2.
Prendo un taxi per stringere i tempi. Purtroppo ho la Vespa dal meccanico e non me la sono sentita di tirare fuori la Citro dal garage. La mia Citroën due cavalli verde pastello, obiettivo prediletto dei miei migliori amici per prendermi in giro, ha il tettuccio di stoffa e ho paura che tutta questa pioggia lo possa danneggiare. Le mie articolazioni al momento reggono l’umidità meglio della mia vecchia compagna di mille viaggi.
In meno di dieci minuti arrivo al ristorante cinese dove ci eravamo dati appuntamento. È il preferito di Margareth, mia figlia. Lei adora gli involtini primavera e il riso cantonese, li mangerebbe tutti i giorni. E soprattutto lo farebbe sempre in questo posto. Quando arrivo a tavola, Margie ha già tutta la faccia affondata in una scodella di riso. Mi vede, si alza e mi viene incontro correndo e urlando “Papi!”, poi mi si butta al collo. È un miracolo che non mi si sia staccata una vertebra cervicale. La sollevo, mi perdo nei suoi occhi grandi e curiosi e la tempesto di baci sulle guance, poi ci sediamo a tavola. Barbara mi sorride con la solita dolcezza e senza mascherare l’affetto che continua a provare per me.
“Vi chiedo scusa”, le dico. “Ma ero in Questura e non mi sono reso conto dell’ora”.
Lei socchiude gli occhi, scuote un po’ la testa e risponde “Non ti preoccupare”. Non capisco se è un “Non ti preoccupare, davvero, l’importante è che tu sia qui” oppure se suona più come “Non importa, tanto sei irrecuperabile e inaffidabile come al solito”. Sia come sia, non credo valga la pena togliermi questo dubbio a stomaco vuoto.
Durante la cena Margie monopolizza la nostra attenzione. Adesso fa la prima elementare, mi racconta tutta fiera del disegno che ha fatto a scuola e vuole a tutti i costi un pezzo di carta e una penna per farmi vedere come scrive bene. Io e Babe scherziamo, la prendiamo un po’ in giro per come si ingarbuglia nel fare la effe in corsivo.
“Sei tutta papà, amore”, dice Barbara. “Hai una scrittura che ricorda le zampettate di una gallina nel fango”.
Margie, dopo due involtini primavera e altrettante porzioni di ravioli al vapore, inizia a sbadigliare e la testa le ciondola. Sono le nove passate, forse è meglio portarla a dormire. Pago, Babe e la nana mi aspettano dalla porta del ristorante. Adesso non piove più, ma l’aria è fredda e umida.
“Sei a piedi?”, mi chiede Barbara.
“Sì. Come hai fatto a capirlo?”.
Lei ride.
“Non vedo la tua Vespa nel raggio di tre metri. Conoscendo la tua pigrizia, vuol dire che non sei venuto in moto. E con ’sto tempo mi gioco un rene che la Citrò l’hai lasciata nel box”.
“La sua logica deduttiva è come sempre impeccabile, signora Moretti”.
“Vuoi un passaggio? Ho la macchina qui nel silos vicino a piazza De Ferrari. Ti porto su a casa”.
“Volentieri”.
Percorriamo insieme i pochi metri che ci separano dalla sua auto. La strada a piedi non sarebbe lunga per arrivare su a casa. Eppure mi fa piacere scherzare ancora un po’ con Margie, che non vedrò fino a domani. Appena saliamo in macchina, la nana crolla. Barbara mi porta sotto casa. Controlla che nostra figlia dorma e spegne il motore.
“Ora è la mia di logica che salta fuori”, le dico.
“In che senso?”.
“Che hai spento il motore. Vuol dire che mi devi parlare. Quando uno lo fa significa sempre che c’è un seguito in arrivo. Di solito chi sta per andarsene non perde tempo a girare la chiave. Nemmeno se ha la tessera di Greenpeace. O sbaglio?”.
Lei respira a fondo.
“No. Non sbagli. È che non so da dove partire, ecco”.
“Di solito, il sistema migliore è cominciare dall’inizio”.
Babe si prende una pausa. Inspira a fondo e poi soffia.
“Matte. Ho iniziato a vedermi con uno, ecco. Mi sembrava giusto che tu lo sapessi”.
La notizia mi blocca. Mi sento come se un raggio paralizzante alieno mi avesse appena colpito. Impiego qualche secondo a riprendermi. Lei mi guarda, aspetta la mia reazione.
“Ah. Forte. E posso sapere chi è?”.
“Lo conosci. L’hai visto qualche volta a scuola. È il papà di un’amichetta di Margie. È separato dalla moglie”.
Mi sembra di giocare a Indovina chi. Non faceva prima a dirmi chi è? Scorro a mente il casellario “genitori della scuola” e mi fermo su una scheda ben precisa.
“Non mi dire che è quel coglione dell’ingegner Mauro Agnese, il papà di Sofia”.
Barbara muove la testa su e giù a occhi chiusi.
“E ci sei già andata a letto?”.
“No, scusa. Chiedimi quello che vuoi ma non questo. Non ho intenzione di risponderti”.
“E perché mai? Mi sembra una domanda legittima”.
“È legittima per il tuo ego maschile. Ti dico che mi vedo con uno e l’unica cosa che ti interessa è sapere se ha già invaso il tuo vecchio territorio. E poi? Che cosa mi chiedi anche? Se mi è piaciuto? Se è meglio con lui o era meglio con te? Tiri fuori pure il cronometro e le schede di valutazione? Dai, sei patetico”.
