CAPITOLO DUE
Una volta credevo che le stelle fossero angeli. Una grandiosa armata in attesa dell’ultima battaglia contro i Druj non-morti. La luce brillava sulle loro spade, che erano fatte d’argento e intarsiate di pietre preziose. Quando fosse arrivato il momento di tornare sulla Terra per giudicare i malvagi, quell’orda celestiale sarebbe stata condotta dal Sacro Padre in persona, a cavallo di uno stallone che sputava un freddo fuoco azzurro.
Davvero, la cosa aveva senso per me.
Poi il mio daeva, Darius, mi aveva spiegato che le stelle erano in realtà soli, soltanto molto distanti. Che erano, in effetti, globi fiammeggianti di una vastità incommensurabile. Ciò contraddiceva la ragione. Prima o poi avrebbe sostenuto che anche la Terra fosse una sfera.
Ma mentre giacevo sulla schiena, ad ascoltare le onde lambire lo scafo e a osservare la cupola del cielo notturno, seppi che aveva ragione. Riuscivo ad avvertire anch’io la loro feroce energia, ora. Mi faceva sentire a disagio. In quei giorni spesso sognavo il fuoco. I sogni terminavano sempre con il mio daeva morto, il sangue a ribollirgli nelle vene, e con me illesa.
«Cosa c’è che non va?» mi domandò Darius. Sentiva il mio malessere grazie al legame, anche se non ciò che lo provocava. Non poteva leggermi la mente, cosa di cui sarei stata grata per l’eternità.
«Niente. Dimmi di più su Karnopolis.»
Darius sospirò. «Ti ho già detto tutto ciò che so, Nazafareen.»
«Dimmelo di nuovo.»
Mi voltai a guardare il profilo di Darius, il naso appuntito e i capelli tagliati corti. Lo avevo baciato soltanto una volta ma avrei voluto farlo di nuovo. Disperatamente. Eppure le barriere tra di noi erano tornate al loro posto. Fino a poco tempo prima ero stata la sua padrona e lui poco più di uno schiavo. Non aiutava il fatto che fossi legata anche a suo padre, Victor, che lui odiava, e che stessimo andando verso la sua città natia, un luogo per lui pieno di ricordi terribili. In ogni caso, Darius era in uno stato mentale delicato. All’esterno sembrava calmo. Ma io sapevo che aveva paura. Ne avevo anch’io.
«È la più grande città dell’impero», disse Darius. «Dieci volte più vecchia di Persepolae, almeno. I suoi architetti avevano amore per la simmetria, di conseguenza Karnopolis forma un enorme quadrato, lungo precisamente quattordici leghe su ogni lato e vanta duecentocinquanta torri di guardia lungo le mura. La zona che conosco meglio è il distretto del tempio, dove tengono i daeva. Di solito è piena di pellegrini, perciò dovremmo essere in grado di confonderci tra loro.»
Sbuffai. «Certo, una ragazza con una mano sola e un ragazzo con un braccio avvizzito. Nessuno noterà che casualmente corrispondiamo alla descrizione della coppia più ricercata dell’impero, ne sono sicura.»
«Cose del genere possono essere occultate», disse Darius. «Stai avendo ripensamenti?»
«No», risposi. «Quelli li ho avuti un po’ di giorni fa.»
«Ti sei offerta volontaria.»
«Oh, non mi sto lamentando. Sto soltanto constatando l’ovvio. Se il Profeta è ancora vivo, lo terranno in qualche buco così profondo e oscuro che non potrebbe essere trovato in due anni, figuriamoci in sole due settimane.» Mi sollevai su un gomito. Il cielo a est stava iniziando a rischiararsi. Riuscivo a vedere una serie di isole frastagliate in lontananza, le loro piccole case bianche e azzurre aggrappate come cozze sulle rocce. «Ma dobbiamo provare. E se riesco a uccidere qualche Numeratore, tanto meglio.»
