Capitolo secondo

2447 Words
Capitolo secondo L’uomo chiuse alle sue spalle la porta della trattoria e si sollevò il bavero del cappotto. Fuori, in via Borgo Incrociati, le pietre del selciato luccicavano di umidità. Un’umidità diffusa che riempiva l’aria della notte di un odore di marcio e penetrava sotto gli abiti in sottili brividi di freddo. In quell’autunno non ancora avanzato era come se Genova fosse avvolta in una nube carica di pioggia sottile che non si decideva a cadere. L’uomo guardò a destra e a sinistra come indeciso su quale direzione scegliere. Per un attimo rimase immobile ad annusare la notte, poi si avviò a passi decisi in direzione della stazione Brignole. Intorno non c’era anima viva né rumori provenivano dalle case. Da una finestra del primo piano, l’unica in tutta la via non ancora oscurata dalle persiane, traspariva un baluginio azzurrognolo di televisore acceso che si rifletteva sull’impiantito bagnato della strada creando oleosi giochi di luce. Camillo Ardeani infilò le mani nelle tasche del cappotto e accelerò il passo. La destra incontrò il freddo metallico del telefonino. Lo tirò fuori quasi senza pensarci. Ne aprì lo sportelletto e un tenue bagliore illuminò lo schermo del cellulare. Nessun messaggio. Che cosa era successo? Che cosa significava quel silenzio? Perché, quella sera nessuno si era fatto vivo? Quell’appuntamento da “Chez Maxime” era solo una trappola? E se sì, per quale ragione, con quali fini? Ardeani si guardò attorno con occhi inquieti mentre il rumore secco dei suoi passi rimbombava sul selciato. Sulla destra una grande vetrina lasciava penetrare lo sguardo fra le ombre di vecchi mobili, statue di marmo, quadri con pesanti cornici barocche, cianfrusaglie indistinte abbandonate su tavoli e sedie. Un universo da bric-à-brac dal quale sembrava levarsi lo stesso odore di muffa che permeava l’aria. Camillo Ardeani scorse il suo riflesso impastarsi sulla schermata grigia del vetro antisfondamento, perdersi nel buio del negozio come inghiottito da quella ridda di anticaglie sparse senza alcun ordine apparente. Conosceva molto bene quel tipo di negozio. In Borgo Incrociati c’era stato più volte in passato. La prima volta agli inizi degli anni Settanta quando nella strada non si era ancora aperta la ferita del crollo che la furia del Bisagno, straripando, aveva causato. A parte quell’edificio nuovo, in cemento armato che ne rompeva l’armonia, il borgo non era cambiato granché. Una piccola oasi, uno scampolo di passato dimenticato dall’incedere delle nuove opere, protetto dal ponte della ferrovia e dalla stazione che ne avevano separato il destino urbanistico da quello di piazza Verdi, dominato dalle doppie torri vetrate del complesso di Corte Lambruschini e, ancor prima, dagli spigolosi interventi geometrici dettati dell’architettura fascista in piazza della Vittoria. Un angolo di vecchia Genova incuneata fra gli argini del Bisagno, smodatamente larghi in estate e pericolosamente stretti nella stagione delle piogge, e i muraglioni di corso Monte Grappa dove la città iniziava a inerpicarsi verso piazza Manin e le alture circostanti in un rincorrersi di palazzi ritti in punta di piedi, lo sguardo rivolto al mare: vicinissimo eppure lontano e invisibile. In Borgo Incrociati, Camillo Ardeani era capitato più volte per lavoro. C’era venuto a caccia. In quei negozi di robivecchi uno sguardo attento, lo sguardo di un professionista, poteva non di rado scoprire insospettati tesori. Almeno negli anni Settanta in cui la conoscenza dell’antiquariato, quello vero, era patrimonio di pochi e non era raro scoprire in un vecchio tavolo minato dai tarli e magari mascherato da una mano di vernice, una preziosa frattina del Settecento o, in una cornice smaltata, un pezzo art nouveau. Fare affari, in quegli anni, non era difficile. Nonostante la caparbia ostinazione degli ignari possessori di quei tesori, abituati a valutarne il valore quasi esclusivamente spiando l’intensità dell’interesse dell’acquirente. Un criterio aggirabile con una buona dose di psicologia del commercio e una sapiente gestione degli sguardi. Bastava, in