Capitolo 3

574 Words
3. Corro incontro a Guido, a dire il vero mi butto addosso a lui. Lo abbraccio e lo stringo forte. Mi sento come qualcuno che è convinto di aver perduto per sempre un amico e se lo trova davanti all’improvviso, scoprendo che era tutto un malinteso, Guido ricambia la mia stretta, poi mi dà una sberletta sulla guancia. Mi fa segno di stare zitto. Mi fruga nelle tasche come se mi perquisisse, tira fuori il mio Nokia 3310 ed estrae la batteria. “Te vedo bene, brutta testa de cazzo”, mi dice. Appena mi abituo alla penombra lo riesco a vedere meglio: si è rasato i capelli a zero, è dimagrito di parecchi chili e porta un invidiabile pizzetto ossigenato. Del mio amico vicequestore riconosco solo il naso aquilino e gli occhi neri, urticanti e fieri. “Brutto no, dai”, gli rispondo. “E poi detto da un pelatone col pizzetto biondo fa ridere, sai?”. “Qualcosa mi dovevo pur inventare per non farmi pizzicare Mattè”. “Ma non eri al Sud?”. Guido sorride beffardo. “E chi c’è mai stato?”, mi dice. “Ah. Perché Salvaneschi su in Questura diceva che...”. “Che sono prevedibili come la pisciata di un cane al mattino, i miei colleghi. Ecco cosa. So come ragionano. È più forte di loro”. Per un istante riprende la sua risata di sempre. Poi si cheta di colpo, e tra le rughe del suo viso calano di nuovo le preoccupazioni. “E quindi? Dove sei stato? Che hai fatto?”, gli chiedo. “Sempre qui a Genova. Poi te spiego bene. Ogni cosa a suo tempo, Matté”. Rocchetti si guarda in giro, non c’è nessuno al momento. L’unico testimone del nostro incontro è un gatto nero con il collarino rosso, che cammina placido sulla sommità di un muretto senza curarsi di noi. “Ora è meglio se mi levo da qui però”, mi dice. “Sono venuto solo perché devo chiederti un po’ di grana per continuare a nascondermi. Sparire costa più che pagare un affitto”. “Ma aspetta. Dove vuoi andare? Vieni su da me. Almeno per stanotte”. “Negativo. È troppo pericoloso per entrambi. E non temo solo gli sbirri, lo sai bene. Anzi. Loro sono l’ultimo dei miei problemi adesso”. “Ormai sei qui. Una notte sola. Poi domani pensiamo al da farsi. Hai proprio l’aria di uno che ha bisogno di un letto vero. E a giudicare dall’odore, anche di una doccia”. Guido esita, si gratta il pizzetto. Si fruga nelle tasche, impreca un santo di qualchecosa a me sconosciuto e termina con un “Vaffanculo!”. “Cerchi le Emenems?”, gli chiedo con un sorriso affettuoso. “Sì. Non ne tocco una da giorni porca troia. Sto così in astinenza che quasi quasi mi accendo una sigaretta. E poi sai che senza ragiono male”. “Domani te ne compro un espositore intero. Ma ora vieni su a casa”. Mi guarda ancora, in silenzio, sempre trafficando con le dita nel pizzetto. “Te la senti sul serio?”, mi chiede. “Sì”. “E sta bene. Tu però adesso va’ avanti. Io arrivo tra poco”. “Ma non possiamo andare su assieme, scusa?”. Guido ghigna e fa “no no” con l’indice. Con lo stesso dito mi indica la telecamera sulla strada, a pochi metri da noi. “Devo passare lì sotto, Mattè. Ed è meglio se lo faccio da solo. Sanno della nostra amicizia. Se ti vedono circolare con qualcuno che non conoscono e che corrisponde alla mia taglia potrebbero insospettirsi. Ci troveremmo gli sbirri in casa in men che non si dica. Lascia fare a me”. “Ok, ok. Allora io vado”. Mentre mi incammino, Guido mi tira verso di lui. “Aspetta. Va’ giù in fondo alla salita. Prendi un pacchetto di siga giù all’automatico. Poi mentre torni su accendine una e fa’ qualche tiro sotto la telecamera”. “Sei paranoico forte, lo sai?”. “Po’ esse. Ma non sono ancora al gabbio. E vuol dire che proprio tutti i torti non ce li ho”.
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