6.
Guido si chiude in bagno per quaranta minuti buoni. Per almeno trenta l’acqua scroscia e lui fischietta. Penso che dovesse avere un sacco di sporco accumulato e me lo immagino come un grosso ippopotamo che ruzzola nello stagno in mezzo alla giungla.
Quando esce, con l’asciugamano attorno alla vita, mi viene da ridere. Mi ricorda sempre un ippopotamo, ma quello azzurro della pubblicità dei pannolini.
“Eh, so’ proprio contento che te fai du risate alla faccia mia, sai?”, mi dice mentre sbatte la testa di lato sulla mano, per far uscire l’acqua dall’orecchio.
Gli spiego la storia dell’ippopotamo e lui si limita a un “See, see”, stropicciando un mezzo sorriso. Tira un sbadiglio e stira la braccia. Mi guarda, socchiude gli occhi a fessura e mi punta l’indice.
“Senti un po’, che ora me faccio du’ padellate de cazzi tua. Ma con Barbara?”.
Io sorrido.
“Come un mese fa. Non stiamo più assieme e lei adesso si vede con un altro”.
“E nun me coglionà, che vi ho visto in macchina. Era quasi un’ora che t’aspettavo, Mattè”.
“Nulla sfugge al braccio violento della legge”.
“Al braccio violento de stocazzo, caso mai. Allora? C’hai voglia o no de raccontarmi?”.
“Così così. Cioè, sì. Nel senso che non è che ci siano novità. Era solo un bacio d’affetto”.
“See, ciao core. Vabbè, ho bello che capito. Non c’hai cazzo de raccontà”.
“Ma no, Guido. Davvero. Mi aveva appena detto che, sì, insomma. Ha una mezza tresca con questo tipo. Che è uno della scuola di Margie”.
“Un bambino?”.
“Scemo. Un papà. Un coglione calzato e vestito tra l’altro”.
“E tu hai subito tirato la lenza, eh Mattè?”.
“Che lenza?”.
“Hai subito tirato il filo sulla tua presunta proprietà. Il pesciolino scappa e tu strattoni”.
Io abbasso lo sguardo e fisso un piccolo gomitolo di polvere che vaga per il pavimento sospinto dalla corrente della finestra.
“Sono ancora confuso, Guido. L’idea che Babe abbia uno mi fa… ecco, mi sento strano”.
“Eh, e io che ho detto? Non si tocca la roba di Matteo De Foresta”.
“Sei fastidioso”.
Guido se la ride e mi addita di nuovo. Prima o poi quell’indice glielo morderò, lo so.
“Perché ho colto nel segno, bello de zio. Finché Barbara era lì, illibata e candida, non ti sarebbe mai venuto in mente di baciarla. E invece ecco che spunta un tipo e a Mattè va subito il cervello in puzza. E tira fuori il certificato di proprietà”.
“Di nuovo? Non stanno così le cose, non insistere. Notte, Rocchetti. Era meglio se ti lasciavo nel vicolo”.
“Vuoi che la smetta?”.
“Sì”.
Mi alzo, apro uno dei cassetti in camera mia e tiro fuori una vecchia maglietta con la faccia di Ho Chi Minh e il paio di mutande più piccole che ho. Due simpatiche vendette che trovo molto appropriate. Lancio la roba a Guido, che la indossa. Prima di farlo si sofferma per un secondo sulla maglietta, guarda la stampa e scandisce un improperio. Poi si gratta il pizzetto, mi viene vicino e mi posa la mano sulla coscia.
“E invece sai che c’è? Che io continuo. Perché ve vojo bene. A te, a vostra figlia e pure a Barbara. Che se merita di rifarse ’na vita”.
“Ho capito, ma ti ripeto che…”.
“E famme finì, Gesù bambino bello. Merita di rifarse na vita, stavo a dì. Ma tu no, non vuoi. E non solo incasini il tuo, di cervello. Pure quello suo. E quello della creatura. Basta Matté, basta. Mettice una pezza”.
Io sbuffo, sto per ribattere, ma Guido mi parla sopra.
“E dimme la verità Mattè. Vorresti riaverla? Ora? Riusciresti a pensare solo a lei? È davvero ciò che vuoi?”.
“Non lo so, cacchio. È mezz’ora che te lo dico. Sono confuso”.
“Ma prima che ti parlasse del tipo a scuola? Eri confuso allo stesso modo? E poi te faccio ’na domanda. Ed evita de cojonarme con la prima fregnaccia che ti attraversa la testa”.
“Dimmi”.
“Pensi ancora alla milanese?”.
