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1772 Words
«Ohhh, povero Donovan» lo prendo in giro. «Sbavare su un gruppo di ragazzi etero.» «La storia della mia vita.» Spinge un sospiro teatrale fuori dalle labbra imbronciate, rigirando la cannuccia nel bicchiere d’acqua. «Ma questo non mi impedirà di guardarli.» «Non ci provi nemmeno.» «Senti chi parla.» Si interrompe per cacciarsi dell’altro cibo in bocca. «Oh cavolo, ragazza, qui si inizia a fare sul serio.» Ho ancora la testa china, l’evidenziatore che vola lasciando striature fluorescenti sul programma. Il mio coinquilino commenta come un giornalista sportivo, dandomi una cronaca minuto per minuto degli eventi che si stanno svolgendo dall’altra parte della stanza. «Eccoli che vanno signori, dieci… no, dodici ragazzi vigorosi che schizzano fuori dalla porta. In coda al gruppo c’è il numero sette, dalla partenza lenta e dalle cosce impeccabili. Capelli castani, questo campione è una star ma non riesce a stare in piedi.» Alzo lo sguardo, divertita. Vedo un ragazzo con una maglietta rossa inciampare sulla porta, ruzzolando all’ingresso. Miagola vicino al distributore di chewing-gum. Si lancia nel parcheggio. «Ecco che vanno, signore e signori, e a proposito scommetterei che se la stanno filando, o sono inseguiti dall’esattore delle tasse o non hanno pagato il conto. Quale delle due potrebbe essere…» Allungo il collo, guardando la tavola calda ora vuota e poi fuori dalla finestra, verso il parcheggio, dove i robusti ragazzi, tutti atleti, si stanno infilando come clown da circo in tre auto. Partono in volata, senza lasciarsi dietro altro che polvere. Inarco le sopracciglia rosse. «Mordi e fuggi?» «Oh sì, assolutamente.» Mi batto il tappo dell’evidenziatore giallo sul mento. «Non avevo mai visto nessuno farlo davvero.» «Sul serio? Non sei mai scappata senza pagare il conto?» Lo guardo fisso, incredula. «Ma parli sul serio? No! Tu sì?» «Una volta.» Ride. «Va bene, due volte, ma ero giovane e stupido e non avevo soldi. Ho anche rubato il menù e le posate.» Ridacchia. «Che stupido.» A questo non posso obiettare, perciò mi concentro sul mio cibo prima che si raffreddi: una bassa pila di pancake, salsicce, pane tostato e tè freddo, con ghiaccio extra. Scarto una tavoletta di burro avvolta in carta dorata, la metto tra due strati di pancake e aspetto che si sciolga. «Merda.» La forchetta di Donovan è sospesa sopra il piatto. «E adesso che succede?» Mi giro sul divanetto, gettandomi i capelli rosso ruggine dietro una spalla prima di appoggiare il braccio sullo schienale. Assieme, io e il mio coinquilino guardiamo un ragazzo uscire dal bagno in fondo al ristorante. Esamina la stanza, le mani sui fianchi. Alto e in qualche modo slanciato, si infila le mani nelle tasche di una felpa della squadra di wrestling dell’Iowa mentre osserva la stanza, le sopracciglia severe aggrottate in una smorfia. Si avvicina con cautela ai tavoli, fermandosi quando la minuta cameriera gli si avvicina e gli batte un dito sul bicipite. Gli porge quello che è evidentemente il conto, gesticolando con le mani verso tutta la stanza. Indica le vetrine e il parcheggio in cui i suoi amici sono scomparsi. «Porca puttana.» Donovan si strozza col waffle e ne deglutisce a fatica un boccone. «Pensi che quegli atleti abbiano lasciato quel tipo col conto da pagare?» «Oh, sembra decisamente che l’abbiano fatto.» «Che teste di cazzo.» I suoi occhi hanno un accenno di luccichio, molto probabilmente per aver menzionato un cazzo. «Sono quasi certo che fosse la squadra di wrestling.» «Come fai a dirlo?» Donovan esamina velocemente il ragazzo, passando gli occhi blu su e giù lungo la sua struttura robusta. Ha la testa china e sta firmando una ricevuta che poi ridà alla cameriera, accigliato. Marcia verso la porta e la attraversa per poi fermarsi fuori. Guardandosi attorno, il golia esamina il parcheggio con le mani sui fianchi: guarda a sinistra, guarda a destra. «Be’, per cominciare, quasi tutti avevano addosso qualche capo