buona sostanza, sviare l’attenzione del venditore trattando oggetti di scarso interesse e solo all’ultimo, quasi per noia o distrazione, puntare con indifferenza l’indice sul pezzo che si voleva realmente acquistare. E ad Ardeani non di rado era accaduto di ottenerli addirittura gratis, senza sborsare una lira: come aggiunta, come regalia a un acquisto in blocco di cose di poco valore pagate, quelle sì, decisamente più di quanto non valessero. Camillo Ardeani sorrise fra sé rievocando nella mente alcune di quelle ferocissime trattative. E ancor più pensando all’intenso piacere provato quando finalmente quegli acquisti giungevano nel suo negozio di antiquariato in via Giulia, a Roma. Quando, scartato il ciarpame destinato a essere rivenduto in blocco e a poco prezzo ai robivecchi di Trastevere, metteva mano sulla chicca della quale era riuscito a venire in possesso. A volte anche solo una vecchia tela, un soprammobile, un paio di candelabri magari acquistati assieme a un’intera camera da letto utilizzata come esca, per sviare l’avida attenzione del venditore. Da quel quadretto, da quei candelabri era spesso in grado di guadagnare sino a cento volte tanto quanto speso a Genova. «Altri tempi», sospirò giungendo alla fine della strada e varcando l’ideale soglia che mette il borgo in collegamento con lo sferragliante dominio della stazione, rumorosamente nascosto dietro il palazzo delle Poste. Svoltò a destra e proseguì sino ad imboccare il sottopassaggio pedonale di Brignole. Un lungo tunnel dalle pareti piastrellate di bianco e spezzato, sulla sinistra, dalla orbite oscurate dalle serrande di una manciata di piccoli negozi. Tane claustrofobiche ingombre di mercanzie, apparivano di giorno alla luce bianca dei neon. Loculi del commercio in cui d’inverno l’aria, veicolata dal vortice del tunnel, entrava fischiando a ogni aprir di porta e, d’estate, si faceva appiccicosa nel mulinare ininterrotto dei ventilatori. Camillo Ardeani accelerò colto da una improvvisa inquietudine. L’eco dei suoi passi rimbalzò sul soffitto a volta della galleria. Dall’altra imboccatura, quella che si apriva su piazza Verdi e per il momento invisibile, il vento giungeva impetuoso quasi a rallentarne il passo. Addossati alle pareti, sdraiati a terra e protetti dalla corrente da un riparo costruito con grosse scatole di cartone, due ragazzi dormivano imbozzolati in un largo sacco a pelo verde militare, circondati da tre grossi cani neri anch’essi addormentati. Appoggiata a due zaini traboccanti, una chitarra e una vaschetta per le elemosine. Le teste, quasi interamente nascoste dai lembi del sacco a pelo, lasciavano intravedere la bionda e lunga chioma di lui e i capelli tinti di azzurro con larghe striature rosa di lei. Punkabbestia era la loro metropolitana tribù. Una tribù alla quale i mass media avevano ormai da tempo dato dignità di esistenza ai margini della società dei consumi. Nuovi barboni dall’anonimo passato e dal futuro incerto, meno rassicuranti dei loro predecessori che sulla strada erano finiti spinti quasi tutti dal bisogno o dal disagio e non da una frattura insanabile con una realtà periferica emarginante e crudele. Una frattura segnata da un’ostile aggressività che faceva paura e non lasciava alcuno spazio all’aura che avvolgeva la figura del vecchio clochard al quale si faceva credito di una scelta di vita e di libertà che, nella maggioranza dei casi, era frutto di un romanticismo falso e peloso. Le prime note dell’Internazionale ruppero il silenzio della notte facendolo sussultare. La mano di Camillo Ardeani corse in fretta alla tastiera del cellulare e ne pigiò un tasto ancor prima di estrarlo dalla tasca. Uno dei tre grossi cani neri si mosse di scatto annusando l’aria con assonnata ferocia. Poi, valutata l’assenza di pericoli, si riaccoccolò nascondendo il muso fra le zampe. «Pronto...», disse a mezza voce Ardeani portandosi il cellulare all’orecchio. Dall’altro capo del telefonino si sentiva il rumore di auto in una strada stranamente trafficata, vista l’ora. Un sottofondo monotono spezzato da un respiro pesante. «Professore, lei non doveva venire a