Preludio (e Applausi)-2

2024 Words
Ci sono insomma applausi dai mille significati: possono valere come gesto liberatorio o come un segnale di partecipazione, un’esortazione ad imitare o condividere. Ma da dove ha origine l’applauso? Nell’antica Mesopotamia gli applausi servivano a coprire le grida delle vittime sacrificali durante i riti religiosi. Incontriamo testimonianze dell’applauso già nel libro dei Salmi (XI secolo a.C.), in cui si legge quest’esortazione: “Popoli tutti, battete le mani! Acclamate Dio con grida di gioia”. Come gesto di approvazione l’applauso fu formalizzato nel V secolo a.C. in Grecia: vestiti a festa, per lo più di bianco, i quattordicimila spettatori del teatro di Dioniso davano chiassosamente sfogo alle loro emozioni, tra scoppi di pianto per pezzi di bravura eccezionale, scrosci di applausi, grida e battito di piedi. Inoltre Plutarco non manca di riferire che nell’apella – l’assemblea generale dei cittadini di Sparta – i nomi applauditi più lungamente o con maggior energia erano eletti nel consesso giuridico degli efori. I Romani non erano da meno: “Quando un uomo viene azzannato, quando urla e scuote la polvere, nei loro occhi non c’è più pietà e con gioia battono forte le mani se vedono schizzare il sangue”, raccontava nel IV secolo il vescovo di Costantinopoli, Gregorio di Nazianzo. Il comportamento dei cittadini romani dinanzi alle esecuzioni pubbliche nell’arena, ai giochi e ai combattimenti fra gladiatori, era incontrollato: l’applauso, unito al pestare i piedi, era molto rissoso e l’entusiasmo spesso così scomposto da arrivare alla violenza. Al punto che l’imperatore Augusto si vide costretto a disciplinare gli applausi, istituendo un moderatore che doveva dare agli spettatori un segnale di inizio. A teatro, poi, il rozzo e distratto pubblico romano andava unicamente perché l’ingresso era gratuito, e il più delle volte si annoiava. Perciò, nel I secolo, erano gli stessi autori delle commedie, a spettacolo concluso, a ricordare “Nunc, spectatores, valete et nobis clare plaudite” (“Ora, spettatori, a voi arrivederci, e a noi un bell’applauso”). Tra la fine della Repubblica e l’inizio dell’epoca imperiale, l’importanza dell’applauso si trasferì dall’ambito teatrale a quello politico: i Cesari, vere primedonne sulla scena dell’Urbe, ne avevano bisogno proprio come gli attori. Il motivo era lo stesso per cui i politici moderni hanno bisogno di followers su i********: e di like su f*******:: la ricerca del consenso popolare. Svetonio, nelle sue Vite dei Cesari, riferisce che Ottaviano Augusto, morendo a Nola nel 14 d.C., aveva detto ai presenti: “La commedia è finita. Applaudite!” (“Acta est fabula. Plaudite!”). Il retore e politico Cicerone, in una lettera stilata intorno all’80 d.C., scriveva che “i sentimenti del popolo romano si mostrano meglio nel teatro”: aveva infatti preso appunti sulla quantità e la qualità degli applausi che ogni personaggio pubblico riceveva al suo manifestarsi. Secondo il suo parere, il popolo comunicava chiaramente per mezzo dei suoi applausi, e il loro volume, ritmo e durata descrivevano meglio di un exit poll gli umori della plebe e le fortune del politico cui erano diretti. Anche per questo a Roma c’erano diversi modi di applaudire: con i palmi delle mani, come facciamo oggi, ma anche schioccando pollice e indice, oppure scuotendo il bordo della toga. Quest’ultimo metodo fu rimpiazzato nel III secolo dallo sventolare dell’orarium, un fazzoletto usato dai benestanti per proteggere la bocca e naso dai cattivi odori dell’Urbe, ma che per primo l’imperatore Aureliano fece distribuire ai cittadini affinché “non fossero mai sprovvisti di un modo per lodarlo”. Intorno al 250 d.C. il vescovo di Antiochia di Siria, Paolo di Samosata, propose ai fedeli di utilizzare in modo simile un telo di lino durante le sue prediche: in meno di due secoli gli applausi ai predicatori più noti diventarono una consuetudine. Insomma, tutti, dagli attori agli imperatori, passando per gli uomini di Chiesa, avevano bisogno che l’approvazione del proprio pubblico fosse palese. Non sorprende, quindi, che cercassero di procurarsela a tutti i costi, persino pagando. Già nell’antica Grecia, drammaturghi e attori preferivano poter contare su un minimo applauso garantito: racconta ancora Plutarco che alcuni commediografi si procuravano un gruppetto di persone adeguatamente retribuite, le disponevano per tutto il teatro e le istruivano sui punti della commedia in cui far partire sentiti battimani. A Roma, invece, operavano i laudiceni, uomini disposti a offrire il loro plauso a chiunque in cambio di denaro: alcune compagnie teatrali ne assumevano per manipolare la