Venerdì, 9 maggio
Mentre l’autobus lo portava al lavoro, John ripensò alla sera prima, ma adesso l’uomo del giardino non gli sembrò più così misterioso: forse era un amico del vicino di casa, che se ne stava semplicemente tornando alla macchina dopo una serata passata insieme.
Sospirò e, mentre guardava distrattamente fuori dal finestrino, gli venne in mente Anna.
Si sarebbero visti tardi, quella sera, ma già sapeva di non averne voglia: pregustava il divano di casa, la TV accesa e un bicchiere di latte, ma siccome continuare a pensarci sarebbe servito a poco, sperò solo di non essere costretto ad andare in qualche locale affollato, dove anche semplicemente parlare era un problema.
Con questo stato d’animo affrontò la giornata fino a quando, terminato il turno e raccolta la sua roba, tornò a casa.
L’ingresso sapeva di cera d’api, un profumo che gli ricordava i tempi dell’infanzia, quando la madre passava lo straccio sui mobili fino a farli brillare: era un odore dolce e rassicurante.
Sua madre era sempre stata una donna dura ed esigente, completamente diversa dal padre, che ricordava mite e silenzioso.
Forse era per questa anomalia nei ruoli che il loro matrimonio non aveva funzionato e, quando John era ancora un bambino, si erano separati.
Da allora di lui aveva avuto poche notizie; sapeva solo che viveva da qualche parte in Germania, ma quasi niente di più: era praticamente scomparso dalle loro vite.
Sospirando, posò la giacca sulla poltrona accanto alla specchiera, col piede spinse nell’angolo l’ortensia che Teresa aveva scordato di rimettere a posto e andò in cucina.
Sulle prime non notò niente di diverso dal solito, ma poi sentì lo stomaco rattrappirsi e per un lungo istante il tempo si fermò, ogni ricordo gli si cancellò dalla memoria e fu invaso da una spiacevolissima sensazione di pericolo, unita alla consapevolezza che presto sarebbe successo qualcosa.
Chiuse gli occhi e attese, ma non accadde nulla. Nella stanza c’era solo silenzio, un silenzio pesante e carico di tensione.
E lui era là, con le mani strette a pugno e le gambe paralizzate ad aspettare non sapeva che cosa.
Quando finalmente si decise a riaprire gli occhi la sensazione di pericolo c’era ancora, ma la testa aveva smesso di girargli e il respiro s’era fatto meno affannoso.
Trattenendo a stento l’impulso di scappare, guardò verso il centro della stanza: sulla tavola c’erano un piatto con avanzi di cibo e una forchetta sporca.
Sgranò gli occhi, immobilizzandosi nuovamente. Aveva la bocca impastata, completamente asciutta, mentre si ripeteva che tutto andava bene, che quel terrore era immotivato, perché in fondo si trattava solo di un piatto dimenticato sulla tavola.
Lo fissò nuovamente e continuò a farlo a lungo, poi, dopo aver contato fino a dieci, si avvicinò per vedere meglio.
«Uova al tegame» disse a mezza voce. «Uova al tegame e resti di pane tostato. Io detesto le uova e non mangio pancarré.»
Quella semplice constatazione sembrò rianimarlo, perciò decise di andare a controllare anche il resto della casa.
Si stava muovendo come un automa, ma il solo fatto di riuscire a mettere un piede davanti all’altro lo consolò, facendolo sentire di nuovo padrone dei propri pensieri e in grado di prendere decisioni. Si diede dello stupido.
La camera era in ordine e così pure lo studio. Fu solo quando entrò in bagno che nuovamente avvertì una morsa allo stomaco: il ripiano della toeletta era bagnato e all’interno del lavandino c’erano evidenti tracce di dentifricio.
Allora ripiombò nel buio più totale e fu preso da un vero e proprio attacco di panico.
Non riusciva a connettere, a ragionare con lucidità, mentre lo sguardo gli correva impazzito a destra e a sinistra in cerca di chissà chi o che cosa.
Non aveva mai provato prima emozioni tanto violente.
«Calmati!» si disse con voce strozzata. «Calmati e conta di nuovo fino a dieci.»