Genova». «Chi parla, scusi». Ardeani lo chiese in un soffio non riuscendo a dissimulare un guizzo di apprensione. Quella voce non l’aveva mai sentita. Vi aveva colto una leggera inflessione meridionale, ma poteva anche essere frutto di un vago accento straniero. «Lei non mi conosce ma io conosco lei e conosco molto bene chi doveva incontrare questa sera da “Chez Maxime”». «Mi scusi ma non capisco...». «Non è necessario che capisca, professore. L’importante è che domani lei se ne torni a Roma e dimentichi le ragioni che l’hanno portata a Genova». Camillo Ardeani era ormai giunto all’uscita del tunnel. Le luci di piazza Verdi e della vicina stazione ebbero come un effetto tranquillizzante. «Forse è meglio che mi dica chi è e che cosa vuole da me», replicò in tono deciso. «Il mio nome non ha importanza. Non le direbbe nulla. Le ripeto: lei non mi conosce. Però segua il mio consiglio. Lasci stare, se ne torni a casa. Dia retta: lei si sta infilando in un brutto pasticcio ed è ancora in tempo ad uscirne». «Non so di che cosa stia parlando». «Non credo e comunque lo sapeva molto bene la signora con la quale aveva appuntamento questa sera. Torni a casa, professore, dia retta. La vita è così breve e incerta...». L’ultima frase gli giunse impastata dal rombo di un camion. Un’improvvisa impennata di rumore che rese più intenso il silenzio che ne seguì. «Pronto, pronto...», urlò Ardeani. Inutilmente. Lo sconosciuto aveva riattaccato lasciandosi dietro l’eco di quella velata minaccia. Ardeani, fermo impietrito al semaforo di via de Amicis, schiacciò con poca convinzione un tasto del suo telefonino: sul display apparve la scritta “numero sconosciuto”. Lo ripose nella tasca del cappotto e attraversò la strada. Era tardi, ormai, e le vetrine del bar all’angolo gettavano in strada una luce gialla, calda e rassicurante. Ardeani entrò. «Posso sedermi?», chiese all’uomo indaffarato dietro il bancone indicando uno dei divanetti posti accanto alla vetrina. «Spiacente ma stiamo chiudendo. Se vuole bere qualcosa al banco...». «Mi dia una grappa. Una grappa bianca, per favore». Il barista lo guardò con aria indifferente. Si voltò, prese dallo scaffale una panciuta bottiglia di Nonino e ne versò una dose generosa in un flûte. «Cinque euro... Scusi sa, ma sto chiudendo anche la cassa». Ardeani gli porse una banconota da dieci e bevve un sorso di grappa. Trattenne il liquore in bocca per qualche secondo assaporandone l’intenso aroma di vitigno, poi lo lasciò precipitare in gola godendo del calore che diffondeva nella sua discesa verso lo stomaco. Prese un altro piccolo sorso. «Posso fumare?», azzardò lanciando uno sguardo nel locale completamente vuoto. «Per me non c’è problema, fra un paio di minuti chiudo. In ogni caso la multa la paga lei». Si accese una Marlboro e ne aspirò la prima boccata con ingordigia. Il fumo e la grappa scalfirono l’inquietudine nella quale aveva vissuto le ultime ore e il senso di disagio che gli aveva lasciato dentro la telefonata dello sconosciuto. Era dunque una donna il misterioso contatto genovese del quale gli avevano parlato? Era lei che avrebbe dovuto raggiungerlo da “Chez Maxime” per consegnarli il cofanetto? “Qualcuno che tu conosci”, gli aveva detto il suo socio che si era fatto tramite di quell’incontro rifiutandosi però di svelargli il mistero. Lui aveva pensato a un gioco, uno scherzo del tutto in linea con lo stile dell’amico e non aveva insistito oltre per sapere di chi si trattasse. L’importante era che l’affare giungesse in porto. Ma, chissà perché, aveva pensato che il misterioso contatto genovese fosse un uomo e ora era sorpreso nello scoprire che in realtà si trattava di una donna. Sempre che fosse vero. Sempre che lo sconosciuto che gli aveva telefonato avesse detto la verità. Certo doveva essere al corrente dell’affare. In caso contrario non avrebbe saputo del suo appuntamento al ristorante di Borgo Incrociati, né tantomeno avrebbe avuto il suo numero di cellulare. Chi poteva essere? In che modo e attraverso chi era legato a quell’affare? «Devo chiudere». La voce del barista aveva un tono asettico appena addolcito dall’incedere