CAPITOLO UNO-2

1968 Words
«Jack. Li hai già visti questi? Fottutamente perversi.» Teagan era cresciuto a Westport e Inistioge in Irlanda prima di trasferirsi a Oxford e poi diventare sergente e, anche se ormai viveva negli Stati Uniti da quasi dieci anni, il suo accento era ancora forte. Per lui sembrava essere una continua fonte di divertimento che le donne americane andassero in estasi e ridacchiassero quando parlava con loro chiamandole amore. Il suo accento e il suo ghigno elegante non mancavano mai di fargli guadagnare confidenze, numeri di telefono e, all’occorrenza, perdono da parte delle piccioncine con cui di tanto in tanto usciva. Il fatto che avesse un bell’aspetto sotto la barba incolta, con un fisico forte e asciutto, non nuoceva alla sua causa. «A che ti riferisci?» Jack sistemò una sedia pieghevole vicino a lui e si inclinò in avanti sul tavolo delle prove. Facendo un cenno al giubbotto leggero di Teagan, aggiunse: «Non hai freddo?» «Aria fresca, amico. Dai un’occhiata a questa roba.» Teagan indicò le bustine con le prove. Jack esaminò il contenuto della prima, prendendo nota di qualche spicciolo (trentaquattro centesimi), un portachiavi con le chiavi di un’auto (anche se la Toyota a cui appartenevano era evidentemente assente) e una ricevuta per patatine e caffè di un vicino mini-market. «Non sono sicuro di cosa dovrei vedere. Mi sembrano cose che potrei trovare sul tappetino della mia macchina.» «Non questa roba», disse Teagan. «Questa.» Fece scivolare qualche bustina verso Jack. La prima conteneva ciò che sembrava un frammento di legno scheggiato lungo circa quindici centimetri e largo sette. Jack lo tenne attraverso la bustina e lo rigirò, quindi capì cosa Teagan intendesse. La parte posteriore del legno era piatta e liscia. Vi era marchiata o incisa una serie di segni runici che formavano delle linee precise lungo l’intera superficie. Jack lanciò un’occhiata interrogativa a Teagan e questi si strinse nelle spalle. «Cordwell dice che questo è un dente.» Passò a Jack un’altra bustina con all’interno un oggetto d’avorio leggermente ricurvo lungo circa dodici centimetri. A un capo vi erano i resti di una specie di radice mentre l’altro terminava con una punta molto affilata. «Cosa diavolo ha denti così da queste parti? Dice sul serio?» «Che sia dannato se lo so», rispose Teagan. Fece scivolare un’altra bustina verso Jack. «E c’è questo biglietto, qui.» Era delle dimensioni di un biglietto da visita, anche se era completamente nero e non c’era alcuna scritta da nessuna parte. Jack studiò la finitura opaca su tutti e due i lati alla ricerca di impronte, ma non riuscì a trovare neanche un alone. «Un biglietto da visita?» domandò Jack. «Non ne ho idea. Chiunque sia il proprietario, potrebbe voler ripensare al suo progetto d’impresa.» Jack glielo restituì. «Forse potranno cavarne qualcosa. O da quel pezzo di legno lì. Cordwell sembra abbastanza sicuro che sia un qualche tipo di attacco animale ben architettato.» Seguì una pausa. «Cordwell dice che potrebbero chiamare Kathy per questo caso», dichiarò Teagan, lo sguardo fisso sul frammento di legno. «Già, Brennan mi ha detto la stessa cosa», replicò Jack. «Per il bene di Kathy, spero che tutte queste stronzate da magia nera siano casuali. Da ciò che ho sentito, potrebbe aver bisogno di una vacanza.» «Il suo aiuto non farà male», disse Teagan, pensieroso, dandogli la busta con il frammento di legno. «Anche soltanto per identificare questo… linguaggio, o qualunque cosa sia.» «Sai che, almeno nei casi, non lavora in base a coinvolgimenti superficiali.» Teagan fece un sorrisetto. «Sì, lo so.» Jack era orgoglioso di riuscire a capire i pensieri, i sentimenti e le motivazioni sotto la superficie: quelli che gli altri mostravano soltanto negli occhi, nei sorrisi e da nessun’altra parte. Era abbastanza sicuro che Teagan fosse innamorato di Kathy. Il modo in cui la guardava, la delicatezza che gli pervadeva la voce quando pronunciava il suo nome: non era una forzatura investigativa riconoscere il suo desiderio per lei, per quanto Teagan pensasse di essere sottile. Eppure probabilmente Kathy non si era accorta di nulla. A prescindere dalle eccentricità individuali, o forse proprio a causa di quelle, Teagan e Kathy erano anime