In realtà gli ci vollero almeno cinque minuti perché la testa si fermasse e il respiro smettesse di squassargli la cassa toracica.
Poi anche il sangue ricominciò a defluirgli dal cervello verso tutto il resto del corpo e ogni muscolo si rilassò: aveva recuperato la calma.
Andò alla porta d’ingresso per controllare la serratura: nessuno l’aveva forzata. Guardò meglio, ma fu tempo sprecato.
Allora pensò a chi, oltre a lui e alla domestica, avesse le chiavi, ma si ritrovò con in mano una lista vuota. Eppure qualcuno era entrato.
Guardò l’ora: si stava facendo tardi, perciò tornò di corsa in cucina, prese il piatto sporco, lo lavò e lo risistemò nel pensile sopra all’acquaio.
Quando anche il bagno fu tornato come voleva, si cambiò e alle otto in punto era pronto: pettinato e vestito.
Il telefono squillò che si stava infilando le scarpe: prima la destra, poi la sinistra.
Era sicuramente Anna, ma all’improvviso non gli andava più di vederla: meglio tirar fuori una scusa e restare da solo a schiarirsi le idee.
Così le disse che il Giornale aveva chiamato, che Lupi gli aveva sollecitato un articolo lasciato in sospeso e che perciò avrebbe avuto da fare.
Lei non obiettò e nemmeno insistette.
Non aveva voglia di uscire, ma forse un po’ d’aria fresca gli avrebbe fatto bene, perciò s’infilò la giacca e andò fuori.
Appena in strada, gli venne in mente il Bistrò, un locale che aveva frequentato prima di conoscere Anna. Forse esisteva ancora: perché non andarci?
Non era tipo da lasciarsi andare ai ricordi e i pellegrinaggi nel passato li giudicava stucchevoli, tuttavia non appena entrò nel locale dovette ammettere che rivederlo gli stava facendo effetto: era tutto perfettamente identico a nove anni prima.
Si avvicinò al bancone e si sedette sul terzo sgabello, mettendosi a fissare la specchiera di fronte.
Il cameriere non fece caso a lui, né gli chiese cosa volesse. Anzi, non lo degnò di uno sguardo, continuando a sistemare svogliatamente bottiglie e bicchieri.
«Non ci faccia caso» disse una voce alla sua sinistra. «Per lui è normale.»
John trasalì, si voltò e vide l’uomo seduto accanto. Non si era nemmeno accorto che fosse entrato.
«Come dice, scusi?» gli chiese.
«Che se non si mette a battere i pugni, qua dentro a nessuno viene in mente di avvicinarsi. Per loro i clienti fanno parte dell’arredamento.»
«Capisco, ma non ho voglia di prendere niente e quanto all’arredamento… direi che sia sempre stato così.»
«Giornataccia?»
«È così evidente?»
«Ce l’ha scritto in faccia, ma non deve preoccuparsi. Qualunque cosa le sia successa o crede le stia succedendo è transitoria. Stia tranquillo: quando avrà fatto pace con lei, passerà.»
«Pace con lei?»
«Non ci vuole un mago per capire che fino a qualche ora fa non le sarebbe mai passato per la mente di venire qui.»
«E naturalmente c’è di mezzo una donna!»
«E quando mai non ci sono di mezzo loro!»
«È difficile capirle.»
«Difficile? Ma no che non è difficile. Dovrebbe fare come me.»
John era disorientato. «L’ennesima cura miracolosa che però guarda caso funziona solo per gli altri?» non poté fare a meno di ironizzare.
«No, questa la sto collaudando da anni e posso garantirle che si adatta a tutti i tipi di uomini, lei incluso.»
E mentre John continuava a guardarlo tra l’incuriosito e lo sconcertato, lo sconosciuto si tolse di tasca il portafogli e l’aprì.
«Guardi qua!» esclamò, mostrando al cronista tre biglietti da visita. «Che ne dice? Potrei definirmi a buon diritto “un tipo per tutte le stagioni”.»
John guardò i talloncini che l’uomo aveva allineato sul bancone, proprio sotto i suoi occhi, e lesse a voce alta ciò che vi era scritto: «Mario Paribelli, Antonio Greco, Ugo Molnar.»
«È sì o no una genialità?»
