L'ANTICAMERA DEL SIGNOR DE TRÉVILLE

3673 Words
L'ANTICAMERA DEL SIGNOR DE TRÉVILLE Il signor de Troisville, come si chiamava ancora la sua famiglia in Guascogna, o il sig. de Tréville, come anch'egli aveva finito per chiamare se stesso a Parigi, aveva realmente cominciato come d'Artagnan, vale a dire senza un soldo, ma con quel fondo di audacia, di spirito e di testardaggine che fa sì, che il più povero gentiluomo guascone riceve spesso di più nelle sue speranze dall'eredità paterna, che il più ricco gentiluomo perigordino o berissone non ne riceve in realtà. Il suo coraggio insolente, la sua fortuna anche più insolente in tempi in cui i colpi piovevano come la tempesta, lo avevano tirato alla sommità di quella scala difficile, che si chiama il favore della corte, e della quale egli aveva montati a quattro a quattro gli scalini. Egli era l'amico del re, il quale onorava molto, come ognun sa, la memoria di suo padre Enrico IV. Il padre del signor de Tréville lo aveva così fedelmente servito nelle sue guerre contro la lega, che in mancanza di denaro contante, cosa che mancò in tutta la sua vita al Bearnese, il quale pagava costantemente i suoi debiti colla sola cosa che non aveva mai bisogno di comprare, vale a dire collo spirito: che in mancanza di denaro contante, dicevamo noi, egli lo aveva autorizzato, dopo la resa di Parigi, a prendere per stemma un leone d'oro posante sopra una sbarra, con questa divisa: Fidelis et fortis. Era molto per l'onore, ma era poco per viver bene. Per tal guisa, quando morì l'illustre compagno del grande Enrico, lasciò per unica eredità al signor figlio la sua spada e la sua divisa. Mercè questo doppio dono, ed un nome senza macchia che lo accompagnava, il signor de Tréville fu ammesso nella casa del giovane principe, in cui si servì tanto bene della sua spada, e fu tanto fedele alla sua divisa, che Luigi XIII, che era una delle buone spade del suo regno, aveva l'abitudine di dire che, s'egli avesse un amico che si dovesse battere, lo consiglierebbe a scegliersi per padrino prima lui, poscia de Tréville, e forse anche prima di lui. Luigi XIII aveva dunque un vero attaccamento per de Tréville, attaccamento regio, attaccamento egoista, è vero, ma che ciò non pertanto era un vero attaccamento. Fu perchè in quei disgraziati tempi si aveva gran cura di circondarsi d'uomini della tempra dei de Tréville. Molti potevano prendere per divisa l'epiteto di forte che formava la seconda parte del motto del suo stemma, ma ben pochi gentiluomini potevano reclamare l'epiteto di fedele che ne formava la prima parte. De Tréville era uno di questi ultimi; era una di quelle rare organizzazioni, colla intelligenza obbediente come quella di un alunno, con un valore cieco, coll'occhio rapido, la mano pronta, ed a cui l'occhio non era stato dato che per vedere se il re era malcontento di qualcuno, e la mano per percuotere questo qualcuno che dispiaceva, un Besme, un Maurevers, un Poltrot, de Merè, in fine un Vitry. A de Tréville fino allora non era mancata che un'occasione, ma egli la appostava, e si riprometteva di afferrarla bene pei suoi tre capelli se mai fosse passata alla portata della sua mano. Così Luigi XIII fece de Tréville capitano dei suoi moschettieri, i quali pel loro attaccamento, o piuttosto per il loro fanatismo, eran a Luigi XIII ciò ch'erano gli ordinarj ad Enrico III, e ciò che la guardia scozzese era a Luigi XI. Dal suo lato, e sotto questo rapporto, il ministro non era rimasto addietro al re. Quando vide la formidabile scelta di cui si circondava Luigi XIII, questo secondo, o per meglio dire questo primo re di Francia, aveva anch'egli voluto avere la sua guardia. Egli ebbe dunque i suoi moschettieri, come Luigi XIII aveva i propri, e si vedevano queste due potenze rivali scegliere pel loro servigio, da tutte le parti della Francia ed anche dagli stati stranieri, gli uomini i più celebri pei loro