gemelle. Tuttavia, conoscendola come la conosceva Jack, era abbastanza sicuro che lei non si fosse mai concessa di alimentare quel pensiero, e per quanto riguardava Teagan… lui si approcciava al lavoro con l’istinto implacabile e la perseveranza di qualcuno rassegnato a rinunciare a ogni parvenza di vita normale. Per Teagan c’erano le persone morte e c’erano le persone che le avevano uccise, la psicologia dietro al come e al perché, e poco altro. «Be’, io vado. Mangerei il culo di un’anatra che vola a bassa quota», disse Teagan. «Siamo insieme in questo caso, no?» «Già, pare di sì», rispose Jack, appoggiando un gomito sul tavolo. «Tu, io e Morris. Domani alle nove. Nel mio ufficio.» Teagan annuì e si incamminò verso l’auto. Jack lo osservò mentre si allontanava, quindi riportò la sua attenzione sul pezzo di legno nella busta. Prese un profondo respiro, gelido nel naso e nella gola, e lo rilasciò in un piccolo sbuffo bianco. Era il momento, lo sapeva, di cominciare il lavoro. * * * Anche se l’inizio ufficiale dell’estate era a un mese di distanza, le previsioni di venticinque centimetri di neve per Colby, nel Connecticut, fecero sollevare diverse sopracciglia, essendo così fuori stagione. Era stato un inverno particolarmente duro; le temperature spesso erano scese sotto lo zero e un cielo plumbeo aveva rovesciato centimetri e centimetri di neve a settimana per mesi. Quando non nevicava, la pioggia caduta durante il giorno si trasformava in nero ghiaccio di notte. Le vacanze di Pasqua erano state violate dall’accumulo di giorni di neve. La contea aveva terminato il sale per le strade a inizio marzo e stava avendo problemi a procurarsene dell’altro. Eppure, gran parte delle persone credeva che quella tempesta sarebbe stata l’ultima dell’anno, e pazientemente aspettava che il tempo esalasse il suo ultimo respiro artico, una volta per tutte. La città di Colby riscaldava gli spazzaneve e i furgoni della sabbia e del sale, preparandosi all’ultimo momento di gloria dell’inverno, e i cittadini si riversavano nei supermercati locali, nei Target, nei Walmart, nei Costco e nelle stazioni di rifornimento per fare scorta di gasolio e provviste. Molti erano ancora beatamente ignari del corpo trovato appeso all’albero di Edison Park, ma lo avvertivano, nel modo più vago e celato. Sentivano il freddo che provava a strappare la pelle dalle ossa e sentivano anche qualche altra cosa: una sorta di disperata solitudine che cercava di strappare la tranquillità dalle anime. Mentre mettevano da parte cibo e bottiglie d’acqua, pale e guanti, osservavano la notte all’esterno prima di tirare le tende e chiudere le porte, controllando due volte i bambini a letto e accoccolandosi più vicini del solito gli uni agli altri. C’era qualcosa di diverso di un tardo inverno nell’aria, e se si soffermavano troppo a pensarci rabbrividivano. Anche se neanche le dicerie davano voce a questa impressione, la gente di Colby sapeva che qualcosa stava arrivando insieme alla neve. * * * La prima volta in cui Kathy Ryan aveva sparato con una pistola, aveva diciassette anni. Un ragazzo di campagna di bell’aspetto, con braccia forti, mani calde e grandi occhi castani, le aveva mostrato come fare con una calibro 38 presa dalla sua collezione. Si era messo dietro di lei, il petto premuto contro la sua schiena, le braccia intorno alle sue, e quelle mani che guidavano le dita e i palmi nella giusta posizione. Si era assicurato che Kathy avesse capito le regole di base – sempre puntare la pistola in basso e lontana da tutti, e mai e poi mai toccare il grilletto a meno che non si fosse pronti a sparare – quindi aveva posizionato una brocca di plastica piena d’acqua a quattro metri di distanza nel campo del padre. Le aveva detto dove mirare per colpirla. Lei aveva fatto fuoco sette volte, centrando la brocca ogni volta. Ricordava quanto fosse stato rumoroso lo sparo, così rumoroso da farle fischiare le orecchie e battere forte il cuore per l’eccitazione. Era il suono dell’esserci, il suono di qualcosa che stava avvenendo, di un cambio definitivo di ciò che era stato soltanto fino a pochi secondi prima. Era stato un suono potente, spaventoso e sensuale, e lei ne era rimasta stregata. Era accaduto ventidue anni prima, quando c’erano ancora delle persone, sebbene