reazione del pubblico, prolungare gli applausi o fischiare gli spettacoli dei rivali. E da bravi “attori” della politica, gli imperatori facevano lo stesso, per evitare imbarazzanti silenzi al loro passaggio tra la folla. Nerone arruolò, pagandoli quattrocentomila sesterzi ciascuno, più di cinquemila fra giovani cavalieri e prestanti plebei: il loro compito era quello di battere le mani durante le sue esibizioni canore. Per svolgere al meglio il proprio lavoro, nessuno di loro portava anelli alla mano sinistra: l’imperatore infatti era un tipo esigente, non si accontentava di normali applausi. Pretendeva quelli che aveva sentito mentre era in viaggio ad Alessandria d’Egitto: “i mattoni”, “le tegole” e “le api”. I primi erano applausi a palmo aperto, per i secondi bisognava incurvare le mani più o meno secondo la forma della tegola romana, mentre il terzo era una specie di brusio fatto a bocca chiusa, molto simile al ronzio di uno sciame impazzito. La moda degli applausi a pagamento ricomparve a teatro intorno alla fine del XVI secolo. Per tutto il Cinquecento, nelle corti rinascimentali che ospitavano spettacoli privati, nessuno era autorizzato ad applaudire più a lungo e più forte del principe o del padrone di casa; quando però in Europa si stabilizzarono i primi teatri pubblici, tornò in auge l’uso della claque (dal francese claquer, cioè “battere schioccando”). In genere il merito (o demerito) della resurrezione di questa antica pratica viene attribuito al poeta francese Jean Dourat (1508-1588), che per la rappresentazione dei suoi drammi acquistava di tasca propria parecchi biglietti da regalare a chi prometteva di applaudire l’esibizione. A Parigi, a partire dal 1820, sorsero agenzie specializzate che proponevano veri professionisti dell’applauso, della risata a comando o della richiesta di bis. A tariffe piuttosto elevate: i costi si innalzavano in base al tipo di prestazione richiesta, dall’applauso educato via via a salire per un applauso entusiasta o per i fischi rivolti allo spettacolo di un concorrente. Nell’ambiente prettamente musicale, sappiamo che per supportare i cantanti d’opera, nel 1919 al Teatro La Scala di Milano, il listino prezzi prevedeva il pagamento di 25 lire (30 euro attuali) per gli uomini e di 15 per le donne (e mi chiedo ancora il perché della differenza di paga). Certo, c’era anche chi non aveva bisogno di pagare, come il leader sovietico Stalin: lo storico russo Aleksandr Solženicyn nel suo Arcipelago gulag racconta che, in una conferenza del partito, i partecipanti accolsero l’arrivo del loro leader con dieci minuti di applausi, in piedi. Nessuno, conoscendone la terribile fama, voleva interrompere per primo l’ovazione: a rompere gli indugi fu il direttore di una fabbrica di carta che si mise a sedere, dando agli altri l’opportunità di seguirne l’esempio: a riunione conclusa però l’uomo fu arrestato. In quel caso i malcapitati avrebbero avuto davvero bisogno dell’invenzione dell’ingegnere Charles Douglass di cui abbiamo già parlato: la laff box, la “scatola della risata” (dall’inglese to laugh, “ridere”) con cui, dal 1950, gli americani presero a infarcire show e sitcom di applausi e risate registrate, talvolta importuno contorno a battute magari poco divertenti. Non era una cosa completamente nuova: basti pensare alla figura ottocentesca dello chatouilleur, il professionista dell’applauso, lo spettatore pagato dai teatri francesi per ridere e applaudire con naturalezza ed entusiasmo tali da coinvolgere tutti gli altri spettatori, decretando così il successo, o meglio, la messinscena del successo. La tecnologia di Douglass tuttavia va oltre: trasforma l’applauso in suono virtuale, i telespettatori ascoltano gli applausi generati da altri, altri che fisicamente non esistono, e, almeno in teoria, sono spinti a seguirne l’esempio, ad apprezzare le battute sottolineate e a seguire il percorso emotivo che questi applausi suggeriscono. Nel corso del tempo, l’abbiamo già detto, gli applausi hanno finito per dilagare ovunque. Un luogo che a me pare inopportuno è lo spazio della chiesa durante i funerali. Ma pare sia ormai un’usanza abituale nelle commemorazioni di personaggi famosi. Il primo a ricevere questo dubbio omaggio fu Totò, nel 1967: però la bara era vuota e quello era addirittura il suo terzo funerale, celebrato a Napoli tre mesi dopo la sua morte. Nel 1973, invece, la folla applaudì il feretro dell’attrice Anna Magnani e l’eccezione diventò regola: e oggi perfino nella composta Inghilterra accade che, durante le partite di pallone, il minuto di silenzio venga sostituito da un minuto di applausi. Non dobbiamo comunque scordare che esiste un illustre