Capitolo 4

1330 Words
4. Una volta a casa passo dieci minuti a strofinarmi denti e lingua con lo spazzolino per togliere il saporaccio di quelle tre boccate di sigaretta: mi sento come se avessi masticato un posacenere pieno. Da quando ho smesso sono diventato il tipico ex fumatore. Detesto quell’odore addosso e non perdo occasione per rompere le balle a chi fuma ancora. Sento bussare alla porta, tre colpi appena accennati. Faccio entrare Rocchetti, che si muove furtivo sul ballatoio e quasi striscia in casa. Una volta dentro, smorza il mio “Benvenuto” tappandomi la bocca e inizia a rovistare in casa. Assomiglia a un cane che raspa nella sabbia, una di quelle bestie randagie con occhi invetrati e zampe frenetiche mentre scavano una buca. Solo che al posto della sabbia ci sono le mie librerie e il divano del soggiorno. Quando è tutto per bene all’aria tira un sospiro di sollievo. “Casa tua è pulita, Mattè”, mi dice. “Non avevo dubbi, sai? Bastava chiedermelo. In casa non è più entrato nessuno se non Margie e Barbara”. “E sticazzi? Ho fottuto gente molto più furba di te”. “Non lo metto in dubbio. Ma tu sei tu, e Salvaneschi non mi sembra così in gamba”. “Sta’ attento Matté. Non lo sottovalutare. È uno stronzo, me sta simpatico come un morto in casa e non vedo l’ora di mandarlo a mettere timbri sui permessi di caccia. Ma è pericoloso. Come ogni uomo che vuole fare le scarpe ai suoi colleghi”. Guido sistema il divano, rimette a posto uno dei cuscini che aveva divelto e vi si siede sopra. Reclina la testa indietro, chiude gli occhi e allarga le braccia. Sembra pensare “finalmente un po’ di riposo”. Invece di addormentarsi, di colpo, spalanca gli occhi e la bocca. “Cibo, Mattè. Cibo”. “Ah, certo. Stavo giusto per chiedertelo. Niente pesce crudo però, ti avverto. Ti devi accontentare di quello che c’è. Ma ho anche del fantastico roast beef di mia madre”. “A Mattè. E daje. Piuttosto che mangiare carne rossa me faccio consumare lo stomaco dalla fame. Vabbè, ho capito. Faccio da solo”. Guido si alza e dopo aver raspato per casa ripete l’operazione con il frigo. Sembra un unno che saccheggia Roma: si divora tutti i pomodori, un pacco di surimi che conservavo per l’insalata, una scatoletta di tonno già aperta. Poi tracanna una Schweppes. Colgo la sua insoddisfazione nello sguardo. Non contento, apre l’anta a fianco del forno e si cala mezzo pacco di biscotti al cioccolato e un brick di succo di frutta alla pera che avevo comprato per Margie. Un rutto liberatorio, seguito da un soddisfatto e prolungato “Ah!”, segnano la fine del saccheggio. Il vicequestore Rocchetti si riaccomoda in sala. “Allora?”, gli dico. “Non credi sia arrivato il momento di raccontarmi qualcosa?”. Guido annuisce. Lo vedo esitare con la mano verso il pacchetto di Camel che ho acquistato poco fa. Penso che senza emmemems potrebbe essere capace di cremarne tre di fila. Grazie al cielo si trattiene, sospira e si gratta il pizzetto. “Sono riuscito a tagliare la corda prima che mi pizzicassero”, mi dice. “Ho dovuto pensare in fretta, molto in fretta. Ho avuto l’idea di chiamarti, sapendo che il mio telefono era sotto controllo e che si sarebbero bevuti la panzana. Mi spiace averti infilato in ’sto casino. Ma tanto ti avrebbero interrogato lo stesso”. “Non ti preoccupare, amico. Se penso a tutte le volte che ti ho infilato io in un casino marchiato De Foresta...”. Lui sorride gongolante, annuisce e riprende il discorso. “Poi, sono riuscito a spedire la mia carta con due righe di istruzioni a un mio collega, giù al Sud. È come un fratello per me e sapevo mi avrebbe aiutato. Gli ho detto di fare uno o due prelievi da un bancomat, e di farsi una bella cena con la famiglia alla faccia mia”. Si mette a ridere, anche se gli occhi si velano per un istante di malinconia. “Sapevo che ci sarebbero cascati”, aggiunge con un sospiro. “E dove ti sei nascosto? Che hai fatto insomma?”