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1447 Words
4 Alessandro Pace era di ritorno dalle toilette, dislocate in una zona appartata del parco. Alberi ad alto fusto e grandi cespugli, creavano zone buie, appena rotte da luci provenienti da vasi traforati a motivi di stelle e di lune posti sui viottoli. Così luna e stelle erano visibili in cielo, ma anche in terra. L’aria si era fatta più fresca e gli portava il profumo dei gelsomini che non riusciva a vedere. Stava dicendosi che era piacevole passeggiare in silenzio quando udì delle voci. – Devi stare più attenta, non è cieca! Pace trasalì, la voce maschile tagliente la udì proprio accanto a sé. – Sono stufa! – Non gridare. – Stufa di nascondermi, stufa di guardare te che con lei fai il cascamorto. Lo vedo sai che ti sei stancato di me, non mi cerchi più, trovi sempre delle scuse. Saranno due settimane che non stiamo assieme. – Sei fatta. Me ne sono accorto subito, quando tiri troppo diventi aggressiva. Sveto! pensò Pace. Aveva riconosciuto la voce dell’uomo che poco prima bisticciava con l’amica di Marcella Bono. Le tonalità erano le stesse, a cambiare era la voce della donna. Gli era sconosciuta. – Cosa mi fai, il moralista? Chi è stato a insegnarmi? – Ma tu stai esagerando. E poi fammi capire con chi ce l’hai, con me o con tua madre? – Ti ho visto sai fare il ruffiano con quella coppa di champagne. Che bisogno c’era? La voce femminile si era abbassata, ma in compenso si era fatta più aspra. Pace aveva continuato a camminare privilegiando il bordo erboso del suo sentiero per non far rumore. Non si era fatto sentire subito e ormai era troppo tardi per farlo, sarebbe stato imbarazzante. Le voci, si era reso conto, si spostavano con lui. Chi parlava si trovava dunque a camminare oltre l’alta siepe in un percorso parallelo. – Ma è mia moglie! – protestò l’uomo. – Sapevi bene con chi ero sposato quando ti sei messa con me. – E tu sapevi bene chi sono io. – Ah, taci! Mi esasperi. – Quella strega! Ti comanda a bacchetta, ti esibisce come un trofeo e tu lasci fare, sei un vanesio, un vigliacco. – Smettila subito. – Un gigolò, un mantenuto – strillò lei. Pace sentì chiaramente il suono di un ceffone. Fermò i suoi passi. – Vile, vile! Ci fu ancora un piagnucolio da gattina sempre più flebile. Poi più nulla. Accidenti! si disse Pace, quest’uomo è proprio in cerca di guai. In piscina dei giovani si erano buttati in acqua, giocavano a palla schiamazzando, tre ragazze in costume, sedute ai bordi, i piedi nell’acqua, parlavano tra di loro e li guardavano di sottecchi. Un’altra ragazza sedeva invece nella penombra in disparte. I capelli biondi erano di certo più lunghi della sua vestina gialla che la copriva appena. Stava rifacendosi il trucco e quando Pace le passò davanti gli lanciò un’occhiata corrucciata. – Bella serata signor Pace. Pace trasalì, non si era accorto dell’uomo che gli camminava a fianco. Ricambiando il saluto si rese conto che si trattava di un appassionato di musica che incontrava spesso ai concerti. Non ne sapeva il nome, ma approfittò per chiedergli informazioni sulla giovane che avevano appena sorpassato. Gli sembrava di conoscerla, mentì, ma non ricordava bene. L’uomo sorrise divertito. Poteva aiutarlo, la ragazza vestita di giallo si chiamava Annabella Contera ed era sua figlia. – Sono Flavio Contera – disse tendendo la mano a Pace che la strinse, – non ci siamo mai presentati. Sono il primo marito di Marcella Bono, siamo divorziati da quattro anni, ma abbiamo mantenuto buoni rapporti. Annabella è la nostra primogenita, ha vent’anni, c’è poi Paolo, non so se l’ha già conosciuto: è un bel ragazzo anche lui, ma sa i padri hanno un debole per le figlie. L’avrà notato – aggiunse mentre continuavano il loro cammino, – ho finto di non vederla. Era incavolata, non so perché, ma la conosco bene, quando è così, bisogna lasciarla sbollire. Ha un carattere... Del resto mi adora, anche se non mi perdona di essermi risposato. Ecco quella è Rita la mia seconda moglie. – indicò una donna giovane, troppo truccata, che stava ballando con un tipo dal cranio completamente rasato. Lei teneva la testa sulle spalle del suo cavaliere con aria d’abbandono. Pace ricordò d’aver visto, qualche volta, quella giovane insieme a Contera a teatro. Allora, non conoscendoli, aveva pensato fosse sua figlia. – No, non vado da lei – disse rivolto a Pace che aveva fatto il cenno di accomiatarsi. – Ho imparato che le donne non vogliono il fiato sul collo, bisogna lasciarle fare a modo loro. L’ho imparato a mie spese. Lei è scapolo vero? – Sì. – Lo