gran colpi di spada. Così Luigi XIII e Richelieu quistionavano spesso la sera mentre giuocavano agli scacchi, in rapporto al merito dei loro servitori. Ciascuno vantava la proprietà ed il coraggio dei suoi, e mentre decretavano formalmente contro i duelli e le risse, li eccitavano in secreto a venire alle mani, e provavano un vero dispiacere, od una gioja immoderata per la vittoria dei loro. Così almeno raccomandano le memorie di un uomo che si trovò in qualcuna di queste disfatte e in molte di queste vittorie. De Tréville aveva preso il lato debole del suo padrone, ed era a questa destrezza ch'egli doveva il lungo e costante favore di un re, che non ha lasciato la fama di essere stato troppo fedele alle sue amicizie. Egli faceva mettere in parata i suoi moschettieri davanti ad Armando Duplessis, con un'aria beffarda che non faceva che arricciare per la collera i baffi grigi del ministro. De Tréville intendeva ammirabilmente la guerra di quell'epoca, in cui; quando non si viveva alle spese del nemico, si viveva alle spese dei propri compatriotti: i suoi soldati formavano una legione di diavoli a quattro, indisciplinati per tutti fuorchè per lui. Sfrenati, avvinacciati, scorticati, i moschettieri del re, o piuttosto quelli del signor de Tréville, si spandevano per le osterie, per le passeggiate, nei giuochi pubblici, gridavano forte, arricciandosi i baffi, facendo suonare le spade, urtando con voluttà le guardie del ministro quando le incontravano, e cavando quindi le spade in piena strada con mille motteggi; uccisi qualche volta, ma sicuri sempre in questo caso d'essere compianti e vendicati; uccidendo spesso, e sicuri allora di non ammuffare in prigione, perchè il signor de Tréville era sempre là per reclamarli. Per tal modo il signor de Tréville era lodato in tutti i tuoni, cantato per tutte le canzoni da questi uomini che l'adoravano, e che, per quanto fossero tutti gente da sacco e da corda, tremavano davanti a lui come altrettanti scolari davanti al loro maestro, obbedendo alla più piccola parola, e pronti a farsi ammazzare per lavare il più piccolo rimprovero. Il signor de Tréville aveva fatto uso di questa leva potente prima pel re e per gli amici del re, quindi per se stesso e per i suoi amici. Del resto in nessuna memoria di quel tempo, che ha lasciate tante memorie, non si vede che questo degno gentiluomo sia mai stato accusato neppure dai suoi nemici, ed egli ne aveva tanti, sia fra gli uomini di penna che fra quelli di spada, in nessun luogo si vede, diciamo noi che questo degno gentiluomo sia stato notato d'essersi fatto pagare la cooperazione de' suoi. Con un raro ingegno d'intrigo; che lo rendeva uguale ai più forti intriganti, egli era rimasto onest'uomo. Più ancora, a dispetto dei grandi ostacoli che sfiancano, e degli esercizi penosi che affaticano, egli era divenuto uno dei più galanti scorridori delle stradelle, uno dei più fini damerini, uno dei più lampiccati parlatori della sua epoca; si parlava delle buone avventure di de Tréville, come vent'anni prima si era parlato di quelle di Bassompierre, e non era dir poco. Il capitano dei moschettieri era dunque ammirato, temuto ed amato, ciò che costituisce l'apice delle umane fortune. Luigi XIV assorbì tutti i piccoli astri della sua corte nel suo vasto splendore; ma suo padre, sole pluribus impar ( non uguale per tutti) lasciò il suo splendore personale a ciascuno dei suoi favoriti, il suo valore individuale a ciascuno dei suoi cortigiani. Oltre l'udienza mattinale l'alzata del re e quella del ministro, si contavano a Parigi allora più di duecento piccole alzate, quella di de Tréville era una delle più frequentate. Il cortile della sua abitazione, posta nella strada del Vecchio Colombajo, rassomigliava ad un campo, e ciò fin dalle sei ore della mattina nell'estate, e dalle otto ore nell'inverno. Da cinquanta a sessanta moschettieri, che sembravano colà