Prologo

1003 Words
PrologoNovembre è appena volato via ed è planato sopra le nostre teste un dicembre freddo e doloroso come spilli di ghiaccio sotto la pelle. Su Genova sta cadendo da ore una neve lenta e spessa, fitta, che mi ricorda una pioggia interminabile di coriandoli. Si avvinghia all’asfalto delle strade, ai tetti, alle macchine: nasconde l’orizzonte e immerge la città in una coltre di pace e silenzio. Le vie del centro sono addobbate con le luminarie natalizie, piazza de Ferrari immersa nello sfavillio scintillante e argenteo di Palazzo Ducale e del Carlo Felice: immagino l’alone sfuocato che le abbraccia in questo momento e le nubi grevi che scaricano senza sosta la neve. Penso a via Roma, coperta da una spessa mano di vernice bianca, con decise pennellate di fango al centro della carreggiata per i segni delle ruote. Piazza Corvetto, immacolata e silenziosa, la statua di Vittorio Emanuele al centro: e il suo mantello di ottone che adesso sembrerà di ermellino. Immagino gli alberi che iniziano ad incurvarsi sotto al peso e il parco dell’Acquasola deserto, con segni di piccole zampe di passerotti sperduti qua e là. Penso al panorama che vedrei dalle mie finestre: i tetti del centro storico, quella luce strana che dà fastidio agli occhi e che si vede solo quando nevica. Il lento e placido sfarfallio della neve. E invece di sorseggiare una cioccolata calda a bocca spalancata davanti a quello spettacolo assieme a Margareth, mia figlia, sono in un appartamento che odora di chiuso e stantio proprio nel cuore del centro storico. Sto puntando una calibro ventidue contro la persona di fronte a me. La voce dell’amico al mio fianco continua a ripetere “non farlo” e anche quella nella mia testa: che combatte con quella che urla “se lo merita”. Sento la voglia di vendetta salire, tolgo la sicura. “Non farlo”, ribadisce la voce amica. “Non farlo”, sento ancora nella mia testa. “Fallo”, sussurra la rabbia che sto covando. Sono immerso fino al collo nel solito guaio. Pensavo di aiutare una persona, di fare qualcosa di buono e mi sono mosso con la consueta ingenuità. Forse no, mi dico, non sono solo ingenuo. Sprovveduto, ecco. Mi tuffo di testa nei casini e non imparo mai a tirarmene fuori quando sono ancora in tempo. Devo sempre arrivare all’epilogo di queste vicende, che sembra capitino solo a me al mondo. E ogni volta il finale arriva sempre con una pistola che sta per sparare. Nemmeno mi chiamassi Cechov di cognome e non De Foresta. È iniziato tutto per caso: mi sono trovato nel posto sbagliato al momento giusto e adesso ne stanno pagando le conseguenze la mia famiglia, i miei amici. Io. Penso a mia figlia. Alla donna di cui mi sono innamorato solo poco tempo addietro. Sento l’indice che aumenta la sua pressione sul cane. “Non farlo.” “Non farlo.” “Fallo.” Un colpo solo. E metterò fine a tutto. Un colpo solo. E otterrei quella giustizia che non riuscirò mai a conquistare nelle aule dei Tribunali. Sento freddo, paura. Una goccia di sudore che mi scivola sulla punta del naso. E le tre voci che continuano a combattere. “Non farlo.” “Non farlo.” “Fallo.” Fisso l’uomo di fronte a me, digrignando la mandibola. Ed è come se mi specchiassi in lui. Rivedo la sua scia di sangue e delitti, tutto ciò che ha fatto negli anni per fuggire alla verità che io adesso conosco quasi fino in fondo. E di colpo mi vergogno. Perché se io sparassi, diverrei come lui. Perché quella ingenuità che sono conscio di possedere sparirebbe in mezzo secondo. Cadrebbe in uno scrollone, come la neve da un ramo. Abbasso l’arma. “Non farlo.” Adesso la voce dentro di me è chiara e distinta. Chiudo gli occhi un secondo, il tempo di asciugarmi la fronte con la manica. Sento un tonfo, l’amico al mio fianco crolla a terra. E in un attimo qualcosa di duro e freddo preme contro la mia nuca. Una pistola. Ingenuo e sprovveduto. Già. Perché non ho pensato ai suoi complici. “Posa l’arma e dacci ciò che ti abbiamo chiesto. O finisce male.” Lascio cadere a terra quella pistola maledetta che mi tormenta quasi dall’inizio di tutto. E mi sento solo, perso, indifeso e senza speranze. “Non fate del male alla mia famiglia”, dico a bassa voce. L’uomo alle mie spalle calca la canna della pistola sulla nuca e mi fa male. “Dipende da te. Lo sai.” L’altro di fronte a me, quello che minacciavo con la ventidue, si avvicina. Il suo sguardo è inespressivo, vacuo, immutato; e realizzo che la mia minaccia suonava alle sue orecchie come quella di un Carlino che abbaia a un Pitbull. Sapeva già che non gli avrei sparato. È impenetrabile, distaccato, freddo. Fossimo in un film mi tirerebbe un pugno sulla bocca dello stomaco, che mi piegherebbe in due e mi toglierebbe il fiato. “Non fai più il bulletto adesso, vero?”, mi direbbe. Sento la testa vuota e la vista mi si riempie di stelline, come se quel pugno lo avessi preso davvero. Invece di colpirmi, si limita a sistemarsi i polsini della camicia e mi guarda. “Lasciate perdere la mia famiglia”, ripeto. “Se hai portato quello che ti abbiamo chiesto, hai la nostra parola che non torceremo un capello a nessuno.” Guardo il mio amico, bocconi sul pavimento. Una macchia di sangue inizia a spandersi dalla sua testa. Lenta e spessa come la neve fuori. Cerco di restare ritto, prendo fiato. Sospiro e abbasso le spalle. La gola pulsa per la paura. Frugo nella tasca dei pantaloni e tiro fuori quello che stanno cercando. Lo sollevo nella mano destra, alzata sopra alla testa assieme all’altra. “Avete vinto. Affare fatto.” Quello alle mie spalle afferra l’oggetto. È finita, penso. Questa volta è finita davvero.
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