resti, se ci riesce. Il matrimonio... e poi la coppia allargata... Abbiamo troppe possibilità al giorno d’oggi e troppe grane. Pace non disse nulla. Gli uccelli notturni volavano spaventati attratti e respinti dalle luci tra gli alberi. Passarono davanti a un gruppo di persone formato quasi esclusivamente da uomini. Forse politicanti, forse uomini d’affari. Tutti ben vestiti, dall’aria prosperosa e sicura di sé che solo un cospicuo conto in banca può conferire. Parlavano a voce bassa distogliendo i loro sguardi annoiati dagli altri ospiti. Tra di loro c’era un giovane che fece un cenno di saluto a Contera. – Quell’uomo è il fidanzato di mia figlia: Lucio Salvi – spiegò Contera indicandolo con il capo. – Piuttosto scialbo, vero? Del resto se lo è scelto Annabella. Forse perché si lascia manovrare a suo piacere. Però quel ragazzo non è uno sciocco e farà carriera, basta vedere le sue frequentazioni. Non so se ha notato – aggiunse con un certo compiacimento, – ma stava intrattenendo tre o quattro fra gli uomini più potenti della città. Poi, cambiando argomento, aggiunse: – L’ ho vista parlare con Flora Calò, so che chiuderà la stagione del Carlo Felice. L’ha già sentita cantare? – Sì, l’ultima volta l’anno scorso alla Scala. – All’inizio aveva solo una gran voce, ma ora sa anche usarla e sa dosare i suoi ruoli, un vero talento, e quest’anno in Tosca potrà sfoderare gli artigli. Pace trasalì perché, svoltando per primo un angolo semibuio del viale, si trovò davanti la vecchia come un’apparizione spettrale. Sedeva su di una poltrona a rotelle, vestita di nero e l’ombra la inghiottiva. La luce di un vaso illuminava invece, da sotto in su, il suo viso emaciato, i capelli bianchi lunghi e dritti sulle spalle, gli occhi rovesciati e dementi. Pareva uno di quei fantocci da castello delle streghe, nei luna park, che un balenio improvviso ti fa apparire davanti spaventandoti. – Cosa ci fai tu qui al buio? Ti hanno dimenticata! – esclamò Contera indignato. Toccò le mani ossute della vecchia. – Sei gelata, l’infermiera mi sentirà, lasciarti sola. Ti porto dentro – si chinò per togliere il freno alla carrozzella. – Questa è Ilaria Bono la mia ex suocera – disse rivolto a Pace. – Purtroppo è malata: demenza senile – spiegò senza abbassare la voce. – Le prende a ondate, a volte lucida, a volte è assente; a volte riesce ancora a camminare, ma la maggior parte del tempo lo passa in carrozzella. Posso essere esplicito perché lei in questo momento non ci ascolta. Non si direbbe, vero? ma è stata una delle più belle e corteggiate donne dei suoi tempi. C’è un quadro in casa, nello studio, che la ritrae. Lo ha dipinto Pietro Annigoni, dovrebbe vederlo. Quando la guardo mi viene in mente quella canzone di Kurt Weill, quella che dice: “La bella Cleopatra poi, sapete come fu, sedusse imperatori e re, e ora è tutta polvere...”. – Pipì – disse la vecchia. Una donna dai grandi seni, in divisa bianca, li raggiunse correndo. Era rossa in viso, i capelli mal ossigenati sotto la cuffietta messa di traverso, aveva un’aria sana e semplice. Senza salutare, guardando astiosamente a terra, strappò la carrozzella dalle mani di Contera. – Faccio io. – Non doveva lasciarla sola – la rimproverò l’uomo. – E poi che ci fa un’ammalata fuori di notte? A quest’ora dovrebbe riposare in camera sua. L’infermiera che stava già spingendo con furia la carrozzella, si fermò di colpo e la vecchia oscillò in avanti facendo trasalire Pace. Attenta! stava per gridare, ma si trattenne a tempo, perché lei era già abbastanza irritata dalle osservazioni del Contera. – Se la porto a letto troppo presto poi piange tutta la notte, devo farla stancare prima di dormire. So quel che faccio – esclamò indignata, – e io rispondo solo alla signora Marcella – riprese a spingere la sedia a rotelle parlando tra sé a voce alta. – Per un momento che mi allontano... – Corre dietro a tutti i camerieri – sussurrò Contera a Pace. – Non le bastano mai. È tedesca – aggiunse, come se questo spiegasse tutto. Mentre la carrozzella si allontanava traballando con il suo carico decrepito, producendo sull’acciottolato un rumore di ferraglia, Pace si accorse che la vecchia aveva voltato la testa nella sua direzione e lo guardava. Non poteva giurare visto la lontananza, ma per un istante gli era parso di leggere negli occhi che lo scrutavano un lume di intelligenza. Chissà perché gli venne in mente l’ultima strofa della canzone: “Già prima che calasse il dì, si vide come poi finì. Beate son le brutte...”.
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