di vestiario dell’Iowa Wrestling.» «Capo di vestiario, Donovan?» «Shhh, non interrompere le mie riflessioni.» «In tal caso, ti prego, non lasciare che ti interrompa, procedi.» «Tutto qui. Erano quelle le mie riflessioni.» Alzo gli occhi al cielo, spostando l’attenzione sul parcheggio. Il suono di imprecazioni attutite mi solletica le orecchie e mi sforzo per sentirle. Le parole potranno anche essere smorzate dai doppi vetri, ma, da dove sono seduta, riesco a leggerle perfettamente sulle sue labbra: «Cazzo, cazzo, cazzo. Cazzo. Fanculo la mia vita.» Divertita, ridacchio tra me, nascondendo il sorriso dietro un bicchier d’acqua. Dio, a volte sono una tale idiota. Il ragazzo fa un profondo respiro. Stringe i pugni ai fianchi. Lo guardo mentre le sue spalle larghe e robuste si curvano sul telefono e batte furiosamente le dita sullo schermo. Poi urla ancora un po’, agitando le braccia, prendendo l’aria a pugni. Dovrebbe davvero calmarsi, la faccia tutta rossa non gli sta per niente bene. «Pensi che dovremmo offrirgli un passaggio? Sembra che lo abbiano anche lasciato qui.» Donovan appare così speranzoso che inizio a ridere. «Oh mio Dio, no! Guarda quant’è incazzato, non esiste che lo lasci salire in auto con noi. Potrebbe essere un violento.» Donovan agita un sopracciglio depilato. «Rilassati. Non ci ucciderà.» Taglio una fettina di pancake e mi infilo la delizia al burro in bocca. Mastico. Ingoio. «Già, no. Non gli daremo un passaggio.» «Sei davvero stronza.» Ride, tornando al suo waffle. «Lo sai che gli daresti sicuramente un passaggio a casa se fosse sexy.» Il mio collo si muove di sua iniziativa e mi ritrovo a fissare il ragazzo attraverso la finestra: i fianchi stretti e i jeans fuori moda un po’ troppo alti in vita, il maglione largo, i capelli incolti che continua ad allontanarsi dagli occhi, le barre colleriche che chiama sopracciglia. È enorme, dinoccolato e ha i capelli troppo lunghi. La faccia sembra ammaccata e il naso è storto. Non è carino. Per niente. Agitato, saltella nelle sue sneakers sulla punta dei piedi un paio di volte prima di tirarsi il cappuccio sulla testa: somiglia a un lottatore di MMA che smania per una zuffa. È incazzato e sta facendo una paternale al nulla, cosa che lo fa sembrare un tantino pazzo. Donovan ha ragione: probabilmente gli darei un passaggio se fosse di più bell’aspetto. Ma non lo è. Quindi non lo farò. «Sono certa che troverà il modo di arrivare a casa» concludo, infilandomi una salsiccia in bocca. «Sembra che sappia cavarsela.» Il campus non è lontano, può andare a piedi. «No, per niente.» Donovan ride. «Sembra che riesca al massimo a contare fino a nove con le dita.» Per quanto la cosa mi faccia apparire stronza, gli do ragione. «In effetti sembra davvero stupido.» «Allora niente passaggio a casa?» Emetto una risata nasale tutt’altro che femminile. «Non per lui. Insomma, a meno che voglia seguire la macchina a piedi.» Non esiste che dia un passaggio a un tipo come quello con la mia auto. RHETT «Andiamo, Rabideaux, lo facciamo a tutti.» Gunderson ridacchia. «Non puoi avercela con noi per tutto il fine settimana.» È in piedi accanto a me con in mano un asciugamano bianco e una bottiglia d’acqua, e mi tende le braccia con le sue offerte mentre mi sto piegando per sollevare centotrenta chili. Lo ignoro, ansimando per lo sforzo di avere i pesi sulle spalle. «Amico, andiamo! Era uno scherzo.» Le ginocchia ancora piegate in posizione, mi fermo, guardandolo con gli occhi socchiusi. «Ah sì?» Il sarcasmo è pesante. «L’hanno fatto anche a te?» Si muove a disagio, abbassando le braccia mentre proseguo con l’allenamento. «Be’, no… ma io sono solo il manager della squadra.» Davvero? È la prima volta che glielo sento dire con tanta nonchalance, come se il suo ruolo non fosse niente di importante. Di solito è: “Mostrami un po’ di rispetto, sono il manager”, o “Manager della squadra, ma puoi chiamarmi Piccolo Coach”. Idiota. Abbasso fino a terra la barra che ho tra le mani e la deposito delicatamente, mi