CAPITOLO TERZO-2

2097 Words
Il problema le faceva girare la testa. Vedeva la prateria distesa in gigantesche spianate e nelle lunghe ondulazioni degli hummoks. Quell’ampiezza, quella grandiosità che un’ora prima l’avevano esaltata, cominciavano a spaventarla. Si stendeva così, avanti, sempre avanti, incontrollabilmente: mai avrebbe potuto capirla! Kennicott era sprofondato nel suo racconto poliziesco. Oppressa dalla solitudine che assalisce più deprimente in mezzo alla folla, ella cercò dì dimenticare quei problemi e dì guardare la prateria con serena obiettività. L’erba ripetutamente bruciata lungo la ferrovia non era che un sudiciume irto di steli carbonizzati. Oltre la fila drittissima, interminabile della staccionata di ferro spinato, sorgevano ciuffi di verghe auree. Non c’era altro che li divìdesse dalle pianure: mietute terre autunnali, campi di centinaia di acri, ispidi e grigi da presso, ma in lontananza distesi come velluti fulvi sul pendio delle alture. Le lunghe file delle reste del grano marciavano come soldati in vecchie cotte giallastre. I campi arati di fresco sembravano stendardi neri caduti sui lontani pendi! Era un’immensità marziale, vigorosa, un po’ aspra, non addolcita dalla grazia dei giardini. La monotonia era rotta da gruppi di querce circondate da chiazze d’erba selvatica; e, ogni due o tre chilometri, da una catena di laghetti di cobalto, traversati dall’ombra fuggevole delle ali dei merli. E tutte quelle terre erano esaltate dalla luce. Il sole abbacinava sulle stoppie, l’ombra degli immensi cumuli di nubi scivolava senza posa sulle basse ondulazioni del suolo, e il cielo era più vasto e più solenne e decisamente più azzurro del cielo delle città... dichiarò Carol. « È un paese splendido: un paese degno di opere grandi! », cantò in cuor suo. Kennicott la fece trasalire ridacchiando: — Ci pensi che la prima stazione dopo la prossima è Gopher Prairie? Finalmente a casa! A casa! Bastò quella parola a terrorizzarla. Davvero si era legata per tutta la vita, irrevocabilmente, a quel paese chiamato Gopher Prairie? E quell’uomo massiccio che osava imporsi al suo avvenire, ebbene, era uno sconosciuto! Si voltò per guardarlo. Perché le sedeva accanto? Chi era? Non certo, dei suoi! Aveva il collo pesante, la parola pesante, dodici o tredici anni più di lei, e non lo aureolava la magia delle avventure e degli entusiasmi condivisi. Non riusciva a convincersi d’aver dormito fra le sue braccia. Quello era uno dei sogni che capitano, ma che non si ammettono nemmeno per un momento. Poi si disse quanto era buono, quanto era comprensivo e degno di tutta la sua fiducia. Gli toccò l’orecchio, lisciandogli la curva della solida mascella, poi, voltatasi di nuovo, si concentrò nello sforzo di affezionarsi al suo paese. Non sarebbe stato come le squallide colonie che avevano sorpassato: impossibile! Dopo tutto, contava tremila anime, era già un bel numero, ci sarebbero state seicento case o più. E... che bellezza, i laghi vicini! Li aveva visti in fotografia, sembravano deliziosi... nevvero? Quando il treno lasciò Wankeenyan, ella cominciò nervosamente a cercare i laghi: l’ingresso a tutta la sua vita futura. Ma quando li scoprì, a sinistra delle rotaie, la sua sola impressione fu che somigliavano a quelli visti in fotografia. Alla distanza d’un chilometro e mezzo da Gopher Prairie la strada ferroviaria superava una bassa altura ed ella poté gettare un’occhiata sull’insieme della città. Con slancio appassionato alzò il finestrino e guardò fuori, le dita arcuate della sinistra tremanti sulla sbarra d’appoggio. la destra sul cuore. Vide così che Gopher Prairie non era che un ingrandimento di tutti i villaggi che avevano oltrepassato. Solo agli occhi di un Kennicott poteva sembrare eccezionale! Le casette dì legno ammucchiate non interrompevano la distesa della prateria più che un boschetto di noccioli. I campi la precedevano, la circondavano, la superavano. Non era né protetta né protettrice: non aveva né dignità né speranza di grandezza. Solo l’alto silos rosso e alcune guglie di stagno sorgevano dalla massa. Era un accampamento da frontiera, non un luogo ove fosse possibile, concepibile di abitare! Gli abitanti... sarebbero stati meschini come le loro case, piatti come i loro campi. Lei non poteva star lì. Avrebbe dovuto strapparsi da quell’uomo, e fuggire. Gli lanciò un’occhiatina, e subito si sentì impotente dinanzi a quella matura compostezza, e commossa dall’emozione con cui egli mandò a rotolare la rivista per lo scompartimento, si chinò