Tornando alla “Patetica”, alla sua prima esecuzione sembra che il pubblico sia scoppiato in applausi entusiastici proprio alla fine del terzo movimento, tanto che gli orchestrali imbarazzati si alzarono per inchinarsi e ringraziare: molti tra gli spettatori, tuttavia, intesero quel gesto come il segno della fine della composizione e si avviarono all’uscita. Figuratevi con quale spirito si ritrovò la concentrazione necessaria per eseguire invece il più intimo e commovente ultimo tempo.
Naturalmente, non c’è modo di sapere come Čajkovskij abbia giudicato gli applausi fuori luogo: non possiamo però escludere che abbia immaginato un applauso mentre stava componendo, e che magari vi abbia anche fatto affidamento per rendere più efficace l’effetto della composizione.
In realtà l’idea di concerto di musica classica del passato era radicalmente diversa dall’esperienza di oggi.
Basti pensare al pubblico di Johan Sebastian Bach al Caffè Zimmermann di Lipsia, tra il 1729 e il 1741.
All’epoca il proprietario non faceva pagare alcun biglietto per assistere ai concerti, e guadagnava solo dalla vendita dei caffè: il pubblico beveva, fumava, parlava o addirittura si annoiava quando le fughe improvvisate del grande Bach diventavano prolisse. A testimonianza proprio del fatto che la musica fosse parte integrante della vita quotidiana, senza quell’aspetto di sacralità che tendiamo ad attribuirle oggigiorno, allontanando così le persone dalla fruizione dettata dalla curiosità e dal puro piacere dell’ascolto.
In questo senso è davvero molto interessante una lettera che Mozart scrisse a suo padre nel 1778, relativa alla première della sua Sinfonia n. 31 in Re maggiore, “Parigi”, nell’omonima città francese:
“Ho dovuto comporre una Sinfonia per aprire il Concert Spirituel. È stata eseguita il giorno del Corpus Domini fra il plauso generale. [...] Alla prova ero molto preoccupato, non avendo mai sentito in vita mia nulla di peggio; non si può immaginare come abbiano stravolto e straziato la mia Sinfonia per due volte consecutive. [...] la Sinfonia è cominciata, [il tenore] Raaf stava accanto a me e proprio a metà del primo Allegro c’era un passaggio che sapevo bene che doveva piacere: tutti gli ascoltatori ne sono stati rapiti ed è scoppiato un grande applauso. Poiché nel comporlo ero ben conscio dell’effetto che avrebbe prodotto, l’avevo nuovamente inserito alla fine... e così stessa accoglienza Da capo. È piaciuto anche l’Andante, ma soprattutto l’Allegro finale. Poiché avevo sentito che qui tutti gli Allegri finali cominciano come quelli iniziali, con tutti gli strumenti insieme e per lo più all’unisono, io ho cominciato solo con due violini, piano per otto battute, e immediatamente dopo con un forte. In questo modo gli ascoltatori, come previsto, al momento del piano hanno fatto ‘sst’, poi è venuto immediatamente il forte; e sentire il forte e battere le mani per loro è stato tutt’uno. Così per la felicità subito dopo la Sinfonia sono andato al Palais Royal a gustarmi un buon gelato […]”.
È un po’ difficile localizzare esattamente i punti in cui avrebbero dovuto verificarsi gli applausi desiderati da Mozart – che comunque sapeva utilizzare ad arte gli effetti musicali per ottenere reazioni emotive nel pubblico –, ma tutto sembra in linea con quello che ritroviamo nei Jazz club dei nostri giorni, dove le persone applaudono dopo ogni assolo e alla fine di ogni numero.
L’uditorio di Beethoven non era meno coinvolto e appassionato.
Durante la prima esecuzione della sua Nona Sinfonia, che avvenne nel 1824, nel secondo tempo, lo Scherzo, alcuni inaspettati e geniali interventi dei timpani (ricordiamo che le percussioni nella musica classica hanno ruoli tematici, e non ritmici, come molti pensano confrontandoli con quelli della musica pop e rock) furono talmente apprezzati che lo scroscio di applausi coprì il suono dell’orchestra provocando la commozione dei musicisti.