“Ti sei dimenticata il metro. Il metro è fondamentale fin dalla prima media. Volevo solo sapere a che punto siete”, commento io. “Tutto qui”.
“Come vuoi. No, non ci sono ancora andata a letto. Potevo, ma non l’ho fatto. Mi sento bloccata, capisci? Sono più di sei anni che un uomo non mi tocca. Un uomo che non sia tu, ecco”.
“Ma succederà prima o poi”, commento.
“Non lo so. Davvero. È tutto così strano, tutto così confuso”.
“Babe, sei tu che hai voluto andartene di casa. E sei sempre tu che non hai voluto ricominciare”.
Lei si batte la mano sulla coscia e sbuffa. Mi guarda con gli occhi velati e la voce che combatte con il magone.
“E che cosa dovevo fare? Mi hai tradita. Ma non solo perché sei andato a letto con quella donna. Il tuo è un tradimento più profondo. Mi hai mentito. E ti sei preso gioco di me”.
Il mio pensiero va a Clara Manzini, la donna a cui si riferisce Barbara, e il mio cuore risponde con una martellata in pieno petto. È stata per un periodo la direttrice del mio giornale. In realtà Clara non è una giornalista. È una manager, una cacciatrice di teste che aveva ricevuto dall’editore l’incarico di tagliare i costi del giornale, oppure di liquidarlo e accorparlo a una testata milanese.
Io e Clara siamo stati amanti per un breve periodo, poi lei se n’è andata per due buoni motivi. Il primo porta il mio nome e cognome. Il secondo, sono le mie indecisioni. Ma ha consigliato all’editore di tenere il giornale aperto e nominare me direttore. E così è avvenuto.
“Hai ragione. Ma io ti ho chiesto perdono”, le rispondo.
“Ah beh. Mi sembra il minimo sindacale, no?”.
“E fammi parlare. Ti ho pregato di ripartire. In ginocchio, Babe. Abbiamo sbagliato entrambi, avremmo dovuto imparare dai nostri errori. Me l’hai insegnato tu a trasformare il veleno in medicina, come dice Buddha”.
Barbara prende fiato.
“Oh, andiamo Matteo. Non ricominciamo. Ma sai che non è il tradimento il problema, ecco. So come sei fatto, so come ragioni. Non sei uno che si toglie i pantaloni, fa sesso e poi torna a casa. Lo avrei accettato. Sarei stata male, ma ti avrei perdonato. Tu sei uno che imbastisce legami mentali, crea dipendenze. È questo quello che mi fa male. E quando ci penso mi sale la rabbia e mi dimentico di…”.
“Di?”.
Barbara sbuffa, una lacrima rotola giù per la guancia e si spande sui suoi pantaloni.
“Di essere ancora innamorata di te”.
Io abbasso gli occhi, resto in silenzio. Vecchie ferite che credevo cicatrizzate di colpo tirano e si lacerano, fanno male. Sanguinano ancora e gettano la mia mente nella confusione. Sto per rispondere, ma Babe riaccende il motore.
“Dai”, mi dice. “Margie è stanca, se si sveglia ora pianta una filippica che non finisce più. E io ho mal di testa”.
“Stavamo parlando però”.
“Sì. Di cose che se non sei scemo sai già. E hai tanti difetti ma non sei un idiota. Va’, per favore. Che se stai ancora qui mi viene voglia di baciarti, salire su e scopare tutta la notte con te”.
La testa mi gira, mi lancio su Barbara e la bacio. Sento il profumo della sua pelle, il suo respiro. Mi allontana con delicatezza e gira la testa. Io sospiro e mi lascio scappare un “Wow”. Subito dopo sento la testa in confusione, come se tutti questi mesi di separazione non fossero passati. Babe mi ribadisce un “Dai, ci sentiamo”, e mi sorride. Non voglio forzare la mano. Anche perché non so se è ciò che voglio davvero.
“Certo che un imbecille come Agnese...”, le dico.
Lei sorride.
“Dai, non è così male. È solo un bambinone. Con un gran cuore, sai?”.
“Un nerd, vorrai dire. E poi qui a Genova si dice così. Grande, grosso e abelìnato. Con quel ciuffo nero, i dentoni che sembrano rifatti e pure male. E l’hai mai sentito ridere? Sembra un incrocio tra un cammello e una foca”.
Babe scuote la testa e accenna un sorriso. La bacio ancora sulle labbra, vorrei stringerla e prolungare questo momento, ma si ritrae. Io scendo dalla macchina, guardo lei e Margie che fanno inversione e se ne vanno. Appena la macchina di Barbara sparisce dalla vista, la confusione dentro di me aumenta e non ho più voglia di andare a casa. Ho bisogno di sgranchirmi le gambe.
Mi volto per imboccare il vicolo che porta in piazza Dante. Dalla salita di mattoni rossi vedo un’ombra addossata al muro. È immobile, mi fissa. Mi fa un fischio e mi fa cenno di avvicinarmi. Io indietreggio, tiro fuori le chiavi di casa e sto per aprire il portone.
“E nun fa’ lo stronzo, Mattè e vieni qui. Che non te mozzico mica, e che cazzo!”, dice l’ombra. Un tuffo al cuore, un’esplosione di gioia nel petto. Conosco troppo bene quella voce: l’ombra appartiene al vicequestore Guido Rocchetti.