radunarsi per offrire un numero piuttosto imponente, vi passeggiavano sempre, armati come in istato di guerra, e pronti a tutto. Lungo quelle spaziose scale; sul solo pianerottolo di una delle quali la nostra moderna civilizzazione fabbricherebbe una casa intera, ascendevano e discendevano i sollecitatori di Parigi, che correvano dietro un favore qualunque, i gentiluomini di provincia, avidi di essere arruolati, ed i lacchè guerniti di tutti i colori, che venivano a recare al signor de Tréville i messaggi dei loro padroni. Nell'anticamera sopra lunghi panchetti circolari riposavano gli eletti, cioè quelli ch'erano stati chiamati. Il mormorio là era continuo dalla mattina alla sera, nel mentre che il signor de Tréville, nel suo gabinetto contiguo a questa anticamera, riceveva le visite, ascoltava le lagnanze, dava i suoi ordini, e, come il re dalla sua loggia del Louvre, non aveva che a mettersi alla finestra per passare la rivista degli uomini e delle armi. Il giorno in cui si presentò d'Artagnan l'assemblea era imponente, particolarmente per un provinciale che veniva dalla sua provincia: è vero che questo provinciale era guascone, e che soprattutto in quell'epoca i compatrioti di d'Artagnan godevano della riputazione di non lasciarsi facilmente intimorire. In fatti, una volta che erasi superata la porta massiccia, incavigliata con lunghi chiodi dalla testa quadrangolare si cadeva in mezzo ad una folla d'uomini d'arme che s'incrociavano nel cortile interpellandosi, o querelandosi, o giuocando fra loro. Per aprirsi liberamente un passaggio in mezzo a tutti questi flutti tempestosi, bisognava essere ufficiale, gran signore o bella donna. Fu dunque in mezzo a questa mischia, e a questo disordine che il nostro giovane si avanzò col cuore palpitante, accomodando la sua lunga spadaccia parallela alle sue magre gambe, tenendo una mano all'orlo del suo feltro con quel mezzo sorriso da provinciale imbarazzato che vuol fare il disinvolto. Appena aveva oltrepassato un gruppo, allora respirava più liberamente; ma capiva che si rivolgevano per guardarlo, e per la prima volta in vita sua d'Artagnan, che, fino a quel giorno, aveva avuta molta buona opinione di se stesso, si riconobbe ridicolo. Giunto alla scala, fu ancora peggio; sui primi scalini vi erano quattro moschettieri, che si divertivano al seguente esercizio, nel mentre che dieci o dodici altri dei loro camerati aspettavano sul piano che venisse il loro turno per prendere parte attiva alla partita. Uno di essi situato sullo scalino superiore, colla spada alla mano, impediva, o meglio, fingeva d'impedire agli altri tre di salire. Gli altri tre giuocavano di scherma contro di lui colle loro spade, e con grandissima agilità. D'Artagnan sulle prime suppose che quello spade fossero fioretti: egli credè che fossero bottonati: ma riconobbe ben tosto da certe graffiature, che ciaschedun'arma, al contrario, era molto bene affilata ed appuntata, e a ciascheduna di queste graffiature, non solo gli spettatori, ma ancora gli attori ridevano come matti. Colui che in quel momento occupava lo scalino teneva in rispetto i suoi assalitori maravigliosamente. Era stato fatto cerchio intorno ad esso. La condizione portava che a ciascun colpo il toccato lasciasse la partita, perdendo il suo giro d'udienza a profitto del toccatore. In cinque minuti tre furono sfiorati, uno alla mano, l'altro al mento, l'altro all'orecchia, dal difensore dello scalino, che non fu per niente toccato, sveltezza che secondo le convenzioni gli valse tre turni in suo vantaggio. Per quanto fosse difficile non già ad essere, ma a volersi maravigliare, questo passatempo però maravigliò il nostro giovane viaggiatore: egli aveva veduto nella sua provincia, in quella terra ove si scaldano così prestamente le teste, un poco più di preliminare ai duelli, e la guasconata di questi quattro giuocatori gli parve la più forte di tutte quelle