Per converso, però, si tramanda che nell’ultimo periodo della vita di Beethoven il pubblico non applaudisse più poiché il compositore, in difficoltà a causa della sua sordità, continuava a dirigere senza fermarsi anche in presenza di applausi di cui, tra un Movimento e l’altro, non riusciva ad accorgersi.
E allora, qual è l’origine di questa nuova, compunta etichetta della sala da concerto?
Probabilmente ha giocato un ruolo decisivo l’avvento del Romanticismo, con un nuovo concetto di artista e dell’unità dell’opera musicale.
Infatti Felix Mendelssohn, nella sua Sinfonia n. 3 in La minore “Scozzese”, composta tra il 1829 e il 1842, esige esplicitamente che l’opera, che appunto evoca le atmosfere e le impressioni di un suo viaggio giovanile in Scozia, sia eseguita senza pause tra un tempo e l’altro allo scopo di evitare “le solite lunghe interruzioni” che avrebbero rovinato l’unità concettuale e narrativa da lui prevista.
Ma sarà soprattutto il pensiero wagneriano a rendere fondamentale il momento preciso dell’applauso.
Nella prima esibizione dell’opera Parsifal, a Bayreuth, nel 1882, Richard Wagner chiese che non ci fossero chiamate sul palco per gli applausi dopo l’Atto II: questo in modo da non “interferire con l’impressione”, come scrisse la moglie Cosima nel suo diario. Però il pubblico fraintese tali affermazioni, credendo di non dover assolutamente applaudire, e il sipario finale calò in un totale silenzio.
Wagner rimase interdetto, non capiva se l’opera fosse piaciuta o meno al pubblico. Allora si rivolse alla folla spiegando che in quel momento era possibile applaudire. Ma purtroppo i cantanti erano già tornati in camerino e si erano tolti i costumi, per cui non fu possibile fare i consueti ringraziamenti sul palcoscenico.
La stessa confusione si ripeté alla seconda esibizione. Scrive Cosima: “Dopo il primo atto c’è un silenzio riverente, che ha un effetto piacevole. Ma quando, dopo il secondo, il pubblico è ancora silenzioso la cosa diventa imbarazzante”.
L’influenza wagneriana ha avuto grandissime ripercussioni su tutto il teatro e la musica, e ne parleremo meglio più avanti, nel capitolo relativo alla musica verso il Novecento e la Modernità.
Con la teorizzazione novecentesca dell’“opera d’arte totale”(che unisce teatro, musica, balletto, dramma, scenotecnica etc.), e la riforma anche strutturale del teatro, l’unico modo per apprezzare questa modalità è rimanere muti sino alla fine.
Senza entrare adesso troppo nel dettaglio, possiamo dire che questo nuovo costume si diffuse profondamente in Europa, al punto che la voce applausi nell’undicesima edizione dell’Enciclopedia Britannica (1910-11) riporta: “Lo spirito riverente che ha abolito gli applausi in chiesa ha teso a diffondersi nel teatro e nella sala da concerto, in gran parte sotto l’influenza dell’atmosfera quasi religiosa delle esibizioni di Wagner a Baireuth.”
Con l’avvento delle tecnologie che permettevano la registrazione e la riproduzione della musica, altri elementi si sommano a quelli già evidenziati: il fatto che gli applausi siano stati rimossi dalle registrazioni di musica dal vivo suggerisce un altro fattore nella trasformazione del rituale del concerto attraverso le abitudini acquisite con l’ascolto a casa.
Seduti davanti alla radio o al grammofono, gli ascoltatori si erano abituati a quelle brevi bande di silenzio tra i movimenti: ed è forse anche per questo che negli Anni Trenta e Quaranta il pubblico ai concerti accettava più facilmente di non applaudire, restando in silenzio tra un tempo e l’altro.
E già a partire dagli anni Venti del 1900, diversi importanti direttori – Toscanini, Klemperer, Stokowski e Furtwängler – dissuadevano dagli applausi in eccesso.
Le opinioni, in realtà, erano e sono le più disparate.
In un’intervista del 1966 il grandissimo pianista Arthur Rubinstein ha affermato: “È barbaro dire alla gente che è incivile applaudire qualcosa che ti piace”.