per raccogliere i bagagli, poi si rialzo tutto rosso e felice esclamando: — Ci siamo! Gli sorrise, fedele, e distolse lo sguardo. Il treno entrava in stazione. Le case della periferia erano vecchie e sbiadite dimore pretenziose, rosse con cornici di legno dentellato, o alte e strette case di legno e di mattoni che sembravano casse da droghiere, e bungalows nuovi con la base di cemento imitazione pietra. Ora il treno oltrepassava il magazzino del grano, il tetro serbatoio del petrolio, una latteria, un deposito di legname, un recinto di bestiame, fangoso, calpestato e puzzolente; si fermava dinanzi una stazione rossa e quadrata dalla piattaforma affollata di agricoltori con la barba lunga e di bighelloni: gente senza spirito d’avventura, con gli occhi spenti. E lei era lì. E non poteva andarsene. Era la fine... la fine del mondo. Stava seduta con gli occhi chiusi, una voglia pazza di scappar via piantando in asso Kennicott, nascondersi in qualche punto del treno, continuare a fuggire fino al Pacifico. Poi qualche cosa di grande e di superiore si sollevò nell’anima sua e le ordinò: — Finiscila! Finiscila di frignare come una bambina! Subito si alzò e disse: Che bellezza, essere finalmente arrivati! Lui aveva tanta fiducia in lei e lei avrebbe imparato ad amare quel luogo, avrebbe fatto cose inaudite... Seguì Kennicott e l’estremità tondeggiante delle due valigie che egli portava, una per mano, trattenuti dal lento fluire dei passeggeri che scendevano. Pensò che stava vivendo l’attimo emozionante dell’arrivo in casa dello sposo. Avrebbe dovuto sentirsi esaltata. Non provava invece che l’irritazione di quel lento procedere verso la porta. Kennicott si chinò per sbirciare dal finestrino. — Guarda! guarda! — esclamò con timida esultanza. — C’è una bella brigata che è venuta a darci il benvenuto! Sam Clark e la sua signora e Dave Dyer e Jack Elder e, sissignore, Harry Haydock e Juanita e tutti quanti! Scommetto che ci hanno già visto. Sì, sì, certo, cì vedono, guarda come agitano la mano! Obbediente, ella chinò il capo e li guardò. Era di nuovo padrona di sé e pronta ad amarli, e tuttavia intimidita dalla rumorosa cordialità del gruppo plaudente. Dal corridoio abbozzò un cenno di saluto, ma dovette afferrarsi per un secondo alla manica del guardiafreni che l’aiutava a scendere prima d’avere il coraggio di tuffarsi in quella marea di persone che le stringevano la mano e che non poteva distinguere una dalle altre. Ebbe l’Impressione che tutti gli uomini avessero vocioni grossolani, grandi mani umidicce, baffi a spazzola, calvizie e ciondoli massonici alla catena dell’orologio. Poi capì che erano venuti a festeggiarla. Si sentì commossa da quei sorrisi, da quelle grida, da quegli occhi L affettuosi, e balbettò: — Grazie! Oh, grazie! Uno degli uomini gridò a Kennicott: — Ho portato la macchina per accompagnarti a casa, dottore! — Ottima idea, Sam! — esclamò Kennicott; e a Carol: — Saltiamo dentro. Là, quella grande Paigne. Bella macchina, eh? E quanto a velocità, Sam può dare dei punti a quei mormoni dì Minneapolis! Solo quando fu in automobile Carol distinse le tre persone che li accompagnavano. Il proprietario, ora al volante, era l’immagine d’una compiaciuta soddisfazione: un uomo un po’ calvo, grassoccio, con gli occhi a fior di testa, Il collo rugoso ma la faccia liscia e rotonda come il dorso d’un cucchiaio. Le domandò ridacchiando: — Ci ha già individuati tutti? — Certo che sì! Non c’è che Carrie per afferrare le cose in un baleno! Vuoi scommettere che ti sa dire tutte le date della storia? — si vantò suo marito. Ma quell’individuo la guardava con un’aria rassicurante: e invasa a un tratto dalla certezza di potersi fidare di lui, Carol confessò: — A dirle la verità non ho ancora individuato proprio nessuno! — Si capisce, bambina mia! Ebbene, io sono Sam Clark, il commerciante in ferramenta, articoli sportivi, scrematrici e quasi tutte le cianfrusaglie pesanti che le possono venire in mente. Mi può chiamare Sam, e comunque io la chiamerò Carrie, visto e considerato che lei ha avuto il coraggio di sposarsi questo sempliciotto di mediconzolo che ci teniamo qua. — Carol sorrise con effusione e si rammaricò di non saper chiamare tanto facilmente la gente per nome. — La signora grassa ed eccentrica che sta seduta lì con lei e che fa finta di non capire di chi parlo è la mia signora; e questo povero diavolo dall’aria affamata che siede qui accanto a me, è Dave Dyer che tira avanti la sua farmacia eseguendo a rovescio le prescrizioni del suo maritino... anzi si