Capitolo primo

2765 Words
Capitolo primo Un uomo solo al ristorante è uno spettacolo tutto da gustare. Se ne sta lì, seduto dietro il suo tavolo in attesa delle portate e, non avendo nessuno con cui chiacchierare per passare il tempo, cerca di darsi un contegno in armonia con il suo carattere. Così il timido cercherà, per esempio, di farsi notare il meno possibile dagli altri commensali. I suoi gesti saranno ridotti al minimo indispensabile e pure il suo viso sarà il più inespressivo possibile, con lievissimi sorrisi di circostanza quasi a voler scusarsi di essere lì. L’arrogante, al contrario, farà di tutto per porsi al centro dell’attenzione. Chiamerà il cameriere più volte del necessario, chiederà spiegazioni minuziose sul menù. E quando verrà il momento di stendersi il tovagliolo sulle gambe, prima di iniziare a pranzare, il movimento assumerà una gestualità quasi teatrale, come un toreador che agita il telo rosso davanti al muso del toro. Quanti ne aveva visti, Batti, di personaggi strani sedersi al tavolo numero tre di “Chez Maxime”, la vecchia trattoria di Borgo Incrociati. A sessantotto anni suonati aveva sempre meno voglia di correre per il mondo in cerca di quella fortuna che mai, nemmeno per un solo attimo, si era fermata a guardare la sua faccia bruciata dal sole, dal vento e traversata da centinaia di rughe che la rendevano mobile come una palla di gomma. A sessantotto anni aveva deciso che preferiva restarsene lì, su quella sedia sistemata in un angolo della cucina dello “Chez Maxime”, in prossimità della vecchia finestra che un tempo si affacciava direttamente sulla via. Subito dopo la guerra, un architetto in vena di speculazione edilizia, aveva aggiunto a quell’appartamento al piano terra una veranda in muratura che successivamente sarebbe diventata la sala da pranzo della trattoria. Ma quella finestra era rimasta lì, chissà perché, a dividere i due locali. Inizialmente era stata usata come passavivande. Poi l’Armando, proprietario dello “Chez Maxime”, aveva deciso che avrebbe contribuito a migliorare l’arredamento del locale se fosse rimasta chiusa, ornata con due tende di pizzo bianco e un vaso di gerani rossi sul davanzale. Così i camerieri, cioè l’Armando stesso e Serena, per servire in tavola ora passavano dalla porta, stando bene attenti ai due scalini che sembravano essere stati messi lì apposta per inciamparsi. Batti passava ore e ore seduto a quella finestra. Ormai era diventato il suo posto. Lì, specie nei lunghi pomeriggi d’inverno, poteva chiacchierare con Teresa, detta la “Terre”, moglie dell’Armando e cuoca della trattoria. E da lì, nascosto dietro la tenda di pizzo, poteva sbirciare, non visto, verso la sala da pranzo. In particolare verso il tavolo numero tre, un piccolo tavolino in grado di ospitare un solo coperto. Due al massimo nei giorni di piena. E cioè mai, visto che da anni la vecchia trattoria raccattava solo uno sparuto drappello di clienti al giorno, il minimo indispensabile per non fallire. Eppure lo “Chez Maxime” aveva conosciuto momenti migliori. Era stato nei primi anni Sessanta, nel periodo del cosiddetto boom economico, quando la frenesia del benessere (o forse solo l’illusione?) aveva pervaso anche Genova e i suoi quartieri più antichi. A quel tempo Armando Torrazza (la sua famiglia era originaria proprio di Borgo Incrociati) era rimpatriato dalla Francia dove i suoi genitori avevano avuto il buon senso di emigrare al primo colpo di cannone che aveva segnato l’inizio della guerra. Armando tornò con tre cose: una borsa piena di franchi fatti non si seppe mai come; un’amante parigina, Francine Guivarche, «raccattata certo in qualche bordello», sentenziarono i più maligni; e un nome altisonante, Armand Torassà, che sulle prime trasse in inganno tutti. Con i franchi Armando acquistò il vecchio appartamento del borgo che era stato dei suoi nonni. Fece aggiungere la veranda e, con una gran festa alla quale partecipò anche la banda del quartiere, inaugurò lo “Chez Maxime”. Qualcuno gli fece pure notare che la dizione esatta sarebbe stata “Maxim” e non “Maxime”. Ma lui aveva già fatto fare l’insegna, gli inviti, i cartoncini col menù. «Voi non capite niente.», aveva così improvvisato una spiegazione «In francese, è vero, si dice “Maxim”, ma nel dialetto parigino la dizione giusta è “Maxime”». Era, ovviamente, una balla colossale che però gli fu perdonata quando offrì una bicchierata gratis a tutto il borgo. Gli affari andarono bene per qualche anno. La trattoria ospitava a mezzogiorno operai, impiegati, commesse. E la