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Il pietrificatore di Triora

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Nel corso dei secoli alcuni studiosi e scienziati si sono dedicati ad un’arte tanto oscura quanto inquietante: la pietrificazione.

Con essa hanno cercato di rendere immortale ciò che per sua stessa natura non lo è: le nostre spoglie mortali.

I loro nomi sono: Giovanni Battista Negroni, Raimondo De Sangro, Girolamo Segato, Efisio Marini, Francesco Spirito e Paolo Gorini.

A Triora, antico borgo del Ponente Ligure, nel corso dell’annuale kermesse di Strigora, con la quale si rievoca il processo per stregoneria del 1587, il male si scatena.

Il paese si trova a fronteggiare masse stralunate di fanatici dell’occulto e un serial killer deciso a trasformare incaute turiste in statue di pietra.

Spetterà a Leonardo Fiorentini, mercante d’arte milanese con il pallino delle investigazioni e nostalgico del Ventennio, risolvere il caso.

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Prefazione
Prefazione “Se sei bello ti tirano le pietre...” cantava Antoine nei pietrificati monumentali anni Sessanta, prima di dedicarsi alla nobile arte di circumnavigare il mondo con la sua barca. Se avesse scoperto prima questa sua vocazione avrebbe intonato, in tempi non sospetti, “Fin che la barca va” anticipando Orietta Berti. Ma ammesso e non concesso che “Se sei bello ti tirano le pietre” è assolutamente innegabile che, se sei bravo ti scrivono le pietre. Pietre tombali che mentre te la spassi sui campi elisi ti consentono una sopravvivenza marmorea nel Pantheon. Unica controindicazione: devi essere morto. Siccome Ippolito Edmondo Ferrario è vivo (e lotta insieme a noi) e prolifico, anziché scrivergli una pietra, una pietra ligure, una piastrella sul celeberrimo Muretto di Alassio, preferisco scrivergli una prefazione. Ora, ogni vero scrittore è afflitto da un’ossessione portante che diventa il suo segno di distinzione, la cifra delle sue iniziali sulla camicia di forza del suo talento. Hemingway aveva un machismo vitale nei confronti della morte (quella degli uomini, dei tori, dei marlin... Non fa differenza), io ho quella dei nani. In ogni mia “storia” infilo almeno un nano anche quando non è propriamente pertinente al contesto. La magnifica ossessione di Ippolito, la sua bellezza di Ippolita è Triora. Triora, borgo ligure che ha anticipato Loudon e Salem nella caccia alle streghe. A Triora Ippolito ha dedicato gran parte della sua combustione saggistica dimostrando di avere il sacro fuoco. Il processo per stregoneria, il delirio inquisitorio, la tortura del femminile innocente non potevano risparmiarsi di diventare lo sfondo di un thriller a ponente della fertile medioevale mente di un umanista come Ferrario. Anzi, parliamoci chiaro, di un illuminista. Ippolito: infatti fa luce. E non solo stavolta su una pagina iniqua della storia, ma sulla malìa che un luogo bello e dannato, come direbbe Fitzgerald, esercita su chi ne è irresistibilmente attratto. Oggi tutti purtroppo sappiamo che l’unico modo sicuro per fare giustizia è scrivere un giallo. Il giallo è consolatorio rispetto al noir perché ci consegna un colpevole. Certo è poca cosa rispetto agli innocenti che hanno pagato per colpe non loro. E allora l’autore non si accontenta. Saccheggia i generi, la storia, la scienza, la letteratura offrendoci un piano trasversale per una verità possibile. Il pietrificatore di Triora inizia come un romanzo pulp, con tanto di mattanza annunciata che sarebbe piaciuta (e non è detto che non piaccia) a Tarantino, prosegue come un’indagine bucolica, nel senso di buco del culo, e agreste che avrebbe deliziato il Pupi Avati de La casa delle finestre che ridono. E si ride in questo romanzo. Almeno quanto si trema. Continua l’inchiesta permettendoci di accedere al mondo dei pietrificatori. Allievi perversi di quel Paolo Gorini che a partire dal 1842 si dedicò alla ricerca di un metodo scientifico che permettesse la conservazione dei corpi, onde evitare l’onta del processo di putrefazione. (Alcuni personaggi di Ippolito sono putrefatti. Ma d’animo!). Gorini non era interessato all’imbalsamazione. Piuttosto alla pietrificazione: la sostituzione di liquidi corporei destinati a solidificarsi nel tempo. Come ci ricorda l’autore, Ippolito, che è uno scapigliato di ritorno “gli scapigliati erano attirati e inorriditi, al tempo stesso, dalla morte. Così come il rovescio della medaglia della pietrificazione fu la cremazione. Niente di più semplice”. La trama de Il pietrificatore di Triora non è per nulla semplice... ma fluida... liquida. Un detective privato, demotivato, viene assoldato per rintracciare la nipote di un facoltoso avvocato maneggione scomparso a Triora. Fino a qui siamo in piena hard boiled chandleriana. Ma Ippolito Edmondo Ferrario non può permettere che il suo detective si accontenti del cliché. E allora eccoci pronti a incontrare le tre teste di Cerbero, don “Venti di Guerra”, ex cappellano militare della Folgore, ambigui direttori del Centro Studi Internazionale sulla Stregoneria, avvenenti e curiose pulzelle in pericolo, orrori della guerra civile, notabili che ai “brutti tempi” si sono fatti pagare per nascondere gli ebrei, salvo poi rivenderli ai nazisti; vecchi saggi e ubriaconi di paese, ma soprattutto Triora. Triora in cui viene organizzato un festival happening per far sì che “la tragedia di secoli prima” (il processo di stregoneria) potesse trasformarsi in una grande opportunità. Un po’ come se a Dachau si fossero messi a vendere ai turisti camere a gas in bocce di vetro...”. È qui che Ippolito Edmondo Ferrario diventa l’unico vero pietrificatore della storia: ti lascia di sasso. Sa restituire umanità e disumanità a chi ha scagliato la prima pietra. “Non è vero che il ricercatore insegue la verità. È la verità che insegue il ricercatore” scriveva Musil ne L’uomo senza qualità e Ippolito di qualità ne ha molte. Mi verrebbe voglia di fargli pietrificare un “mio” nano. A Triora naturalmente! Andrea G. Pinketts

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