1.

2423 Words
1.Sono appena uscito dal giornale e il mio adorato ferrovecchio scrostato, un tempo di un bel vivido blu scuro, sembra soffrire per il freddo quanto me. Matteo e la sua Vespa: una felice simbiosi fisica e mentale fin dal primo anno di Università. Le giornate si stanno accorciando sempre di più: il cielo minaccia i soliti rovesci autunnali e per strada l’odore dell’estate è sparito. Cumuli di foglie gialle cominciano a sollevarsi nei mulinelli d’aria, perse senza meta nel loro fruscio caotico e irrazionale. Il freddo ha tirato un morso pesante e improvviso, come un serpente acquattato nell’erba. Ottobre, talvolta, è clemente e concede sprazzi di bella stagione fino alla fine. A questo giro non è andata così. Sciabolate di tramontana spirano violente e rapide, si intrufolano negli abiti e spingono a chiudersi al caldo appena finite le faccende. Anche se sento le nocche delle mani insensibili, oggi non sto per rifugiarmi nel mio antro di pace e serenità a riscaldarmi. E non vedo l’ora di arrivare ai Bagni Monumento per prendermi in santa pace un bel aperitivo con Bruno Cevasco e Andrea Ferrando: i miei migliori amici dal tempo delle medie. Bruno è un ingegnere informatico, con due sole passioni oltre alla nostra squadra del cuore: i gufi, che colleziona in tutte le fogge e dimensioni, e le donne. Da quando si è separato qualche anno fa tende a collezionare anche loro; a suo dire senza pagare. Su questo, però, nutro seri dubbi. Andrea, l’altro balordo, gioca al promotore finanziario anche se è figlio di uno dei più grossi commercialisti di Genova. Piuttosto che lavorare con suo padre, parole sue, dice che si farebbe tagliare un dito. E non ha nemmeno specificato quale: credo che non si riferisse per forza a mani o piedi. Lui è il prototipo del bravo ragazzo, tutto casa e famiglia. Se non fosse per il calcetto del giovedì e le partite allo stadio, anche lui condivide la nostra croce calcistica di delusioni e sofferenza, non lo vedremmo mai. È stato proprio Andre a convocarci con urgenza perché “Belin, vi devo dare una notizia che è una bomba e ho bisogno di festeggiare.” Da quando si è sposato e assieme ad Elisa, sua moglie, ha messo al mondo Marilde, Andrea tira fuori il capino dalla tana ogni morte di papa ed è meglio approfittarne: io e il Ceva non ce la siamo sentita di tirargli il pacco. Parcheggio la Vespa a Quarto nel piazzale, vicino alla statua di Garibaldi e dei Mille, con la solita leggerezza che mi nasce nel cuore quando vedo questo posto. Sotto, a ridosso della scogliera, il mare si estende a perdita d’occhio. Oggi è di un blu scuro e compatto, sovrastato da spesse nuvole bianche striate di grigio; che all’orizzonte lo abbracciano e lo coprono come una buona madre per proteggerlo. Si muove lento, costante, in un dondolio uniforme quasi fosse un corpo solo che risponde alle carezze del cielo. Le luci a Capo Santa Chiara, il piccolo promontorio che si vede guardando verso il centro città, sono già tutte accese e sprizzano baluginii dorati che tracciano una scia tremebonda e timida su quel colosso blu. Appena arrivo a ridosso delle scale di pietra che scendono verso il mare guardo sotto, nel punto in cui fino al secolo scorso regnava solitario lo strapiombo della scogliera. Adesso, sulla superficie dell’acqua, si riflettono in lunghe coltellate decise anche le luci del mio stabilimento preferito, i Bagni Monumento. Il ritrovo, tana e rifugio, della mia compagnia fin da quando eravamo ragazzini: passavamo le serate sul muretto a parlare dei nostri sogni e del domani, ad ascoltare musica e a tacchinare qualsiasi essere vivente che producesse estrogeni. Anni spensierati, fitti di amori che duravano una stagione. Quando ci si lasciava, pareva che il mondo smettesse di esistere. Quegli amori che invece erano perfetti: perché non venivano mai corrotti dal quotidiano, dalle distanze, dai tradimenti e dall’indifferenza. E così, non importa se oggi il sole è già sparito ed è buio: ogni volta che torno qui esplode sempre l’infinita estate dell’adolescenza nel mio cuore, assieme a un sole alto e caldo. Scendo la scalinata, entro nella parte del locale che rimane al coperto e mando un saluto a Sergio, il barista, che mi conosce come se fossi suo zio e ricambia con un cenno della mano. Senza che io gli chieda niente mi indica il tavolino dove sono seduti i due sciagurati. Bruno è di schiena, lo riconosco dalla pelata; alla fine si è deciso ed