che aveva udito fino allora anche in Guascogna. Egli credette di essere trasportato nei famosi paesi dei giganti, ove Gulliver andò in seguito, ed ebbe così gran paura; e ciò nonostante non era ancora al termine, gli rimaneva il pianerottolo e l'anticamera. Sul pianerottolo non si batteva più; si raccontavano delle storie di donne, e nell'anticamera delle storie di corte. Sul pianerottolo d'Artagnan arrossì; nell'anticamera, egli fremette. La sua immaginazione svegliata e vagabonda, che, in Guascogna lo rendeva terribile alle giovani cameriere, qualche volta anche alle giovani padrone, non aveva mai sognato, neppure nei suoi momenti di delirio la metà di quelle meraviglie amorose, e il quarto di quelle furberie galanti, rialzate dai nomi i più conosciuti, ed abbellite dai dettagli i meno velati. Ma se il suo amore per i buoni costumi ricevette in sul pianerottolo un cozzo, il suo rispetto pel ministro fu scandalizzato nell'anticamera. Là a sua gran sorpresa, d'Artagnan intese criticare ad alta voce la politica che faceva tremare l'Europa, e la vita privata del ministro, che tanti alti personaggi erano stati puniti di aver solo tentato di approfondare. Questo grand'uomo, riverito dal signor d'Artagnan padre, serviva di argomento di risa ai moschettieri del signore de Tréville, chi rideva sulle sue gambe cagnesche, e sul suo dorso inarcato; qualcun altro contava le novelle sulla signora d'Aiguillon, sua amica, e la signora di Combalet sua nipote, nel mentre che gli altri combinavano delle partite contro i paggi e le guardie del duca-ministro, tutte cose che sembravano a d'Artagnan tante mostruose impossibilità. Però, quando il nome del re interveniva qualche volta ad un tratto e all'improvviso in mezzo a tutti questi motteggi ministeriali, una specie di mordacchia chiudeva per un momento tutte quelle bocche derisorie, si guardavano con esitazione intorno, e sembrava temessero l'indiscrezione della porta del gabinetto del signor de Tréville; ma ben presto una allusione riconduceva il discorso sul ministro, e allora le risa si rinnovavano sopra ciascuna delle sue azioni. - Certamente, ecco qua persone che saranno tutte messe alla Bastiglia, o impiccate, pensò d'Artagnan con terrore, ed io, senza alcun dubbio, con loro, poichè dal momento che io gli ho ascoltati ed intesi, sarò ritenuto per un loro complice. Che direbbe il mio sig. padre, che mi ha tanto raccomandato il rispetto pel ministro, se egli mi sapesse in società con simili pagani? Così come ognuno non ne dubiterà, anche senza che lo dica, d'Artagnan non osava abbandonarsi alla conversazione; soltanto egli guardava ad occhi spalancati; ascoltava ad orecchie tese, tendendo avidamente i suoi cinque sensi per non perder nulla, e malgrado la sua confidenza nelle raccomandazioni paterne, egli si sentiva portato dai suoi gusti e trascinato dai suoi istinti a lodare piuttosto che a biasimare le cose inaudite che colà accadevano. Frattanto, siccome egli era del tutto estraneo alla folla dei cortigiani del sig. de Tréville, e che questa era la prima volta che lo si vedeva in quel luogo, vennero a chiedergli ciò che desiderava. A questa domanda, d'Artagnan si nominò con molta umiltà, si appoggiò al titolo di compatriota, e pregò il cameriere che era venuto a fargli questa interrogazione di domandare per lui al signor de Tréville un momento d'udienza, domanda che questi promise di fare, con tuono da protettore, a tempo e luogo. D'Artagnan, rimessosi alquanto dalla sua prima sorpresa, ebbe dunque il comodo di studiare un poco i costumi e le fisonomie. Il centro del gruppo il più animato era un moschettiere di alta statura, di figura altera, con un bizzarro costume che attirava su lui l'attenzione generale. Pel momento egli non portava la casacca d'uniforme, che, del resto, non era assolutamente obbligatoria in quest'epoca di meno libertà ma d'indipendenza più grande, ma un giustacuore