sera, complici forse le belle cosce di Francine generosamente scoperte da una serie di minigonne colorate ante-litteram, una buona fetta di quella Genova bene che riscopriva il gusto della vita notturna. “Trippe alla moda di Caen”, “Ragout all’alsaziana”, “Escargot”, recitava pomposamente la carta vergata su un foglio di pergamena da un anziano professore di calligrafia che abitava nel portone a fianco del ristorante e che aveva barattato la sua opera con una serie di pasti gratis. Poco male se poi le trippe erano normalissime trippe accomodate, se il ragout era spezzatino e le escargot erano lumache cotte come a Genova si cuocevano da almeno trecento anni. Il menù offriva anche il “gazpacho andaluso”. Con la cucina francese non ci azzeccava proprio niente, d’accordo. Ma faceva così esotico! La fortuna cominciò a girare nel giro di un paio di anni. Come tutte le mode, anche quella di andare a cena da “Chez Maxime” nel vecchio borgo, tramontò quasi di colpo. E il grande salone della trattoria, sera dopo sera, appariva sempre più tristemente deserto. Per contro i commensali del mezzogiorno, interessati più a un pasto frugale da consumare nella pausa di lavoro, cominciarono a stufarsi delle escargot, del ragout e di Caen. L’elegante foglio di pergamena venne ben presto dimenticato in un cassetto e le trippe accomodate tornarono ad essere trippe accomodate, così come lo spezzatino tornò ad essere spezzatino. Nel menù comparvero anche gli spaghetti e le trenette al pesto. L’apertura delle prime tavole calde, sul fare degli anni Settanta, e delle prime paninoteche diedero il colpo di grazia al locale. La bella Francine, stufa di mostrare le cosce (fra le altre cose ormai anche un po’ cellulitiche) decise di abbandonare la barca che stava malamente naufragando e fuggì insieme a un camionista suo connazionale. Fu allora che don Filippo, il vecchio parroco del borgo, spulciando negli archivi della chiesa cancellò anche l’ultimo tocco di esotismo dallo “Chez Maxime”: «Armand? Ma che Armand e Armand! Quello è l’Armando, il figlio dei Torrazza che emigrò in Francia con i genitori quando non aveva ancora dieci anni». Furono momenti difficili per la vecchia trattoria del borgo. Ma Armando non mollò. Strinse i denti e andò per la sua strada. Con qualche cambiamento, è ovvio. Il più evidente fu la Terre al posto di Francine. La Terre, genovese doc, non aveva le gambe di Francine, pesava ottanta chili, ma non aveva grilli per la testa e soprattutto sapeva cucinare: poche cose, ma bene. Assunta come cuoca e pagata a percentuale, finì col prendere in mano le redini della situazione. Fu lei a convincere Armando ad accettare la convenzione con una vicina ditta che produceva giocattoli: quei diciotto commensali ogni mezzogiorno garantivano un buon guadagno. Fu lei a spargere la voce nel quartiere che sarebbe stato applicato uno sconto del dieci per cento a tutti i dipendenti della vicina stazione ferroviaria di Genova Brignole che avessero deciso di tradire l’asfittica mensa aziendale con lo “Chez Maxime”. E fu ancora lei che decise di assumere una giovane cameriera, Serena, una mano in più per servire in tavola ma anche per lavare i piatti, pulire i pavimenti, fare la spesa e tutti gli altri lavori necessari per mandare avanti la trattoria. Il passo successivo fu quello di mettere Armando davanti all’evidenza dei fatti: «Non fosse per me», gli ripeteva almeno dieci volte al giorno «saresti già fallito da un pezzo... Altro che dar retta alle fisime che ti ha messo in testa quella francese, quella Francine». E pronunciato da lei, con quelle labbra grosse, carnose che le riempivano mezza faccia, il nome Francine sembrava una bestemmia. Fu un lavoro lento, metodico, la tessitura della tela da parte di un ragno arguto, furbo, che sapeva perfettamente tirare il filo giusto al momento giusto. Fatto sta che Armando un bel giorno capitolò e finì per sposarsela, la Terre. Il rito fu celebrato da don Filippo in una chiesa gremita soprattutto di curiosi. Testimone per l’Armando, fu Serena che si presentò in un abito blu, a dire la verità un po’ stinto dagli anni. Testimone per Teresa, fu Batti. «Un carissimo amico di famiglia», lo presentò la sposa «È come se fosse mio zio». E invece era l’amante ufficiale della Terre, donna sì di ottanta chili che le conferivano un aspetto esteriore pacioso, ma capace di una sessualità vulcanica che non riusciva a sopirsi né col passare degli anni né con la nuova condizione di donna accasata. Il ménage a due divenne ménage a tre con buona pace dell’Armando che si