Dello stesso avviso sono i responsabili del Centre de Musique de Chambre de Paris che, pochi anni fa, sul libretto di sala di un concerto hanno messo ben in evidenza questo box: “Applaudite quando volete! La moda del XX secolo che consiste nel non applaudire tra i movimenti di un’opera è storicamente assurda. Il silenzio non era sempre di rigore all’epoca di Mozart”.
In poche ore il libretto ha fatto il giro del mondo: chi era presente al concerto parigino racconta di un clima molto familiare, rilassato e di un pubblico nutrito, variegato e attento.
Sarebbe certamente auspicabile svecchiare gli aspetti formali della fruizione della musica classica, sono certamente d’accordo, ma penso anche che non si debba snaturare o forzare nulla.
Mi spiego meglio: ci sono brani intimisti e sommessi, al termine dei quali è forse appropriato un silenzio riflessivo, che aiuta l’esecutore e coinvolge chi ascolta; altri, entusiastici e travolgenti, richiamano l’applauso pur se la composizione non è conclusa e prevede magari un altro tempo. Bisogna rispettare, con empatia e in egual misura, l’entusiasmo del pubblico e la concentrazione degli esecutori, i quali, come ricordo spesso, lavorano anni per una performance che dura pochi minuti: proprio quei minuti a cui state assistendo.
“Non è scandaloso applaudire alla fine di un movimento – ha dichiarato il famosissimo violinista Salvatore Accardo. Succedeva nell’Ottocento quando i programmi erano frammentari, costruiti con il tempo di una Sinfonia o di un’altra. A me dà fastidio chi prorompe nell’applauso immediato, penso al finale della Terza di Brahms o della Nona di Mahler, dove le note si spengono piano piano. Sono quelli che applaudono per farti capire che sono esperti, che sanno che il pezzo è finito”.
E infatti, proprio per la Nona di Mahler, Abbado, tramite i suoi fan clubs itineranti, fece distribuire a Roma un volantino invocando il silenzio.
Dal canto loro i violinisti si dividono. Mentre Uto Ughi è per il ni (“in linea di principio non sono contrario né favorevole, non metterei regole categoriche, penso ai più giovani”), la celeberrima violinista Viktoria Mullova sostiene che “… il mondo classico è rigido e noioso, meglio un pubblico reattivo che morente”.
E la concentrazione degli esecutori? “In pezzi come le Variazioni Goldberg – composizione di J.S. Bach costituita da un’aria con ben trenta Variazioni, che spesso si eseguono consecutivamente –, dove una nota è legata all’altra, gli applausi disturberebbero, talvolta è preferibile il silenzio totale dopo un’esecuzione speciale. Se non ci sono regole è meglio», precisa la stessa Mullova.
Ma anche Riccardo Muti, che all’Opera concesse il famosissimo bis di cui abbiamo detto poco sopra, a Salisburgo, in un contesto differente, chiese (alla fine) silenzio e niente applausi per il Requiem dedicato alla memoria di Karajan, per conservare la concentrazione e l’emozione che l’impegnativa composizione aveva suscitato.
La Carnegie Hall di New York, teatro di chiarissima fama e grande tradizione, distribuì un decalogo di comportamento: non scartare caramelle, evitare di arrivare tardi, non lasciare la sala fin quando il direttore non ha posato la bacchetta sul leggio…
Qualcuno ha chiesto l’opinione di Ennio Morricone, che dal vivo trasforma le sue colonne sonore in una suite senza soluzione di continuità: “Io sono contrario agli applausi tra i brani. Non si può interrompere l’unità di una composizione, sarebbe come fermarsi al capitolo di un romanzo”.
Ma forse, in questa nostra era dell’immagine, l’applauso inopportuno sta a significare che la capacità di concentrazione degli ascoltatori è ormai compromessa? Che non siamo più capaci di aspettare che tutta la composizione si completi, che abbiamo bisogno di esprimere subito l’emozione dell’applauso senza attendere lo sviluppo dell’opera?
Il compositore Giorgio Battistelli afferma: “L’applauso spontaneo mi fa pensare all’alterazione del sistema percettivo, il deficit di attenzione fa somigliare il nostro rapporto con la musica a uno zapping acustico. Tendiamo a un uso segmentato della musica, la consumiamo secondo format temporali sempre più stretti”.
Di frequente si identifica un pezzo con un singolo passaggio, una specie di icona sonora, una Gif musicale.