può dire che è proprio lui che mette l’R sulle ricette! Ecco qua! Ebbene, adesso abbiamo il piacere di accompagnare a casa la bella sposina. Di’ un po’, dottore, ti voglio vendere Candersen per tremila dollari. Bisognerà pensare a costruire una casa nuova per Carrie. La più bella Frau di G. P., parola d’onore! Felice come una Pasqua, Clark li pilotava nel cospicuo traffico di tre Fords e dell’autobus dell’Albergo Minniemashie. « È simpatico, il signor Clark... », pensava Carol. « Non posso chiamarlo Sam! Sono tutti così cordiali ». Intanto dava un’occhiata alle case; cercò di non vedere quello che vedeva finché proruppe in un: — Perché i romanzi mentiscono così? Descrivono sempre l’arrivo a casa della sposa come un ingresso in una pergola di rose. Completa fiducia nella nobile sposa,.. Quante menzogne sul matrimonio! Io non sono cambiata. E questa città... Oh, Dio mio, non potrò abituarmici! Questo mucchio di ferrivecchi! Suo marito si chinava verso di lei. — Come sei pensierosa! Un po’ sbalestrata? Non mi aspetto che Gopher Prairie ti sembri un paradiso, dopo St. Paul. Non pretendo che tu ne sia entusiasta fin dal principio, ma finirà col piacerti molto, la vita è così libera, qui, e c’è tanta brava gente. Ella gli bisbigliò, mentre la signora Clark, discreta, guardava da un’altra parte: — Ti amo tanto appunto perché capisci. Sono... sono stupidamente ipersensibile. Troppi libri. Manco di muscoli e di equilibrio. Dammi tempo, caro. — Ma certo! Tutto il tempo che vuoi! — Ella si premette contro la guancia la mano del marito e sì accoccolò accanto a lui. Era pronta per la sua nuova casa. Kennicott le aveva detto che abitava con la madre vedova in una dimora « vecchia ma simpatica e spaziosa e ben riscaldata, la miglior caldaia che ho potuto trovare sul mercato ». Sua madre aveva lasciato a Carol l’espressione della sua tenerezza e se n’era tornata alla sua vecchia casetta a Lac-qui-Meurt. Sarà meraviglioso, esultava lei, non andare ad abitare in casa d’altri, ma avere il proprio focolare domestico. Gli strinse la mano e guardò ansiosamente dinanzi a sé mentre la macchina, girato un angolo, si fermava dinanzi a una prosaica casa di legno e mattoni in mezzo a un praticello secco. Un marciapiede di cemento con un parcheggio invaso d’erba e sudicio di fango. Una casa scura, quadrata, un po’ affumicata, piuttosto umida. Uno stretto sentierino cementato fino alla porta. Mucchi dì foglie gialle, di acheni alati degli aceri e di lanugine dei pioppi, spazzati dal vento. La veranda coperta, coi sottili pilastrini di legno verniciato sormontati da mensole e volute e protuberanze. Non un boschetto, una siepe, per difendere da sguardi indiscreti. Una lugubre bay-window a destra della veranda. Cortine di merletto economico, Inamidate, che lasciavano intravedere una tavola di marmo rosa con una conchiglia e una Bibbia di famiglia. — Ti sembrerà un po’ antiquato... come dite voi?, vittoriano, ma ho lasciato tutto come stava, perché tu possa fare i cambiamenti che crederai necessari. Per la prima volta dopo il ritorno ai patri lari, Kennicott sembrava incerto. — È una vera casa! Commossa della sua umiltà, Carol salutò allegramente l Clark agitando una mano. Egli s’avvicinò alla porta: poi che lasciava a lei la scelta d’una domestica, in casa non c’era nessuno. Ella saltellava d’impazienza mentre lui girava la chiave, poi si slanciò dentro... Solo il giorno dopo ricordarono entrambi che durante la luna di miete avevano progettato che lui la portasse in braccio per varcare la soglia. Nel corridoio è nel salotto davanti ebbe un’impressione di chiuso, di meschinità, di tristezza, ma insistè: — Ci penserò io a far tutto comodo e allegro. Mentre seguiva Kennlcott e la valigia nella camera da letto, canticchiava fra sé la canzone dei piccoli dèi grassi del focolare: Ho la mia casa, Per farne ciò che voglio, Per farne ciò che voglio; Il mio antro per me e per il mio compagno e [ i miei cuccioli Tutto mio! Si gettò fra le braccia di suo marito, gli si strinse al petto. Nulla di ciò che trovava in lui di strano, di lento, di ristretto, nulla Importava più finché poteva infilargli le mani sotto la giacca, carezzargli sul dorso la seta calda e liscia del panciotto, quasi penetrare in lui, trovare in lui la forza, trovare nel coraggio e nella tenerezza del suo uomo un rifugio contro tutti i problemi del mondo. — Dolce, tanto dolce... — sussurrò.
Free reading for new users
Scan code to download app
Facebookexpand_more
  • author-avatar
    Writer
  • chap_listContents
  • likeADD