ha tagliato i capelli corti, eliminando quella insulsa coda che si portava dietro e che lo faceva assomigliare a uno scovolino del cesso consumato in punta. Andre invece ha il solito sorriso da boy scout che aiuta le vecchiette ad attraversare la strada e sta parlando. Mentre mi avvicino noto che è tutto infervorato dal discorso, al punto di avere le guance rosse. Arrivo alle spalle di Bruno senza che nessuno dei due si accorga della mia presenza e colgo le parole di Andre. “... perché belin, è inutile che insisti. Da quando abbiamo venduto il portiere la nostra difesa è un colabrodo.” Bruno scuote la testa. “E piantala. Lasciagli tempo al nuovo, no? Siamo alla settima di campionato e già contestiamo la squadra? Sorrido e intervengo. “Ero indeciso se l’argomento fosse figa o calcio, visto quanto si stava impegnando Andre. Dilemma risolto, direi.” Bruno si gira, si alza e mi stringe forte. Mi guarda sorridendo. “Perché non c’eri tu, fratello. In tua presenza il dilemma è risolto a prescindere. Parlare di figa con te, ormai, è soporifero come i film d’essai francesi.” Anche Andre si alza; mi viene incontro e mi tira la solita pacca sulla scapola, il suo marchio di fabbrica. “Belin Ciccio, che bello vederti. Fatti un po’ toccare. Giusto per verificare che esisti.” Mi tasta le spalle con le mani, fissandomi. “Da che pulpito. Sono io, comunque. Fidati”, commento. Lui fa spallucce. “Sai com’è. È un periodo che i rettiliani e gli alieni grigi rapiscono un sacco di gente e la sostituiscono.” Andre e Bruno si rimettono a sedere, io mi accomodo vicino a loro e ordino il solito Rum Cooler. “Allora?”, domando. “Qual è il motivo di questa riunione improvvisa?” Andre sorride. “Intanto tra una mussa e l’altra non ci vediamo da un botto, belin. Pure il Ceva qui si stava preoccupando. Anche lui si lamenta che sei sparito da quasi due mesi.” “Esagerato. Ci siamo visti la settimana scorsa giù al bar sotto il giornale.” Andre sorride. “E non contare le solite musse, belin. Ci stai boicottando. Sappilo, ce ne siamo accorti.” Bruno annuisce. Io sospiro e mi mordo un labbro. “Periodo incasinato, ragazzi, mi dispiace se qualche volta salto. Tra lavoro, Margareth e tutto il resto non riesco davvero a ritagliarmi qualche ora. Lo sapete che mi mancate.” Bruno storce la bocca. “Però, Matte, non è possibile. Tutti lavoriamo. Pure sta salma qui”, indica Andre con un gesto della testa. “È schiavo della moglie eppure ogni tanto si fa vedere. Tu, da un bel tocco, zero. Sparito quasi del tutto.” Andre mi anticipa nella risposta, guardando male Bruno. “A parte la cosa della salma, che si dovrebbe guardare lui come è ridotto ma deve aver tolto tutti gli specchi in casa, mi tocca dare ragione al Ceva”. Sospiro ancora. “Va così adesso, amici. Mi passerà, ve lo prometto. È che da quando ho lasciato andare Barbara e ho tagliato con Clara... Ecco, non ho tanta voglia di fare casino. Tutto qui. Dirigere il giornale e crescere Margie, poi, sono impegni mica da ridere. Anche Andre ha in casa una pre adolescente femmina. E sa che cosa significa.” Lui annuisce, Bruno si lascia scappare un tonante “mah”. Io rido. “Ceva, fosse per te dovrei seguirti per peripezie erotiche sul lago Balaton e mollare tutto.” “Fratello, tutto no. Ma anche solo due settimane all’anno potresti, non ti pare?” “Ah”, rispondo. “Sono troppo vecchio.” “Non sei vecchio. Tu pensi, vecchio.” Sergio, il barista, arriva con il mio Rum Cooler. Bruno allunga la mano con dieci euro per pagarlo. Andre gli blocca il braccio e dice “no, no, Ceva, fermo che tocca a me”. Estrae il portafogli dalla tasca posteriore dei pantaloni e paga tutti i drink. “Mi devo preoccupare? Tu che offri?”, commenta Bruno spalancando i suoi occhi azzurri. “Ti hanno allungato il braccino nel fine settimana?” Andre scuote la testa. “Oh, Ceva, non fare il simpatico ché tanto non lo sei. Stasera vi ho convocato io e offro io. Punto.” Ne approfitto per cambiare discorso. “Ecco. Chiudiamo la parte in cui io mi giustifico di questo periodaccio e andiamo al dunque.” Mentre inizio a sorseggiare il mio cocktail, Andre schiarisce la voce. Si rizza sulla sedia e si appoggia al tavolino a braccia larghe, tronfio come un venditore porta a porta appena gli dici “si accomodi pure”. Gli occhi gli si inumidiscono. “Amici, ecco la bomba. Sto per diventare padre per la seconda volta.” Io spalanco gli occhi e mi lascio scappare un “wow”, Bruno scatta alla notizia e gli dà il