È una riflessione complessa ma non sbagliata: dopo il Romanticismo, in cui l’opera musicale si raccontava solo nella sua interezza, ecco che siamo forse tornati ai tempi antichi, in cui ogni tempo raccontava solo se stesso?…
Una piccola digressione ma molto significativa – se siete consumatori di cartoons probabilmente la rammenterete: in una puntata dei Simpson, il pubblico esce dalla sala dopo le prime note della Quinta di Beethoven, e, al finto Karajan che sta dirigendo, un tizio spiega che se ne sta andando perché tutto il resto, dopo il famosissimo inizio ta ta ta taaaa, è solo “sciacquettìo”. Un altro personaggio addirittura dice che il brano era più bello come suoneria del suo cellulare…
In realtà, come spesso accade, possiamo trovare un equilibrio nel mezzo: è davvero un peccato ridurre l’entusiasmo del pubblico, costringerlo in un’etichetta troppo riduttiva e formale. Per emozionare il pubblico e coinvolgerlo è importante che possa esprimere la propria passione e partecipazione.
Come detto, però, non tutti i brani consentono lo stesso tipo di applauso. Ci sono Movimenti o intere composizioni che esigono silenzio e attenzione, per permettere agli esecutori di concentrarsi e di esprimere al meglio la musica, di far sentire sonorità delicate e fragili, di suggerire sentimenti intimi e che necessitano di riflessione. Ci sono brani, invece, in cui l’entusiasmo è necessario, in cui sonorità piene e ricche di Fortissimo incitano all’applauso spontaneo. Credo sia facile riconoscerli e adattarsi al giusto applauso in base allo stato d’animo che suscitano.
Per sicurezza, allora, meglio attendere che il comportamento del direttore d’orchestra o degli strumentisti segnali inequivocabilmente (con il silenzio o, nel caso del direttore, quando le sue braccia si sono fermate e gli strumenti sono stati appoggiati) che il brano è terminato.
Sarà l’intelligenza di chi ascolta a decidere, di volta in volta, come comportarsi. Inoltre, quando vi recherete ad un concerto e non conoscete i brani che andrete a sentire, consiglierei di ascoltarli in anticipo con l’aiuto dei CD oppure on line. Del resto, quando partecipate ai concerti pop o rock, non conoscete forse già prima di arrivare le canzoni che andrete ad ascoltare, per goderle meglio e per poterle cantare tutti insieme?
Fate lo stesso con la musica classica: arriverete più preparati e contenti, meglio disposti e sicuramente in grado di apprezzare pienamente la musica e di applaudire al momento più opportuno.
Fin qui abbiamo parlato della musica sinfonica o da camera, ovvero strumentale. Il mondo dell’opera lirica, tuttavia, è leggermente diverso.
Gli applausi generali si tributano ovviamente alla fine di ogni atto, e poi tutti insieme al termine dell’opera: ma è consentito, direi anzi graditissimo, applaudire “a scena aperta” durante l’esecuzione delle arie solistiche dei cantanti.
Se il cantante è stato apprezzato, e il pubblico lo applaude sonoramente, sarà il direttore stesso a interrompere l’esecuzione per permettere, appunto, gli applausi a scena aperta.
Dovete sapere che sulle parti degli orchestrali tracciamo addirittura dei segni a matita per ricordarci dove dobbiamo smettere di suonare ed aspettare gli applausi – confidando chiaramente nella bravura dei solisti e nell’entusiasmo del pubblico.
In quel caso i cantanti rimangono immobili sulla scena nell’ultima posizione che avevano assunto, e l’orchestra tace fin quando il pubblico decida di concludere l’applauso; poi si continua riprendendo esattamente dal punto in cui ci si è interrotti.
Un tempo potevano essere anche richiesti bis di singole arie, ma da qualche tempo l’usanza non è più in auge.
E ricordiamoci del ruolo dei “loggionisti”: temuti da direttori d’orchestra, cantanti e registi, non esitano a contestare dalla galleria quando uno spettacolo, secondo il loro giudizio, non è all’altezza.
Sono personaggi che amano visceralmente l’opera lirica, e, volendo assistere a più rappresentazioni possibili, comprano i biglietti meno costosi, posti dai quali si gode comunque di un’ottima acustica: per l’appunto quelli del loggione.