blu cielo, alquanto scolorito e rapato, e sopra quest'abito una magnifica bandoliera, ricamata in oro, e che risplendeva come le scaglie di cui si ricuopre l'acqua ad un gran sole. Un lungo mantello di velluto cremisi cadeva con grazia dalle sue spalle, scoprendo soltanto davanti la splendida bandoliera, alla quale era attaccata una gigantesca spadaccia. Questo moschettiere montava in quel momento la guardia, si lamentava di essere raffreddato, e di tempo in tempo tossiva con affettazione. Per questo egli aveva preso il mantello, a quanto diceva, e nel mentre che parlava colla testa alta, arricciandosi sdegnosamente i baffi, ammiravano con entusiasmo la bandoliera ricamata, e d'Artagnan lo faceva più che alcun altro. - Che volete! diceva il moschettiere, è di moda; è una pazzia, lo so bene, ma, è di moda. D'altronde bisogna bene impiegare in qualche cosa i danari della propria legittima. - Ah! Porthos! gridò uno degli astanti, non tentare di farci credere che questa bandoliera ti venga dalla generosità paterna: essa ti sarà stata regalata da quella dama velata colla quale io t'incontrai l'altra domenica, verso la porta Sant-Onorato. - No, sul mio onore, parola da gentiluomo, io l'ho comprata da me stesso, e coi miei propri denari, rispondeva colui che era stato indicato sotto il nome di Porthos. - Sì, come io ho comprato, disse un altro moschettiere, questa borsa nuova, con ciò che il giorno innanzi vi aveva messo la mia amica. - In verità, disse Porthos, e la prova ne è che l'ho pagata dodici doppie. L'ammirazione raddoppiò, quantunque continuasse ad esistere il dubbio. - È vero, Aramis? fece Porthos voltandosi verso un altro moschettiere. Quest'altro moschettiere formava un perfetto contrasto con quello che lo interrogava, e che lo aveva chiamato col nome di Aramis: era un giovine di ventidue o ventitre anni appena, colla fisonomia ingenua e docile, l'occhio nero e dolce, colle guance rosee e vellutate come una pesca d'autunno; i suoi baffi sottili, si disegnavano sul suo labbro superiore in linea perfettamente dritta; le sue mani sembravano temere lo abbassarsi per timore che le vene s'inturgidissero troppo, e di tratto in tratto si pizzicava l'estremità delle orecchie per mantenerle di un incarnato tenero e trasparente. Per abitudine egli parlava poco e lentamente, salutava molto, rideva senza rumore mostrando i suoi denti che erano bellissimi, e di cui, come di tutto il resto della persona, sembrava prendere grandissima cura. Egli rispose con un segno di testa affermativo alla interpellazione del suo amico. Questa affermativa sembrò aver troncati tutti i dubbi sul conto della bandoliera, si continuò dunque ad ammirarla, ma non se ne parlò più, e per una di quelle bordeggiate rapide del pensiero, la conversazione ad un tratto passò sopra un altro argomento. - Che pensate voi di ciò che racconta lo scudiero di Chalais? domandò un altro moschettiere senza interpellare direttamente alcuno, ma indirizzandosi al contrario a tutti. - E che cosa racconta egli? domandò Porthos con tuono altero. - Egli racconta di aver trovato a Brusselle Rochefort, l'anima dannata del ministro, travestito da cappuccino; questo maledetto Rochefort, mercè questo travestimento ha infinocchiato il signor Laiques come un vero imbecille. - Come un vero imbecille, disse Porthos! Ma la cosa è poi sicura? - Mi fu raccontata da Aramis, rispose il moschettiere. - Davvero? - E voi lo sapete bene, Porthos, disse Aramis, io l'ho raccontato a voi pure jeri, non ne parliamo dunque più. - Non ne parliamo più! ecco la vostra opinione disse Porthos. Non ne parliamo più! Peste, come concludete presto! Come, il ministro fa spionare un gentiluomo; fa intercettare la sua corrispondenza da un traditore, un brigante, fa, coll'ajuto di questo spione e mercè questa corrispondenza, tagliar la testa a Chalais, sotto lo stupido pretesto ch'egli ha voluto uccidere il re