cinque. “Cresci anche questo come fosse tuo”, gli dice. Attacco a ridere per la battuta di Bruno e rincaro la dose. “Un altro figlio del fornaio? Congratulazioni, Andre.” Poi do un’altra sorsata al mio Rum Cooler; il liquido gelato mi scende in gola e lo sento arrivare allo stomaco. Subito dopo avverto una fitta al fianco destro, come se qualcuno mi avesse dato una coltellata. Grazie al cielo passa subito e do la colpa al drink troppo gelato. “E a che mese è Elisa?”, domando io. Andre fa il quattro con le dita mentre sorseggia il suo Spritz. Bruno schiude una smorfia di disappunto. “Al quarto?”, commenta. “E ce lo dici solo ora?” Andre fa spallucce. “Belin, Ceva, un minimo di scaramanzia. Lo sai come vanno queste cose. Anche mia nonna sosteneva che non si dice fino alla fine del terzo mese. E che prima porta nero.” Avverto una seconda fitta al fianco. Intensa come la prima ma prolungata. Dura un attimo in più, poi si dilegua e io riesco a prendere fiato. “E sai già il sesso?”, chiedo. Andre annuisce e sorride tutto orgoglioso. “Pare che ce l’abbia gigantesco come me.” Io e Bruno esplodiamo in una risata. “Guarda che ti abbiamo visto sotto la doccia”, commento. Bruno gongola e salta quasi in piedi. “Fratello, la dimensione non conta. Lo zio Bruno gli insegnerà a usarlo a dovere. Perché sarò io il padrino, vero? Il pennivendolo qui presente lo è stato di Marilde e il secondo tocca a me.” Andrea abbassa lo sguardo. “Eh, belin. Vediamo. C’è già il fratello della Eli che ce l’ha chiesto appena gliel’abbiamo detto.” Bruno sgrana gli occhi. “Vuoi dire che l’uomo di plastica lo ha saputo prima di noi?” Andre sbuffa e scuote la testa. “Non iniziare a menarmela con l’uomo di plastica”, dice. “Ma tuo cognato è l’uomo di plastica. Lo chiamiamo così da almeno sei anni”, commento io. “Finiscila”, dice Andre piccato. “Ho già litigato con Elisa per questo soprannome.” Bruno lo ignora e incalza come se nulla fosse. “Mai una piega delle camicie. Mai i pantaloni stropicciati. Sembrano i vestiti di Big Jim. Ha pure sempre quel sorriso inespressivo da belina e i capelli laccati con la riga.” Andre sospira. “Che trifolatore di zebedei che sei, Ceva. Gli piace vestirsi bene. È solo un po’ azzimato, ecco. Non è che tutti devono girare sempre in felpa e jeans come te.” Bruno aggrotta le sopracciglia in un’espressione di disgusto. “Ah, piantala”, incalza. “È l’uomo di plastica, punto. Per me ha pure il pulsante dietro proprio come Big Jim. E se lo schiacci in mezzo alle scapole dà il colpo di karate.” Andre mi guarda per trovare sostegno. Io non posso che fare spallucce e annuire per dare ragione a Bruno. Lui tracanna un altro sorso. “Oh, belin, insomma. Chiamatelo come volete. Comunque non ho voglia di menaggi con la Eli. Non posso dirle di no, ecco.” Bruno grugnisce e fissa Andre. “E tu per evitare casini in casa cedi in questo modo?”, domanda. “Vuoi per tuo figlio un padrino sfigato come l’uomo di plastica invece del tuo fighissimo migliore amico?” “Uno dei tuoi due migliori amici”, preciso io. Bruno insiste. “E poi, l’altra vera domanda. Perché l’uomo di plastica lo ha saputo prima di me e del giornalaio al mio fianco? Sei veramente il peggiore.” Andre spalanca le braccia e arrossisce. “Ma no, è che l’abbiamo visto domenica a pranzo.” “Ecco perché hai saltato anche tu la partita. Mezz’uomo. Eri da tuo cognato.” Andre lo ignora e si gratta la testa. “Dai, belin. È stato un caso, Ceva. Non fare il bambino adesso.” Avverto una terza scarica dolorosa. Quella che prima mi era sembrata una coltellata, adesso si trasforma in una sorta di fucilata al fianco. Anche la spalla mi fa male ed è un dolore così forte che mi accascio e spingo via il tavolino. Il mio bicchiere rovina sul pavimento e finisce in mille pezzi. La sedia di allumino si abbatte su se stessa in un tonfo metallico. Alzo lo sguardo, non riesco quasi a respirare per la fitta. Bruno mi sta indicando. “Lo vedi? Guarda Matte come sta male perché hai scelto tuo cognato.” Poi si mette a ridere come un imbecille e mi tende il braccio. “Dai, bella scena fratello. Ma hai pure rotto il bicchiere e Sergio ora ce lo susserà a morte. Sarà il millesimo che gli facciamo.” Io lo fisso. Il dolore al fianco aumenta ancora. “Ambulanza”, sussurro. Poi mi stringo su me stesso, con le mani sulla pancia e un unico desiderio: che questa insopportabile fitta mi abbandoni quanto prima.
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