Sappiate che anche i loggionisti si sono aggiornati con le tecnologie dei social: esistono gruppi on line in ogni dove, di affezionati e preparatissimi melomani che propongono dibattiti, stuzzicano confronti, offrono ascolti di brani meno noti o ripropongono arie celeberrime con i più noti esecutori. Sanno tutto, dai dettagli più tecnici ai gossip più stravaganti, conoscono decine di interpreti e li seguono con attenzione, sanno muovere critiche puntuali su ogni interpretazione e non esitano a scagliarsi furiosamente contro chi attacca i propri beniamini.
E li incontrate anche fuori dei teatri, per esempio della Scala, nel cuor della notte, per essere i primi al botteghino la mattina seguente: un’antica nobile tradizione, che prevede cinque, sei, sette ore in attesa per assicurarsi un biglietto e permette di parlare di lirica, stringere amicizie, scoprire nuove cose.
Il loro è un tifo appassionato quasi da stadio, sono paragonabili agli ultras calcistici – certamente senza alcun aspetto violento o aggressivo; e non crediate che siano limitati ad arzilli ottuagenari in via d’estinzione, perché i melomani rinforzano continuamente le loro fila con nuovi arrivi, anche giovani e giovanissimi.
Ma torniamo al pubblico “normale” che applaude all’Opera.
Di solito si applaude alla fine di tutta l’opera, quando sulla scena fanno ritorno, con un rituale preciso e gerarchico, tutti coloro che hanno partecipato allo spettacolo: dai ruoli meno importanti (le comparse, i bambini, etc.) fino ai cantanti solisti, il direttore, il regista. Quando anche il direttore d’orchestra, che dalla buca ha attraversato il retropalco ed è salito per gli applausi, finalmente guadagna il palcoscenico, ringrazia il pubblico e fa alzare in piedi l’orchestra, sino ad allora rimasta nascosta nella buca sotto il palco.
Nei concerti sinfonici, invece, l’orchestra è sul palco e viene applaudita subito dopo l’esecuzione: il direttore esce con il solista, quando questo c’è, e rientra per raccogliere gli applausi e gestire gli eventuali bis.
In tutti questi casi fate attenzione: vedrete gli orchestrali manifestare partecipazione o battendo gli archetti sui leggii (e non ne siamo tanto contenti, perché non vogliamo certo rovinarli), o battendo le mani (soprattutto gli strumentisti a fiato, senza archetto), o proprio battendo i piedi sulle assi del palco.
Se poi il pubblico seguita a reclamare il bis, e questo si fa aspettare, può verificarsi che l’applauso divenga ritmato, per sottolineare l’entusiasmo, e incitare i musicisti a suonare o cantare ancora.
In alcuni casi persino chi è sul palco applaude insieme agli spettatori: è il cosiddetto “applauso alla russa”, nel quale ad esempio anche l’oratore che ha terminato il proprio intervento, e nel nostro caso il musicista che ha eseguito la sua performance, si unisce all’applauso del pubblico.
Questa pratica, sorta e diffusa nel Comitato centrale del partito comunista sovietico, vuole sottolineare che il merito di un buon intervento è sempre collettivo.
Quanto ai ringraziamenti per gli applausi che si stanno ricevendo, si può piegare il capo o fare l’inchino, o appunto battere le mani: e come si potrebbe ringraziare meglio il pubblico che ti ha apprezzato, se non tributandogli proprio lo stesso applauso che ti viene rivolto?
Concludo questo capitolo in cui abbiamo parlato di applausi e di pubblico con una barzelletta, spero vi faccia piacere.
Un tenore in teatro sta cantando in modo pessimo.
Al momento dell’aria più famosa, dal loggione gridano: “Bis! Bis!”.
Lui soddisfatto ricanta, e di nuovo : “Bis! Bis!”.
Il tenore, perplesso ma orgoglioso, decide di accontentarli, e riattacca la romanza.
“Bis! Bis”, gridano di nuovo.
Il tenore, esausto, si inchina ai loggionisti e dice: “Grazie! Siete meravigliosi! La ricanterei volentieri ma non ce la faccio più!”.
“Eh no – gridano quelli di rimando – tu adesso la ricanti fino a quando non la impari!”.
Risate.
Applausi.
Sipario.