rassegnò al fatto che Batti trascorresse quasi tutte le giornate allo “Chez Maxime”. C’è da dire che nel suo piccolo dava anche una mano. Teneva compagnia alla Terre, ne subiva in prima linea gli scatti di rabbia quando qualcosa non andava per il verso giusto, facendo da parafulmine all’Armando che per questo aveva imparato a essergli grato. Era diventato l’assaggiatore ufficiale di vini e liquori (e di questo l’Armando gli era meno grato). E poi amava dare consigli praticamente su tutto. Un’attività, quest’ultima, che gli veniva dalla supposta saggezza che, asseriva lui, aveva accumulato durante un’intera, grama vita passata a inventarsi giorno dopo giorno il modo con cui sbarcare il lunario. «Sapessi tutte le avventure che ho avuto!», amava ripetere Batti accompagnando la frase con la mano destra alzata verso il cielo e facendo vagare lo sguardo furbo verso l’infinito. Ma se qualcuno gli chiedeva cosa avesse fatto in vita sua, quale fosse stato il suo mestiere, lui candidamente rispondeva: «Io? Non ho mai fatto nulla. Non ho mai lavorato. Lavorare? Sono buoni tutti. Provatevi un po’ voi ad arrivare a sessantotto anni senza aver mai lavorato, senza aver mai chiesto l’elemosina e senza essere diventato un barbone. Questo sì, che è difficile. Il giorno in cui morirò sulla mia tomba voglio una lapide: “Qui riposa Batti,” deve esserci scritto “che in vita sua ha sempre riposato”». I “consigli” di Batti avevano la capacità di mandare in bestia l’Armando. Perché non era infrequente, specie durante l’ora di punta, vedere la Terre che si affannava ai fornelli, Armando e Serena che facevano la spola tra la cucina e la sala da pranzo con pile di piatti sempre più alte in equilibrio sulle mani, i volti sudati, i grembiuli sporchi, i piedi che facevano male nelle scarpe. E lui, Batti, se ne stava lì imperterrito sulla sua sedia accanto alla finestra. «Attento che ti sta cadendo la forchetta!», apostrofava l’Armando che andava e veniva. «Terre, ho assaggiato il sugo... Manca il sale, aggiungine una presina». Senza disdegnare, quando gli capitava a tiro, di allungare una manata sulle chiappe di Serena che ogni volta lanciava un urlo simile a un nitrito. Viene da sé che la sua attività di consigliere non era pienamente apprezzata dall’Armando il quale talvolta sbottava e lo mandava pari pari a quel paese con maleparole che si udivano fino in fondo alla strada. La vita, allo “Chez Maxime”, proseguiva serena, placida, in un’atmosfera quasi ovattata, così lontana dalla schizofrenica frenesia della “city” che pure distava solo poche centinaia di metri dal vecchio borgo. Armando, la Terre e Batti vivevano praticamente insieme nella trattoria che serviva loro anche da casa. La sera, poco dopo le dieci, spegnevano l’insegna luminosa e tiravano giù la saracinesca a metà. Poi si accomodavano in sala a godersi il tv color a 29 pollici che avevano acquistato come cambio merci (cioè in cambio di cinquanta pasti di mezzogiorno gratis) dal negoziante di elettrodomestici all’angolo. Quasi sempre si fermava anche Serena, la cameriera dai denti di cavallo, che preferiva la quiete della trattoria ai continui litigi dei suoi genitori. E poi il televisore che aveva in casa era un vecchio portatile di soli 18 pollici. La fauna serale dello “Chez Maxime” era completata da altre presenze, sia d’inverno «perché in casa mia c’è tanto freddo», sia d’estate «perché in casa mia fa davvero troppo caldo», che si alternavano nella sala come spettatori non paganti. Erano i solitari del Borgo, quelli che erano stati dimenticati dai parenti e dagli amici e che ogni occasione era quella buona per mendicare un po’ di calore umano. Nelle loro case non c’era né troppo freddo d’inverno né troppo caldo d’estate. C’era solitudine in tutte le stagioni. I più assidui frequentatori delle serate televisive erano Tommaso, ex ragioniere del catasto, uomo tutto d’un pezzo e politicamente un po’ nostalgico, tanto che quando seppe che la famiglia dell’Armando era scappata in Francia durante l’era fascista, non si fece vedere per quasi un mese. Poi il bisogno di compagnia fu più forte della sua impuntatura. Dalle cose della politica era invece lontana mille miglia Nena, insegnante di chitarra ai cui affari aveva nuociuto l’avvento della musica beat, a metà degli anni Sessanta e la diffusione delle chitarre elettriche che lei detestava. Era una donnina dall’aspetto dolce, rassegnato, che vestiva con un’eleganza antica. Arrivava verso le nove di sera con la sua gatta in braccio, «perché non ho cuore di lasciarla sola in casa», si