuscito a stenderlo, Rodolfo era molto più alto e robusto di lui. Per abbatterlo, era più efficace mostrarsi pacato e distaccato, proprio come gli aveva insegnato suo padre.
“Biagio avrebbe dovuto sposare la baronessa Bardini. Un bel matrimonio redditizio con una donna di classe, ecco che ci voleva per noialtri!”
“Ovvia, Rodolfo, smettila. Il casato dei Conti è tra i più blasonati di Piombino.”
“Una volta forse. La famiglia Conti crede ancora che basti la nobiltà per avere potere in società, non hanno ancora inteso che sono cambiati i tempi!” Rodolfo parlava come si fosse trovato a una delle accese riunioni alla Camera di Commercio, di cui era nel direttivo, cercava i termini per fare colpo e si atteggiava in modo altezzoso. D’un tratto si sentì giudicato dallo sguardo e dal silenzio di Arrigo e assunse un contegno ancora più impettito.
“Vado alla bottega,” disse infastidito. Prima di raggiungere la porta, sollevò gli occhi sulla giovane Giuseppina, e la domestica arrossì, come tutte le volte che il padrone si rivolgeva a lei. “Era molto buona la torta ieri. Siete un angelo, Giuseppina.” Lo sguardo eccitato si posò sui fianchi morbidi e sul seno abbondante della donna, le si avvicinò per farle una carezza, e poi senza salutare il fratello se ne andò.
Arrigo sapeva che corteggiare la timida fanciulla era tra i passatempi preferiti di Rodolfo; si chiese se Margherita, sua cognata, ne fosse al corrente.
Anche il popolo era ansioso del ritorno del sovrano. Nonostante qualche gruppo di nostalgici dei francesi o dei Borboni, la maggior parte dei cittadini non chiedeva altro che una guida stabile, qualcuno che amasse veramente la terra dell’Arno e riportasse le città toscane alla gloria di un tempo.
Rospigliosi imponeva un governo rigido e conservatore per risollevare il potere dell’oligarchia fiorentina e del clero, dimenticandosi dei meno abbienti. Rodolfo Martini, se da una parte si sentiva al sicuro, dal momento che faceva parte di una ristretta élite, dall’altra vedeva nel principe un ostacolo al progresso.
Per il ritorno del granduca Ferdinando III furono ordinati importanti lavori pubblici in città: la via Larga fu ampliata, i ponti ristrutturati, le strade lungo l’Arno estese, molti quartieri cambiarono aspetto.
Le rigide normative conservatrici del Rospigliosi furono infrante, l’impressione che il granduca si sarebbe disfatto dell’ambizioso principe sarebbe presto diventata realtà.
Rospigliosi, sprezzante dell’opinione pubblica, organizzò per Ferdinando III festeggiamenti degni di un re. L’uomo più devoto al Granducato, con uno sguardo sempre rivolto ai Francesi, era così vanaglorioso da non accorgersi che il pericolo non arrivava dal popolo insoddisfatto, ma dai politici esperti come Vittorio Fossombroni e Leonardo Frullani, i consiglieri che presto lo avrebbero spodestato.
Il quindici settembre Rospigliosi andò a Bologna per prendere atto delle disposizioni in funzione delle celebrazioni. Non erano permessi incidenti, tutto doveva essere impeccabile: l’assegnazione delle carrozze destinate alle famiglie più importanti della Toscana, la benedizione ecclesiastica, il tragitto che il granduca avrebbe percorso. Non per ultimo fu emanato un avviso col quale si informavano i cittadini che, al suo arrivo, venissero suonate le campane delle chiese di Firenze.
Rodolfo aveva lasciato praticamente tutti gli affari dei Martini nelle mani di Arrigo per seguire le fasi della costruzione del grande evento e pretendere il suo ruolo in quella pagina di storia.
“Che vengano bagnate le strade sterrate, che all’arrivo del sovrano non deve essere sollevata troppa polvere! E mi raccomando di dare alla mia famiglia un posto in prima fila!” sbraitava nelle riunioni degli organizzatori. E come sempre, i suoi più che suggerimenti erano ordini.
PRESCELTI I NUOVI MINISTRI. Il titolo a grandi caratteri sul Gazzettino di Firenze suscitò subito forte curiosità. L’articolo proclamava la nomina dei nuovi ministri voluti da Ferdinando iii d’Asburgo-Lorena.
Si apprese così che l’incontro di governo era durato diverse ore, e l’epilogo aveva riservato qualche sorpresa: il gruppo di nominati non contava solo politici, ma anche esponenti del mondo della scienza, delle finanze e della cultura. Uomini dotti in grado di argomentare su ogni questione dell’amministrazione, apparentemente lontani dalla politica scaltra e corrotta, avrebbero guidato le sorti della Toscana. Tra questi mancava il nome di Giuseppe Rospigliosi, il quale era stato declassato a una sorta di capo maggiordomo o segretario particolare.
Che il granduca lo avesse messo fuori dai giochi? insinuava il giornalista.