volto verso la fila di ragazzi che stanno usando gli attrezzi lungo la parete e urlo: «Daniels.» Zeke Daniels, uno dei capitani della squadra, alza lo sguardo dal tapis roulant. «La squadra ti ha portato a cena e ti ha mollato col conto da pagare?» Un sorriso gli si estende lento sul volto, i suoi occhi freddi si muovono nella mia direzione. Ha fronte, petto e ascelle coperti di sudore. «Cazzo, no.» Non è il genere di ragazzo contro cui ti metti. Lasciando la mia posizione alla rastrelliera dei pesi, mi sposto verso la panca, con Gunderson che mi segue come un cagnolino. Mi sta facendo saltare i nervi. «Gunderson, se non intendi davvero aiutarmi con l’allenamento, smetti di parlare o levati dalle palle e trovami qualcuno che lo faccia.» Lui la prende sul ridere. «Andiamo, amico, devi fartela passare. Era solo un divertimento innocuo.» Mi siedo sulla panca, a cavalcioni. «Divertimento innocuo? Quella stronzata mi è costata quattrocento dollari, stronzo. Ai miei genitori verrà un colpo quando vedranno l’estratto conto della carta di credito.» «Pivello…» «No. Vaffanculo» gli dico a denti stretti. Indico Sebastian Osborne. «E vaffanculo anche a te.» Poi mi giro verso Pat Pitwell, l’unico ragazzo della squadra su cui si può sempre contare che faccia la cosa giusta. «E vaffanculo a te per non averli fermati.» La stanza è silenziosa. «Vaffanculo a tutti quanti.» «Era uno scherzo!» urla qualcuno dal fondo della stanza. «Non fare la fighetta, Pivello.» «Quattrocento dollari, stronzi» ripeto. «Mi vedete ridere? Non sto ridendo.» Gunderson tenta di mettermi un braccio attorno alle spalle ma me lo scrollo di dosso. «Andiamo, lascia che ti portiamo fuori. Ti pagheremo da bere per farci perdonare.» Ma mi sta prendendo per il culo? «Ci vorrà più di qualche drink in un cazzo di bar per farvi perdonare una stronzata del genere.» «Tipo cosa?» Ci penso per qualche secondo e poi gioco duro. «Scalamelo dall’affitto per questo mese e non ne parliamo più.» Gunderson stringe le labbra. Si guarda oltre una spalla verso Johnson, che prende il mio posto ai pesi coi suoi centotrenta chili. Lo guardo per qualche istante. Sono molto più elegante di lui con quei pesi. Gunderson mugola: «Non è giusto. È come se dovessi pagare io duecento dollari del tuo affitto.» Sguardo impassibile. «È esattamente così.» «Non è giusto.» «Mi prendi per il culo adesso?» Rido. «Ma ti senti? Io ho appena perso quattrocento dollari: sai cosa, lascia perdere. Ne ho abbastanza di voi stronzi. Faccio le valigie e mi trasferisco.» Mi alzo, gli strappo l’asciugamano dalle mani e gli volto le spalle, asciugandomi il sudore dalla fronte e dal petto. Gunderson sospira dietro di me. «D’accordo. Parlerò con Johnson.» Fa una pausa. «Allooora… esci con noi stasera o che?» Ma questo tipo non si dà mai per vinto? E perché bevono tanto nel fine settimana? Io non l’ho mai fatto quando facevo wrestling per la Louisiana. Ci permettono di uscire solo una notte a settimana, una, e non è stanotte. Mi volto verso di lui, inarcando un sopracciglio. «Amico, è domenica.» «E allora?» Sapete quel detto, Non discutere con uno stupido? È quello che sta succedendo in questo momento: vedo dall’espressione sul suo volto che non c’è modo di vincere questa discussione. Lo sfido di nuovo. «Mi paghi tu da bere?» L’espressione sul suo volto non ha prezzo. «Che cazzo! Ora devo pagarti l’affitto e pagarti da bere?» Piego la testa all’indietro e rido, tirando fuori l’artiglieria pesante. «O così o cambio casa. Fai la tua scelta.» «Ricatto? Sei serio?» «Come un attacco di cuore.» Vedo le rotelline che girano e fumano in quella sua testaccia dura, e so che sta aspettando che io salti su e urli: scherzavo! Non succederà. I secondi passano e Gunderson mantiene la sua posizione. Io mantengo la mia. Lui socchiude gli occhi. Allarga le narici. Stringe le labbra come una cazzo di ragazza prima di cedere. «D’accordo, ma andremo a una festa in una casa privata.» Stronzo taccagno.
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