e maritare la regina con Monsieur; nessuno sapeva una parola di quest'enimma: voi ce lo significaste jeri con grande stupore di tutti, e quando noi siamo ancora sbalorditi da questa notizia, voi oggi venite a dirci: non ne parliamo più! - Parliamone dunque, vediamo, poichè voi lo desiderate, riprese Aramis con pazienza. - Questo Rochefort! gridò Porthos, se fosse stato lo scudiero del povero Chalais, passerebbe con me un brutto momento. - E voi, voi passereste un tristo quarto d'ora col duca Rosso, riprese Aramis. - Ah! il duca Rosso, bravo, bravo, il duca Rosso! rispose Porthos battendo le mani, ed approvando con la testa. Il duca Rosso al nostro ministro, è un epiteto grazioso. Io diffonderò la parola, mio caro, siate tranquillo. Ha molto spirito, questo Aramis! che disgrazia che voi non abbiate potuto seguire la vostra vocazione, mio caro! che delizioso abbate sareste diventato! - Oh non è che un ritardo momentaneo, riprese Aramis, un giorno io lo sarò; voi sapete bene, Porthos, che io continuo a studiare la teologia per questo. - Egli farà come dice, riprese Porthos, egli lo farà o presto o tardi. - Presto, disse Aramis. - Egli non aspetta che una cosa per decidersi del tatto, e per riprendere la sua sottana che è appesa dietro il suo uniforme, riprese il moschettiere. - E che cosa aspetta? domandò un altro. - Egli aspetta che la regina abbia dato un erede alla corona di Francia. - Non scherziamo su questo argomento, signori, disse Porthos, grazie a Dio la regina è ancora in età da poterlo dare. - Si dice che il signor di Buckingham sia in Francia, riprese Aramis con un sorriso beffardo che dava a questa frase, così semplice in apparenza, un significato sufficientemente scandaloso. - Aramis, amico mio, per questa volta voi avete torto, interruppe Porthos, e la vostra smania di dire cose spiritose vi trascina sempre al di là dei limiti; se il signor de Tréville, vi sentisse, voi vi trovereste male di aver parlato così. - Volete voi darmi una lezione, Porthos? gridò Aramis, nell'occhio dolce del quale si vide passare un baleno. - Mio caro, siate moschettiere o abbate; siate o l'uno o l'altro, ma non l'uno e l'altro, riprese Porthos. Athos ve lo ha detto ancora l'altro giorno, voi mangiate a tutte le rastelliere. Ah! non c'inquietiamo, io ve ne prego; ciò sarebbe inutile: voi sapete bene che questo è convenuto fra voi, Athos e me. Voi andate dalla signora d'Aiguillon, e le fate la vostra corte; voi andate in casa della signora di Blois-Tracy, la cugina della signora de Chevreuse, e passate per essere grandemente nelle buone grazie della dama. Oh! mio Dio, non confessate la vostra fortuna, non vi si chiede il vostro secreto. Si conosce la vostra discrezione. Ma poichè possedete questa virtù, che diavolo! fatene uso sul conto di Sua Maestà. Si occupi chi vorrà del re e del ministro; ma la regina è sacra, e se qualcuno ne parla, che ciò sia in bene. - Porthos, voi siete pieno di pretese come Narciso. Io ve ne prevengo, rispose Aramis, voi sapete che odio la morale, eccetto che quando ella è fatta da Athos. In quanto a voi, mio caro, voi avete una troppo magnifica bandoliera per essere molto versato in morale. Io sarò abbate quando mi converrà, frattanto io sono moschettiere, e in questa qualità, io dico ciò che mi piace, e in questo momento mi piace di dirvi che voi m'impazientite. - Aramis! - Porthos! - Eh! signori! signori! si gridò intorno ad essi. - Il signor de Tréville aspetta il signor d'Artagnan, interruppe il lacchè aprendo la porta del gabinetto. A questo annunzio durante il quale la porta rimase aperta, ciascuno si tacque, e in mezzo al silenzio generale, il giovane guascone traversò l'anticamera in una parte della sua lunghezza, ed entrò dal capitano dei moschettieri, felicitandosi di tutto cuore di sfuggire così a proposito alla fine di questa bizzarra contesa
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