Finalmente Ferdinando iii entrò in Firenze scortato da ciambellani, gonfalonieri, priori, magistrati, ufficiali, reggimenti militari. Dalle fortezze tuonarono i colpi di cannone, che si unirono ai suoni delle campane e al nome urlato del sovrano.
Alla porta di San Gallo il granduca ricevette le chiavi della città dal gonfaloniere Bartolommei. La banda militare lo accompagnò in piazza San Marco allestita ad anfiteatro, dove spiccava un carro trionfale con una grande scultura rappresentante Ferdinando iii sostenuto dalle quattro virtù: la Vittoria, la Concordia, la Giustizia, la Pace.
Dopo il gruppo scelto di musicisti e cantori, che gli dedicò toccanti melodie, fu la volta dell’incontro con i vescovi e gli arcivescovi della Toscana. Il vicario di Firenze, monsignor Niccolini, lo benedì solennemente con l’acqua santa, poi il corteo proseguì per le strade della città perché il popolo potesse incontrare il suo sovrano.
Rodolfo Martini camminava sgomitando tra la folla per avvicinarsi il più possibile al granduca, ma a un certo punto si bloccò. Non credeva ai suoi occhi: Ferdinando iii d’Asburgo-Lorena, trovandosi davanti Arrigo sul suo Morello, magnifico esemplare di cavallo andaluso, si fermò a parlare amabilmente con lui.
“Non ci credo,” disse con un filo di voce. Doveva essere lui il primo a incontrare il granduca, lui a fare conoscere al sovrano la grandezza delle imprese Martini, lui ad accattivarsi la sua simpatia, non certo quel debosciato di Arrigo.
Con il Congresso di Vienna le potenze che avevano sconfitto le truppe napoleoniche definirono le linee della nuova Europa: si sarebbe realizzato un ampio territorio di Stati in buon equilibrio, governati dai legittimi sovrani che erano stati sottomessi o cacciati da Napoleone ed erano adesso tornati per riprendere in mano le fila di un’antica politica. Tutto era tornato al periodo precedente la Rivoluzione francese e la furia napoleonica.
In tutto questo l’Italia ebbe un ruolo marginale. Considerata terra di conquista, per la sua posizione strategica che faceva comodo a molte potenze, i piccoli Stati della penisola divennero patria degli Austriaci al Nord e dei Borboni al Sud; facevano eccezione il Piemonte e il Regno di Sardegna sotto il dominio dei Savoia.
In rappresentanza del Granducato, Ferdinando iii inviò al Congresso il carismatico Neri Corsini. Il ministro mantenne la linea pacifista e dichiarò che alla Toscana interessava solo governare bene, niente di più; non intendeva ampliare i suoi territori o dividerli con altri, soprattutto con persone messe al potere da Napoleone, come era accaduto a Maria Luisa di Borbone, regina del breve Regno d’Etruria.
La sua richiesta non fu del tutto ascoltata: a Maria Luisa di Borbone fu dato il ducato di Lucca, che sarebbe poi passato al figlio Ludovico, mentre Massa Carrara divenne il ducato di Maria Beatrice d’Este.
Nelle ultime settimane il ritmo di lavoro degli operai dei Martini era particolarmente serrato. Stavano curvi per intere giornate a consumarsi gli occhi e le mani sui macchinosi telai per una paga minima, spesso lavoravano anche di notte alla debole luce delle candele, nessun diritto era loro dovuto, tantomeno alle donne e ai bambini.
Il garzone Luigi sistemava sugli scaffali gli scampoli di seta e i cappelli per signora in velo e raso. Tutta merce arrivata quella mattina. Ci si preparava all’apertura del nuovo negozio in via dell’Oche, segno della fiducia con cui i Martini stavano lavorando in quel 1817. Luigi sapeva che erano attesi una commessa, un segretario e due sarte e si chiese quanto sarebbero durati, visto che per via delle pretese dei proprietari, le assunzioni e i licenziamenti avevano la stessa rapida frequenza.
Il ragazzo scaricava da solo casse di stoffe e cappelli. Goffredo e Francesco, che dovevano aiutarlo, erano stati chiamati con urgenza nella fabbrica di Val di Nievole, dove due operai avevano avuto un incidente con un telaio.
Rodolfo entrò come una folata di vento quasi spaventandolo, si dimenticò la porta aperta, accennò un saluto serioso con la testa ed esaminò la merce. Gli era bastata una semplice occhiata a distanza per capire che la qualità della seta non era quella voluta.
“Luigi, rimetti via la roba, si rimanda indietro, non va bene. Non lo vedi che la tessitura manca di lucentezza? Ma cosa hai in capo? Mi farai diventare matto!” urlò spingendo via degli scampoli che rotolarono per terra.
Luigi aveva imparato a sue spese che rispondere al padrone quando era preso da una di quelle sfuriate serviva solo a peggiorare la situazione.
“Dove sono Corsi e Donelli?”
“Sono andati alla fabbrica di Val di Nievole col calesse per sostituire degli operai che si sono feriti col telaio, uno ci ha rimesso una mano.”