Darius sorrise. «Quanto sei assetata di sangue, Nazafareen.»
«Soltanto con i cacciatori di daeva. E con i magi.» Ci pensai su per un momento. «E con il Re, ovviamente. E possiamo buttare nel mucchio anche i satrapi, già che ci siamo.»
«Già, hai proprio una lista corta.» Si interruppe. «E a proposito di uccisioni, ti sei allenata?»
Sapevo che si riferiva al potere. Non avrei dovuto essere in grado di toccarlo. Manipolare i tre elementi praticabili – acqua, aria e terra – era un talento da daeva e io ero umana.
«Sì», borbottai. «È come provare a salvare una barca con un secchio bucato. Parecchia attività frenetica, ma si finisce sempre in fondo all’oceano.»
«Dai tempo al tempo.»
«È quello che dici sempre. Ed è l’unica cosa che non abbiamo.»
«Prima andavamo bene», puntualizzò Darius. «Puoi ancora combattere con una spada. E io sono abbastanza forte con il potere per tutti e due.»
Poteva essere discreto e persino gentile quando sceglieva di esserlo, perciò Darius non lanciò neanche un’occhiata alla mia mano mancante. Sicuro, potevo ancora brandire una lama con la sinistra, che fortunatamente era la mia mano più forte. Ma era ridicolo far finta che la mia abilità fosse rimasta la stessa.
«Non riesco a scrollarmi di dosso la sensazione che stiamo saltando nelle sabbie mobili», dissi. «Troviamo quel maledetto vecchio il prima possibile e rimettiamoci in marcia.»
«Non parlare così del Profeta.» Darius aggrottò le sopracciglia. A differenza di me, lui era ancora devoto. «Non voleva che accadesse niente di tutto ciò.»
«E tu come lo sai? Perché lo dice Victor?»
Gli occhi azzurri di Darius brillarono pericolosamente al nome di suo padre. «Zarathustra era… è un brav’uomo. Le sue intenzioni sono state distorte.»
«Bel modo di metterla. È grazie a lui che i daeva sono stati schiavizzati.» Sospirai. «Non discutiamo. Ciò che penso non importa. Deve soltanto vivere abbastanza da convincere gli Immortali di Persepolae a deporre le armi prima che Alexander rada al suolo la città. Dopodiché, non me ne importa un fico secco di cosa gli accadrà.»
Guardammo sorgere il sole in un fragile silenzio. Non capivo perché Darius ancora si aggrappasse alla Via della Fiamma dopo tutto ciò che gli era stato fatto. Il suo braccio sinistro era un guscio avvizzito a causa del processo di unione. Il bracciale lo aveva menomato: un’altra cosa su cui i magi avevano mentito. Sostenevano che le infermità dei daeva facessero parte della loro maledizione Druj. Neanche per sogno. Francamente non avevo idea di cosa fossero o da dove provenissero. Darius neanche, cosa che faceva parte dei suoi problemi. Non riusciva a rinunciare a ciò in cui credeva quando non aveva niente con cui sostituirlo.
«State di nuovo litigando?» Tijah si accomodò al mio fianco, imitata alcuni istanti dopo dalla sua daeva, Myrri. Avrebbero potuto essere sorelle: entrambe alte e magre, con occhi inclinati e la pelle del colore del tè forte. Tijah portava i capelli in dozzine di piccole trecce, mentre quelli di Myrri scendevano in morbidi ricci sulle sue spalle. Il legame aveva privato Myrri della lingua, di conseguenza utilizzavano un sistema di gesti manuali per comunicare.
Le dita di Myrri danzarono e Tijah scoppiò a ridere.
«Neanche lontanamente», dissi. «Stavamo soltanto ammirando il panorama.»