poche, che conoscevano Kathy Ryan come qualcosa di diverso dalla detective della Omicidi. Allora, era soltanto la figlia carina di quel duro di Jim Ryan, con la mamma morta e il fratello di cui nessuno parla. Era una bella etichetta per Kathy, che all’epoca sentiva di averne passate parecchie in quei diciassette anni, e stava combattendo un’ardua battaglia con il mondo in modo da poterlo guardare con semplice meraviglia e stupore. L’unica figlia di Jim Ryan aveva brillanti occhi verdi, una splendente chioma di capelli biondi che il maschiaccio in lei sentiva il bisogno di scostarsi dalle spalle strette, delicate, e un sorriso di innocente divertimento. Era sempre stata magra, ma allora le donava, era quel tipo di fisico asciutto che ai ragazzi piaceva. Allora, la sua pelle liscia e leggermente abbronzata non era deturpata da niente che non fosse una spruzzata di lentiggini estive. Nessuna cicatrice, dentro o fuori. La Kathy Ryan che guardava nello specchio appeso alla spartana camera da letto era ancora carina ma in un modo arrabbiato, indifferente. Gli occhi di quella ragazza si erano ritirati a una distanza di sicurezza dietro circoli scuri e ricordi bui; erano occhi che non temevano di incrociare sguardi ma che di rado offrivano un’indicazione di cosa ci fosse dietro di essi. La sua bocca sorrideva raramente e, quando lo faceva, era con un guizzo sarcastico o un’agitazione imbarazzata che comunicava quanto fosse davvero fuori luogo. E c’era la cicatrice. Scorreva giù attraverso il sopracciglio sinistro e sopra l’occhio per atterrare fermamente proprio sotto l’orbita, scavandosi la sua bianca, sottile e frastagliata via lungo la guancia fino alla mascella, dove semplicemente terminava. Quando Kathy si guardava allo specchio, di rado prestava attenzione agli occhi o alla bocca, ma non riusciva mai a ignorare la cicatrice. Il paradosso del suo viso, pensava, rispecchiava la contrapposizione di opinioni che gli altri avevano di lei. Creava un’inusuale ricezione di diffidenza da vicino e, da lontano, una sorta di segreto timore reverenziale. Professionalmente, era sempre richiesta per prima in una lunga lista di colleghi con una preparazione simile per occuparsi di certi casi, per assistere negli interrogatori più difficili e per dare consulenza alle task force per via della sua esperienza e della sua capacità di portare a termine il lavoro. Ma quelle richieste venivano fatte in uffici con le tende tirate, con una documentazione minima e mai, mai in sua presenza. A Kathy Ryan non importava granché; se i dipartimenti di polizia volevano che lavorasse a un caso, non importava come glielo chiedevano: fino a quando veniva pagata andava bene. Era un caso del genere che l’aveva fatta scendere dal letto quella mattina, il terzo giorno in quella sorta di vacanza forzata. C’era stato un omicidio con delle sfumature rituali, aveva detto Morris, e il sindaco di Colby in persona l’aveva richiesta subito, non appena ce l’avesse fatta ad arrivare. Il caso riguardava un uomo di mezza età ancora non identificato trovato appeso a testa in giù sopra un circolo di invocazione. Era stato marchiato con ciò che a Kathy sembrava un potente sigillo e tra i suoi averi c’erano un totem e un bigliettino che lei conosceva bene. Perciò prese un sorso dalla bottiglia di vodka nell’armadietto dei medicinali e poi si lavò i denti. Infine si fece la doccia, mise gli indumenti intimi e si infilò un paio di jeans e una felpa. Come faceva ogni mattina, guardò la cornice con il collage sul comò, sfiorando i quadrati opachi e vuoti dove un tempo c’erano le foto di lei e della sua famiglia. Aveva rimosso quelle di suo fratello e di suo padre per prime, e poi quell’ultima di lei e sua madre. Non si soffermava mai sulle due rimanenti, solo sugli spazi vuoti dove una volta c’era la sua vita, e soltanto per un minuto. I suoi pensieri tornarono al caso. Chiunque fosse stato quel John Doe, aveva fatto incazzare un gruppo di brutte persone. Quel bigliettino probabilmente significava la setta delle Stelle Nere, in tal caso la neve non sarebbe stata l’unico tipo di tempesta a colpire Colby. Afferrò la borsa e le chiavi dal comò sotto la cornice quasi vuota, e lasciò l’appartamento.
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