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Making Movies

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Blurb

Un pittore dorme nel suo letto, ha l’ombra della morte tra le pieghe del volto e una pallottola sta per entrare dalla sua finestra. Il proprietario del proiettile è El Niño, il killer. E presto il pittore scoprirà che successo e fallimento sono parte della stessa medaglia. Un vecchio cammina solitario nelle strade notturne di New York, ha le scarpe sformate ed è disarmato. È un celebre ladro che si prepara per l’Ultimo Piano, la sua Opera Finale. Al Café des Arts un mercante d’arte senza remore e un tranquillo avventore italiano fondano la loro intesa sulla menzogna reciproca. Ma ora mettetevi comodi perché un film sta per iniziare, e parla anche di quest’ultima notte, prima della fine dei colori.

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Nota di traduzione
Note di traduzione Mi piacerebbe avere, qui sul palco, un macinino per romanzi. Una macchina che riesca a inghiottire un libro e a spararvelo addosso sottoforma di un milione di coriandoli. Così vi costringerei ad avere un contatto fisico con il romanzo. Sentireste quant’è tagliente, quant’è ruvida la carta, e quanto amaro il sapore dell’inchiostro. Perché sono queste le sensazioni che proverete leggendo le pagine seguenti... Queste annotazioni autografe, tracciate con inchiostro verde sulla prima pagina dattiloscritta di Making Movies, rappresentano l’unica, scarna presentazione che Belial ha voluto lasciarci del suo romanzo più cinematografico. La grafia spasmodica, quasi illeggibile, ci restituisce l’immagine di un Belial già gravemente disturbato, malato, eppure ancora dolorosamente intento all’esercizio della scrittura. Stando a Paul Mingus, curatore dell’edizione americana per la Taboo Books (2007), la pubblicazione del primo romanzo postumo dell’autore prematuramente scomparso non ha presentato particolari problemi filologici. “Hector Luis Belial”, scrive Mingus, “era giunto a una stesura definitiva del testo ben prima che le sue condizioni di salute diventassero d’ostacolo alla scrittura”. Più problematico si è rivelato tradurre in italiano l’opera di un autore dichiaratamente votato all’eccesso, specie linguistico. Come l’immaginario macinino per romanzi, la scrittura di Belial era tesa a una programmatica, quasi sadica esasperazione della lingua, spesso ridotta a brandelli paratattici, o, di contro, forzata in un periodare iperbolico e allucinato. Particolare difficoltà ha presentato la ricostruzione del subdolo gioco citazionistico messo in atto dall’autore: nel calderone di Making Movies troviamo, indifferentemente, frasi di Céline e frammenti di liriche beatlesiane, battute cinematografiche e slogan pubblicitari, in una sorta di mantra pop che mescola dissolutamente alto, basso e, non di rado, bassissimo. Questa traduzione tenta di apportare il minor danno possibile al gioco di Belial; si è preferito, a questo scopo, mantenere in lingua originale quantomeno le citazioni isolate graficamente, assieme all’apparato di titolazione dei capitoli e del romanzo stesso. Roma, 9 aprile 2008 B. Ortiche Per l’edizione italiana di Making Movies, la Dottoressa Ortiche mi aveva chiesto la traduzione di un cruciverba ideato da Belial. La richiesta era già di per sé singolare, e, nonostante la lunga esperienza in qualità di giocologo, non ho memoria di precedenti esempi di traduzione di parole crociate. L’operazione risulta infatti impraticabile, a meno che non si voglia accettare la possibilità di lasciare invariato lo schema, limitandosi a tradurre le definizioni. Ho preferito, date le circostanze, costruire un nuovo schema da zero, mantenendo sia le dimensioni dell’originale, sia la definizione che appare fondamentale anche nel cruciverba di Belial – ovvero, secondo la numerazione corrente, la 27 Orizzontale. E. Bartezzagli PRIMO TEMPO Non mi sono mai proposto di fare del cosiddetto cinema realistico, né film socialmente impegnati, non in maniera diretta. Per questo motivo, la critica militante degli anni passati mi ha accusato di essere un regista vuoto e borghese, chiuso in un elitario distacco dalla realtà. Mi chiedo cosa si aspettino da me questi amanti della verosimiglianza. Dovrei prendere sottobraccio una di queste videocamere leggere, girare per le strade? Riprendere in colori slavati i fatti banali, casuali della vita quotidiana? Senza attori, senza luci, senza una messinscena che non sia del tutto ordinaria? Abbandonare la videocamera sul tetto di un palazzo, per giorni, cambiando meccanicamente il nastro ogni due ore? Francamente, preferisco lasciar perdere l’assurda velleità di catturare la realtà dentro una videocassetta. Ho scelto di scrivere di sogni, incubi... di occuparmi di finzioni. Perseverare in quello che ho sempre fatto, e che mi riesce meglio. Fare film. [Mick Vitali1] 1 Da un’intervista apparsa sul Los Angeles Times, 13/08/1981 [N.d.A.]

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