«Be’, date un’occhiata da babordo», rispose Tijah con un ghigno. Proveniva dalle terre desertiche di Al Miraj e non aveva mai visto una pozza d’acqua più grande di quanto potesse saltare. Trovava l’oceano affascinante e aveva trascorso gran parte del viaggio dal Bosforo persuadendo la ciurma a insegnarle il loro gergo marinaresco, che poi le piaceva sfoggiare a ogni occasione.
Sollevai un sopracciglio alla sua espressione compiaciuta.
«Terra in vista», disse lei.
Darius e io balzammo in piedi e andammo al corrimano opposto, dove l’antica città di Karnopolis si rannicchiava al sole del mattino.
«Sacro Padre», mormorai, dimenticando per un momento che avrei dovuto essere un’eretica.
Fino a tredici anni non avevo mai messo piede in una casa. La mia gente era nomade. Vivevamo in tende in pelle di capra e conducevamo le nostre greggi attraverso le montagne due volte l’anno. Quando avevo lasciato il mio clan per unirmi ai Water Dog del Re, avevo vissuto a Tel Khalujah, che all’epoca mi era sembrata una fervida metropoli. E quando avevo visto per la prima volta la capitale d’estate di Persepolae, avevo capito che Tel Khalujah era soltanto una zona sperduta.
Ma Karnopolis… era cinquanta volte più grande di Persepolae. Mentre navigavamo nel porto, oltre le barche da pesca e le navi mercantili e le agili triremi della flotta del Re, rimasi a guardare a bocca aperta il famoso muro che circondava la città. Curvava lungo il Middle Sea come una parete di scogliera, lanciando ombre affilate sugli edifici di pietra bianca all’interno. Alberi dalla forma bizzarra con ampie fronde e nessun ramo inferiore ondeggiavano alla brezza sul lungomare.
«Mio padre – possano gli dei far avvizzire e cadere la sua virilità – diceva che fanno correre le carrozze in cima al muro», dichiarò Tijah. «Mi piacerebbe vederlo, una volta.»
«Karnopolis ha ogni tipo di divertimento, nonostante gli sforzi dei magi di sopprimere il peccato», rispose Darius, secco. «A meno che non mi sia sbagliato, la nostra destinazione è nel cuore del distretto del piacere.»
Tijah sogghignò. «Perché non mi sorprende che il contrabbandiere abbia amici poco raccomandabili? Be’, lì sarà meno probabile che ci osservino attentamente, suppongo.»
«Hanno dei cancelli speciali per i daeva, come a Persepolae?» domandai. Ci stavo pensando per la prima volta, ma se utilizzavano la prova del fuoco sulle persone in procinto di entrare, allora avevamo un problema.
«Non qui», replicò Darius. «Non ci sono abbastanza daeva perché ne valga il disturbo, credo.»
Mentre la nave faceva calare l’ancora, scendemmo di sotto per recuperare i nostri averi. Nel mio caso, una spada avvolta in un pezzo di stoffa e una piccola borsa di pelle con dentro un cambio di abiti e qualche prodotto da bagno. Era strano indossare un abito invece di pantaloni. Continuavo a inciampare sulla gonna e sperai che non finissimo in una battaglia prima che avessi l’opportunità di cambiarmi.
«Ecco, lascia fare a me», disse Tijah, mentre annaspavo con una mano sola con i ganci del velo. Fece un passo indietro e mi osservò. «Basta con quel broncio lì sotto, Nazafareen. Prova a sembrare umile. Occhi verso il basso.»
Feci un verso volgare e Tijah scoppiò a ridere. «Fai finta di indossare un qarha. È più o meno la stessa cosa. A meno che tu non preferisca essere arrestata ai cancelli.»
«No, sono abbastanza contenta con il velo», dissi, sbuffando il fiato caldo attraverso la bocca. Il lino si sollevò, quindi tornò giù come un albatros che torni al nido.
«Bene. Puoi ringraziarmi dopo.» Piedi sbattevano sul ponte sopra di noi, accompagnati da tonfi e grida mentre le vele venivano abbassate. «Pronta?»