. “Eh, Mattè. Se sei uno sbirro conosci un sacco di posti dove eclissarti. Rifugi dei barboni, sottopassi abbandonati. Locali sottoposti a sequestro e ormai dimenticati. Stacchi il sigillo, lo riattacchi per bene, e nessuno te se fila”. Guido abbassa lo sguardo, sbuffa e si stropiccia gli occhi per fermare le lacrime. “Comincio a essere stanco, Matté”. Provo una gran voglia di abbracciarlo ancora. Non ho mai visto così il vicequestore Rocchetti; e dire che lo conosco da almeno dieci anni. Ma proprio perché so con chi ho a che fare, sono consapevole che le frasi “Tranquillo, andrà tutto bene” oppure “Vedrai che tutto si sistema” sarebbero inutili quanto le dimostrazioni di affetto. “Ora non ci pensare”, gli dico. “Ora sei qui, al sicuro. Hai un tetto, il frigo pieno e pure una doccia. E credo che ti serva alla svelta visto il tanfo che emani”. Guido sorride, si annusa le ascelle e termina quell’operazione da lord inglese con una smorfia di disgusto. Poi si alza e viene ad abbracciarmi. Mi sembra di scambiare effusioni con un bidone della spazzatura. Mentre mi stringe, sussurra un “grazie” che suggella aumentando la stretta. Dentro c’è tutta la gratitudine che il grande cuore di questo omone testardo è in grado di provare. Rocchetti inizia a camminare avanti e indietro per la stanza. Compie lo stesso giro più volte, descrivendo a ogni passaggio un cerchio quasi perfetto attorno al tavolino di fronte al divano. “Non posso stare qui, Matté. È troppo pericoloso per entrambi. Devo trovare un’altra soluzione. Fammi fare una doccia, prestame un po’ de grano e io sparisco”. “Non se ne parla nemmeno. Ci penseremo domani, caso mai, vicequestore Rocchetti. E forse la soluzione migliore sarebbe trovare chi ti ha incastrato”. “Ma pensa te. Eh, e bravo il mio giornalaio di ’sto gran cazzo. Che credi abbia fatto in ’ste settimane? Solo giocato a nascondino con i miei colleghi?”. “Ecco. Allora, da bravo, adesso mi aggiorni sulle tue scoperte”. Guido scrolla la testa a occhi chiusi. “Manco per il gran cazzo di Budda”, mi dice. “Abbiamo fatto un accordo. E tu mi avevi promesso che non ti saresti più interessato al caso. No”. “Mi sembra che le condizioni siano cambiate, sai? Come quando vai in banca, firmi per un prestito e dopo qualche mese ti mandano sempre la lettera per la revisione degli accordi. Tu hai bisogno di aiuto e quindi il patto non vale più. Io ci ficco il naso e tu canti”. Guido accelera il ritmo dei giri attorno al tavolino. Sembra un grosso squalo pigro che si è svegliato di colpo e frulla attorno alla vittima. Si blocca dopo qualche ulteriore giro di fronte a me e sgrana gli occhi, puntandomi il dito contro. “A Mattè. Decido io se il patto vale ancora oppure no. E io ho deciso che vale ancora”. Mi alzo pure io, gli vado incontro fino a che non siamo faccia a faccia. L’odore di spazzatura che lo circonda mi prende alla gola, ma resisto. “Perfetto. Come vuoi. Ma domani ti giuro che ricomincio a lavorarci. E da solo”. Gli faccio l’occhiolino e arretro di un paio di passi, giusto per evitare una testata o morire per le esalazioni. “Un nuovo casino marchiato De Foresta in arrivo”, aggiungo, sorridendogli beffardo. Lui inizia a respirare così a fondo che le narici si dilatano come quelle di un toro. Diventa anche paonazzo. “Che grandissimo figlio de ’na grandissima mignotta che sei, Mattè”. “E tu sei un burino, testone e orgoglioso. Incapace di guardare oltre quella proboscide che ti ritrovi, comunemente detta naso per gli esseri normali. E dire che è bella grande, per l’appunto”. “È troppo pericoloso. Lo vuoi capire Mattè? Se ti accadesse qualcosa non me lo perdonerei mai”. “Lascia che sia io a scegliere. Cazzo, Guido, mi hai salvato la pelle due volte. Te lo devo”. “Non mi devi un cazzo, non mi devi. È il mio lavoro quello. Lo capisci? Il tuo è scrivere. Scri-ve-re”. Lo osservo in silenzio mentre sciorina nuove imprecazioni in romanesco che coinvolgono i miei antenati e pure i suoi. “Hai finito?”, gli chiedo. “Non sei nelle condizioni di fare tutto da solo. E lo sai”. Guido impreca ancora, sbuffa, tira un pugno al muro. Si lascia scappare un “Ahia! Cazzo!”, e si tiene la mano. Poi sospira e abbassa le spalle. Ecco, alla fine, la resa. “Raccontami che cosa hai scoperto”, dico io. “E ti prometto che starò attento. E farò solo quello che dici tu”. Guido si sistema di nuovo sul divano e sospira. “Ho scoperto che cosa voleva dire Bob. Ho scoperto il significato di Wehrmacht”.
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