Io quasi salto sul divano, come se il cuscino fosse stato elettrificato di colpo. Appena Guido finisce la domanda, gli occhi di Clara Manzini irrompono nella mia testa. È come se di colpo le spesse nubi grigie che coprivano tutto fossero state spazzate via da un uragano e la luce del sole esplodesse. Accecandomi e ferendomi gli occhi. Clara è stata la mia amante quasi un anno fa. Era la responsabile pro tempore del mio giornale, colei che ha risanato il giornale, che mi ha indicato all’Editore quale direttore. Che è scappata da Genova perché si era innamorata di me e non sopportava la mia indecisione, al punto che era meglio fare a meno della nostra relazione piuttosto che vivere in quel limbo doloroso.
“Tutti i giorni. Tutto il giorno. È come se io avessi una spina sotto il piede che ha formato un granuloma. E ogni volta che faccio un passo mi manda una fitta, ricordandomi che c’è. Contento?”.
Guido strizza gli occhi e annuisce, mi dà una pacca sulla spalla e sospira.
“No, non lo sono. Sai che la penso in modo diverso da te. Sono all’antica, Mattè. Che ce voi fa’?”.
Alzo gli occhi al cielo e rispondo con voce monocorde.
“Sì, sì. Non ci si separa, la famiglia è sacra”.
“Una cosa del genere. Ma non mi far passare per una specie di bacchettone che non capisce niente a tutti i costi e che manco guarda la realtà. Io dico solo che se prendi un impegno devi fare di tutto per portarlo a termine. Soprattutto se ti assumi le responsabilità anche verso chi non ne può nulla. Come quella creatura che avete messo al mondo”.
“I figli sono felici se i genitori sono felici, Guido”.
Rocchetti enfatizza la risata di risposta.
“Bella cazzata, Matté. Peggio cosa nun me potevi rispondere, sai? Perché sta tutto qui il punto. Il problema è proprio che felici, tu e Barbara, non lo siete”.
Resto in silenzio. Il mio amico piranha, quello che vive nel mio stomaco e si sveglia quando le cose nella mia vita vanno a ramengo, quello che adora cibarsi della mia mucosa gastrica a piccoli brandelli facendomi un male cane, inizia il suo fastidioso banchetto.
Guido scuote la testa e invoca una madonninadiqualchefocolaresacro, poi mi dà un sberletta.
“Va’ da lei, cojone. Vattela a prendere ’sta milanese se proprio ce tieni e prova per una volta ad essere felice, no?”.
“La fai facile tu”.
“Già. Perché lo è. Tu pensi a lei. Vuoi lei. Dove sta il problema?”.
“Il punto è che sono passati mesi. Sono sparito, mi vergogno come un ladro. E ho anche paura che lei... Che lei si sia dimenticata di me. E so che soffrirei il doppio. Perché mi sentirei un perfetto imbecille”.
“Tu chiamala. Che sapere le cose, anche quelle che non ci piacciono, farà male, ma sempre di meno di quanto ce ne facciamo da soli raccontandoci questo e quello, Mattè. E poi, sentirte più imbecille di così… pensi a una tutti i giorni, non la chiami, soffri come una bestia. Ma appena la tua ex te parla de uno la baci e te fai venire i dubbi… no, no. Credime. Più imbecille de così sta proprio impossibile”.
Si alza, si stiracchia come un gatto obeso e sbadiglia.
“Però famo domani”, aggiunge. “Che mo’ c’ho bisogno de dormì. E tu pure, me sa”.
Io annuisco, mi alzo con una piva lunga fino a terra e mi dirigo verso la camera.
“E dai, Mattè. E nun fa così”, mi dice. “Pensa che c’è de peggio nella vita. Pensa in che bordello sto io. Magari il mio problema fosse solo la fregna. Sarei già capo della Polizia”.
Lui se la ride di gusto e provo a fare altrettanto, ma il massimo a cui arrivo è un accenno di sorriso. Eppure Guido ha ragione.
“Grazie, vicequestore. Sono contento di avere un amico come lei. E per una volta lo dico senza ironia”.
“Grazie? Ma sei scemo? Grazie a te. Che mi ospiti. Che rischi dei guai grossi per aiutarme. Che sei nel solito casino marchiato De Foresta. Solo che stavolta ti ci ho spinto io. Ah, ma non sono ancora convinto, eh?”.
“Lo sono io. E tanto mi basta”.
Guido si accomoda sul divano con un “vedremo” e si gira sul fianco. Tempo di chiudere la porta della mia camera, lo sento già russare. Io mi butto sul letto, fisso il soffitto per mezz’ora buona con le mani incrociate dietro alla testa. Provo a pensare a Wehrmacht, a quello che dovremo fare nei prossimi giorni. A quale sarà il modo giusto per muoverci. Il piranha, però, mi ricorda che sono tutti futili tentativi. E quando alla fine il sonno sta per vincere la sua battaglia contro le mie inquietudini, mi sembra di sentire il braccio di Clara che mi avvolge e mi tiene stretto per accompagnarmi nel buio. Una carezza soffice e calda che placa il cannibale nella pancia e mi permette di riposare.