precedente: anche Dante venne accolto all’inferno dal “suon di man” dei diavoli sui corpi dei dannati. Nel mondo della musica classica la questione degli applausi si fa delicata. In passato il pubblico applaudiva durante i concerti tra un brano e l’altro, e i compositori lo consentivano. Questa consuetudine è andata via via scemando nel XX secolo, quando musicisti e pubblico hanno iniziato a considerare la composizione musicale sempre meno come una successione di tempi e dunque di eventi staccati, ma piuttosto come un’unica ed epica narrazione da fruire senza soluzione di continuità. E senza disturbare la concentrazione di ascoltatori ed esecutori. Non pochi musicisti oggi si interrogano sull’utilità di conservare questa rigida etichetta: si pensi a quanto avvenuto imprevedibilmente nel 2011 al Teatro dell’Opera di Roma, mentre Riccardo Muti dirigeva il Nabucco di Verdi. Ebbene, appena conclusa l’aria “Va’ pensiero”, scoppiò un applauso talmente prolungato che il Maestro fu obbligato a fermarsi e a dirigere un bis, che venne cantato anche dal pubblico. Davvero un evento straordinario, al di fuori delle convenzioni operistiche. Prima di ripetere il coro, Muti si volse verso gli spettatori che gridavano “Viva l’Italia!” e, riferendosi alla triste considerazione che le Istituzioni hanno del patrimonio musicale nazionale, disse: “Io sono d’accordo sul Viva l’Italia. Io non ho trent’anni e la mia vita l’ho fatta, ma da italiano che gira il mondo sono molto addolorato per quanto sta succedendo… se uccidiamo la cultura su cui è fondata la storia dell’Italia, veramente uccidiamo la nostra Patria ‘bella e perduta’…” (citando il noto passaggio di “Va’ Pensiero”: “O mia patria, sì bella e perduta…”). E a questo punto inizia a dirigere lo stesso pubblico: tutto il teatro è in piedi e canta in preda all’emozione il coro del Nabucco, insieme a coristi e orchestrali palesemente commossi. Cercate quest’episodio sul web, il video si trova facilmente: vedrete in lacrime non solo spettatori, ma anche molti musicisti e cantanti. In quella particolare occasione – che ha dato modo a Muti di sottolineare il ruolo importantissimo, e ahimè trascurato, della cultura italiana nel mondo – gli applausi sono stati davvero speciali e del tutto unanimi in un teatro entusiasta. Ma vi è mai capitato di assistere a un concerto di musica classica e, catturati dal furore per una progressione armonica (una serie di accordi che si inanellano in modo specifico e ripetitivo), un crescendo rossiniano (Rossini ripeteva frasi musicali aggiungendo di volta in volta strumenti, con un particolare effetto di rafforzamento) o un falso finale di qualche sinfonia (ovvero quella serie di accordi talmente imponenti e ammiccanti che fanno pensare che proprio lì stia finendo tutta la sinfonia, e invece…), di esplodere in un fragoroso applauso solitario, per poi fingere, imbarazzati, di sfregarvi le mani per il freddo? Oppure semplicemente di applaudire compiaciuti, nel silenzio assoluto del resto del pubblico, quando il brano non è terminato? Se così fosse non preoccupatevi: pensate che alla Casa Bianca il presidente Kennedy aveva lo stesso problema. Lui e la moglie Jackie hanno ospitato diversi eventi di musica classica, e più di una volta il Presidente pare abbia iniziato a battere le mani quando non avrebbe dovuto: per ovviare a questo imbarazzante inconveniente, la segretaria, nascosta dietro una porta della sala, aveva elaborato un sistema per indicare a Kennedy il momento giusto in cui applaudire. A onor del vero però bisogna ammettere che esistono composizioni che richiamano gli applausi anche durante l’esecuzione: vi faccio un esempio. La sinfonia n. 6 di Pëtr Il’ič Čajkovskij, la “Patetica”, composta nel 1893, ha un terzo tempo, Allegro, il cui finale sembra invocare l’applauso; invece si deve attendere il quarto – Adagio Lamentoso-Andante – perché la sinfonia termini e si possa finalmente applaudire. Abbiamo visto come la parola applauso discenda dall’istruzione al pubblico “Plaudite” in chiusura delle commedie romane. Accordi come quelli che si possono ascoltare alla fine dell’Allegro della “Patetica” non sono che l’equivalente musicale del “Plaudite”, quasi imitano l’azione del battere le mani: l’orchestra si unifica in una serie di suoni rapidi e percussivi, in un crescendo sonoro ed emotivo che trascina ad un applauso spontaneo. Insomma: se il presidente Kennedy – o chiunque di noi – avesse mai applaudito dopo il terzo movimento della “Patetica” di Čajkovskij, o in altri momenti “sbagliati”, in qualche modo avrebbe seguito intuitivamente le istruzioni contenute nel brano stesso.
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