cantilenante dell’italiano che si parla a Genova. Camillo Ardeani intascò i cinque euro di resto, svuotò d’un sorso il bicchiere di grappa e uscì, facendo un cenno di saluto con la testa. «Buonanotte», disse con le spalle ormai volte al bancone e lo sguardo in strada. Fuori l’aria si era fatta più tiepida o forse era la grappa ad averlo riscaldato ricacciando l’umidità che gli era entrata nelle ossa appena uscito dal ristorante. In ogni caso non aveva molta strada da fare. Aveva fissato una stanza proprio lì accanto, all’hotel Verdi. La luce dell’insegna dell’hotel tingeva di verde la volta dei portici facendo a pugni con il rosso di quella del cinema porno che apriva i suoi torbidi battenti pochi passi più avanti. Nella hall i suoi passi furono attutiti dalla vecchia e sdrucita passatoia bordeaux e solo il campanello che tintinnò al richiudersi della porta a vetri scosse la signorina dietro il banco della reception. «Buonasera signore. Che camera?». La ragazza aveva i capelli corti e neri tagliati a spazzola, occhi nocciola, un naso affilato e una voce arrochita. Non era bella, il fisico molto magro fasciato nella divisa blu dell’albergo metteva in mostra due piccoli seni, ma aveva un che di provocante nello sguardo. Poteva avere una trentina d’anni. Camillo Ardeani le disse il numero della stanza e si scoprì a guardarsi di sottecchi nello specchio quasi a misurare l’intensità residua del suo fascino. Ai suoi tempi, come si dice, aveva fatto sfracelli giocando su una cultura raffinata, su modi eleganti, su una discreta disponibilità di denaro e su un viso spigoloso illuminato da due occhi blu intenso. Ora, a cinquantacinque anni, poteva ancora dirsi un uomo interessante. I capelli dritti e costretti all’indietro con persistenti dosi di gel si stavano tingendo di grigio e fili argentei facevano capolino anche sulle basette e sulla barba che aspettava la rasatura dell’indomani. Era alto poco più di un metro e ottanta e con gli anni si era un poco appesantito. Una leggera pinguedine che l’abito scuro di sartoria dal taglio impeccabile dissimulava perfettamente. Senza pensarci portò la mano al nodo della cravatta regimental come per sistemarla al posto giusto sotto il colletto della camicia blu scuro. Sì, poteva ancora piacere alle donne, decretò con una certa soddisfazione sentendo su di sé lo sguardo incuriosito della ragazza d’albergo. Prese la chiave che questa gli porgeva. «Può svegliarmi domani mattina alle otto?». Stava avviandosi verso le scale quando il suo telefonino iniziò a vibrare. Lasciò che le note dell’Internazionale risuonassero per un po’, prima di rispondere. Lo divertiva osservare lo sguardo interrogativo della gente che gli stava intorno sentendo la suoneria del suo cellulare. Un inno che strideva con il suo aspetto da ricco borghese come una locomotiva in frenata sui binari. «Pronto...». «Ciao Camillo sono io. Ho saputo che l’incontro è andato a monte. Forse è meglio se torni a Roma». «Come sarebbe? Eppoi, scusa, tu da chi l’hai saputo?». «Lascia stare, è meglio parlarne a voce. I cellulari ormai sono come megafoni planetari. Ci vediamo in negozio, in via Giulia, domani sera». «Sei la seconda persona questa notte che mi dice di levare le tende da Genova. Cos’è, fate parte del contro-ufficio promozione della città?». «C’è poco da scherzare, Camillo. Soprattutto con la persona che ti ha chiamato prima di me». «Come, come? Tu allora la conosci?». «Ne parliamo con calma, domani a Roma. Buonanotte». Ardeani ripose in tasca il telefonino con un gesto di stizza. Diede un’occhiata all’infilata di orologi appesi sopra la reception. A Tokyo erano già le otto e mezza del mattino seguente, a New York erano ancora le sei e mezza del pomeriggio. A Roma come a Genova il nuovo giorno era arrivato appena da mezzora. Provò un senso di sgomento, di assoluta, improvvisa e insopportabile solitudine. «A che ora smonta signorina?». La ragazza lo guardò con aria divertita, tutt’altro che sorpresa. «Fra mezzora, signore». «Le andrebbe di portarmi dello champagne in camera?». «Forse... chissà».
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