Lanciai un’occhiata a Myrri, anche lei con il velo, la quale sollevò un sopracciglio. «Pronta», risposi.
La nostra nave una volta si chiamava Amestris. Due settimane prima ci aveva tratto in salvo da un villaggio sul Midnight Sea e ci aveva condotto fino all’Ellesponto, dove era accampato l’esercito di Re Alexander. Di conseguenza, la Amestris era finita sulla lista nera, perciò il suo proprietario – il contrabbandiere Kayan Zaaykar – aveva cambiato il nome sulla targa in Photina. Ma il suo capitano era lo stesso e lo salutammo calorosamente mentre la ciurma preparava una lunga barca per portarci a riva.
«Siete sicuri che non dovrei aspettarvi?» domandò, sfregandosi la barba scura sulla mascella.
«Quando ce ne andremo, lo faremo via terra», risposi. «La rotta marittima per Persepolae richiede tre volte tanto. E non è sicura. Qualcuno potrebbe riconoscere la nave.»
Lui annuì. Non era la prima volta che affrontavamo quella discussione. «Dirò a Kayan Zaaykar che siete approdati sani e salvi. Abbiate cura di voi.»
«Anche tu.»
Noi quattro entrammo nella scialuppa e i marinai la fecero scendere in acqua. In pochi minuti remarono fino alla spiaggia, dove erano raccolte le barche da pesca. Avevo sperato di non rimettere piede nei confini dell’impero, ed eccomi lì, diretta proprio alla tana del drago. Lanciai un’occhiata a Darius. La sua espressione non lasciava trapelare nulla, ma sapevo che lo avvertiva anche lui, persino più di me. Terrore.
«Da che parte?» domandò Tijah, mentre i marinai tornavano remando alla Photina.
Il velo nascondeva tutto tranne i suoi occhi castani, che erano freddi e intelligenti. Tijah non si agitava con facilità né lo faceva la sua daeva. Una volta che si impegnava in qualcosa, non si guardava alle spalle. Mi sarebbe piaciuto avere la sua sicurezza.
Darius indicò un mercato del pesce al limitare del porto. «Possiamo tagliare da lì.»
La gente di Karnopolis era principalmente di pelle e capelli scuri, anche se Darius aveva spiegato che la città era un calderone, e attirava mercanti e mercenari e pellegrini da tutti gli angoli dell’impero. La ciancia di dozzine di lingue straniere ci circondò mentre ci facevamo largo attraverso il fervido mercato. Persepolae, la capitale d’estate, era silenziosa e maestosa, piena di abbagliante marmo bianco e rigidi disegni geometrici, ma quella città ribolliva di vita. Le persone erano più rumorose, la loro gestualità più accentuata e l’abbigliamento più vistoso. Gatti magri si aggiravano tra i banconi, alla ricerca degli scarti di pesce. I tavoli erano riparati da tende dai colori accesi; formavano un labirinto di luci e ombre che echeggiavano dei suoni delle contrattazioni fatte ad alta voce.
Mentre raggiungevamo il cancello più vicino per entrare in città, Myrri mi toccò il braccio. Sentii Darius irrigidirsi.
Un corpo era stato inchiodato in cima al muro con spuntoni di ferro, braccia e gambe divaricate. Il volto era stato beccato dagli uccelli ed era appena riconoscibile come essere umano, ma le vesti erano inconfondibili. Un magus. Non avevo un grande amore per i sacerdoti, ma a giudicare dai ciuffi di capelli bianchi che gli scendevano dal cranio, quel pover’uomo era stato vecchio abbastanza da poter essere mio nonno. La vista era resa persino più macabra dalla bellezza dell’imponente cancello di legno, incorniciato da mattoni smaltati di azzurro con un mosaico di cavalli lanciati al galoppo e un bordo di fiori bianchi e blu.