giustificava. Si sedeva vicino alla luce e guardava la Tv mentre faceva l’uncinetto con la gatta che, ai suoi piedi, rincorreva il gomitolo di cotone. C’era anche Ambrogio, ex guardia carceraria di Marassi, che era un fanatico dei film gialli. E quando c’era da scegliere litigava sempre con Lucia, l’ex maestra elementare, che preferiva i documentari naturalistici ma non disdegnava affatto i drammoni d’amore, specialmente quelli con finale tragico. Forse per una questione autobiografica, visto che nel Borgo correva voce che in gioventù fosse stata la protagonista di una storia con un giovane portalettere che era stato stroncato dal mal sottile proprio alla vigilia delle nozze. La giornata dello “Chez Maxime” finiva sul far della mezzanotte, quando anche l’ultimo ospite usciva dal locale. Armando e la Terre si ritiravano nella loro stanza, proprio sopra la cucina, collegata alla trattoria da una scala interna. A malincuore se ne andava anche Batti che, nonostante i risaputi rapporti che aveva con la Terre, non osava turbare l’intimità notturna del talamo coniugale. Per lui era pronta una cameretta nel sottoscala di una pensioncina in via Canevari, a poche centinaia di metri di distanza. Non c’era nemmeno l’acqua corrente, l’arredo era quel che era e la finestra si apriva a livello marciapiede. Del resto i patti erano chiari: lui pagava poco e solo quando poteva. Un uomo solo al ristorante è uno spettacolo. Batti ne era sempre più convinto mentre, dalla sua solita postazione, stava osservando, con la curiosità di un entomologo verso un insetto, quel distinto signore in giacca e cravatta che era entrato poco prima e che era stato fatto accomodare al tavolo numero tre. Non solo, quella sera, era l’unico cliente dello “Chez Maxime”, ma per giunta era un cliente decisamente anomalo. La trattoria, di sera, era ormai frequentata solo dagli operai trasfertisti che alloggiavano nella vicina pensione di via Canevari. E quel signore non aveva proprio nulla dell’operaio trasfertista. Innanzitutto era proprio un vero signore, non tanto per la giacca, la cravatta e il cappotto che aveva tutta l’aria del cachemire. Ma soprattutto per il suo modo di fare, per i suoi gesti misurati e attenti che tradivano educazione e cultura. Per quello sguardo abituato a soppesare gli interlocutori alla prima occhiata. Uno sguardo capace di incutere rispetto e soggezione. Eppure c’era qualcosa che non quadrava. Batti scostò la tendina di pizzo azzurro, si assicurò di non essere visto e osservò meglio. Quell’uomo appariva turbato. Profondamente turbato. Spiluccava senza fame la fetta di arrosto unto e bisunto che Serena gli aveva servito e continuava a spiare l’orologio come se aspettasse qualcuno e fosse in ansia perché non lo vedeva arrivare. Ad un tratto prese dalla tasca il telefonino e cominciò a comporre un numero. Poi ci ripensò: chiuse lo sportelletto del cellulare con gesto secco e lo rinfilò in tasca. Riprese a mangiare senza appetito. Poi tornò a guardare l’orologio ed ebbe quasi un sussulto quando la porta della trattoria si aprì. Era la Nena che arrivava con la sua gatta sottobraccio. «Ciao Serena... Sono venuta a scaldarmi un po’. A casa mia c’è tanto freddo...». L’uomo del tavolo numero tre sembrò afflosciarsi su se stesso. «Aspetta qualcuno!». «Cosa stai brontolando, Batti?». «Dico che quel tizio sta aspettando qualcuno». La Terre si chinò per sbirciare la sala da pranzo sotto il bordo della tendina. «È un bell’uomo. Starà aspettando la sua amante». «Quello non è il tipo da avere l’amante». «Beh, se è per quello neanche tu sei il tipo da avere un’amante...». «Eppure ti dico che quel tizio è alle prese con un problema». La Terre non era tipo che amasse il gioco sottile dell’introspezione psicologica. «Sarà, ma a te che ti frega? Piuttosto levati di lì che devo pulire e fra poco comincia il film. Non voglio perdermi l’inizio che poi non ci capisco niente». L’uomo del tavolo numero tre finì di pranzare con una mela e un caffè che sorbì amaro. Pagò il conto ma non si alzò subito. Stette seduto al suo posto per almeno un’altra mezzora, gli occhi fissi sul film che era già iniziato ma contemporaneamente persi in un altro spettacolo di cui evidentemente solo lui conosceva la trama. Verso le dieci, dopo aver dato un’occhiata per l’ennesima volta all’orologio, si alzò per andarsene. Indossò il cappotto e, una volta sull’uscio, si voltò per borbottare un saluto.
Free reading for new users
Scan code to download app
Facebookexpand_more
  • author-avatar
    Writer
  • chap_listContents
  • likeADD