«Forse sì, ma prima dovrei capire di cosa si tratta.»
«E cosa c’è da capire!» disse lo sconosciuto, allargando le braccia. «Mario Paribelli ha un cognome raffinato e infatti osservi il mestiere che fa.»
«Professore universitario» rispose John, sollevando le sopracciglia.
«Professore di Filosofia, per l’esattezza» lo corresse il compagno. «Non è un dettaglio da sottovalutare.»
«E perché proprio di Filosofia?»
«Appunto perché il tipo di laurea è di fondamentale importanza.»
«Mi scusi, ma non riesco a seguirla.»
«Le donne giudicano il professore di filosofia un uomo equilibrato e profondo, rassicurante e intellettualmente mille volte superiore a qualunque architetto o ingegnere di grido. Insomma, il professore di filosofia emana sapere e di conseguenza fa vivere chi ha attorno di cultura riflessa! E poi… ammettiamolo pure: di filosofia le donne non capiscono niente, perciò non corro il rischio di sentirmi fare domande a cui non saprei rispondere. Ma ci pensa a come ci resterei se una di loro volesse mettersi a disquisire di Kant o Schopenhauer? Riesce anche solo a immaginare l’imbarazzo?»
John sbottò a ridere. «Sì, sto vedendo la scena!» ammise. «Quindi questa sua versione di sé punta sul tipo intellettuale.»
«Meglio dire sulla donna dalle elevate… aspirazioni! In giro ce ne sono tantissime. Non immagina quante.»
«Capisco! Mentre il suo alter ego dal cognome Greco?»
«Be’, c’è sempre quella che si sente attratta dagli uomini del Sud. Vede, secondo il sentire comune danno garanzia di essere ottimi padri e perfetti mariti.»
«Oddio!» esclamò John. «Ma questi sono solo un mucchio di stupidi stereotipi.»
«Certo che lo sono, ma le assicuro che funzionano alla grande e poi io mica devo sposarmele.»
«Già, è vero, ma mi lasci indovinare il significato del suo terzo alter ego: il signor Molnar.»
E siccome il cronista pareva non decidersi a parlare: «Quello è per le donne che hanno il debole per l’esotico» spiegò lo sconosciuto. «Molnar è un cognome ungherese. Suona bene pronunciarlo. Coraggio, lo faccia!»
«Molnar» obbedì John, annuendo.
«Molnar!» ripeté anche l’altro. «Molto fonetico, direi addirittura suggestivo e decisamente meno banale di Ivanov o Kowalsky, non le pare?»
«Sì, lo ammetto… Molnar richiama le pianure ungheresi.»
«Sterminate! Le sterminate pianure ungheresi. Con una donna non si dimentichi di usare aggettivi in abbondanza! E richiama anche i violini zigani!»
John si mise a ridere, poi però si rifece serio e: «Ma come fa a riconoscerle?» chiese, sinceramente interessato.
L’uomo spalancò la bocca. «Ma sta mica scherzando!» esclamò. «Riconoscere gli archetipi è la cosa più facile di questa terra. È una cosa intuitiva e meccanica esattamente com’è respirare. Basta osservare con attenzione cosa indossano, come si muovono, il modo in cui camminano, accavallano le gambe… come guardano.»
«Io sarei un disastro.»
«Non si sottovaluti. Ma davvero non ci ha mai provato?»
«Mai!» si schermì John, sempre più conquistato dalla verve del compagno.
«E allora ci provi. La prima volta che le capiterà di sedersi in un caffè alla moda, cominci a osservarsi intorno e vedrà che in meno di cinque minuti avrà trovato almeno cinque filosofe e altrettante casalinghe. La donna esotica è meno evidente, ma ugualmente riconoscibile.»
Il cronista promise che avrebbe seguito il consiglio, poi, giocherellando con i biglietti da visita che aveva ancora davanti: «Mi tolga una curiosità» disse. «Tutto questo non è faticoso? Non penso sia facile essere tre persone diverse.»
«Invece è facilissimo… addirittura piacevole. Chi almeno una volta nella vita non ha desiderato essere qualcun altro!»
«Io, per esempio» ammise John con una certa riluttanza.
«Male, ragazzo mio, desiderare di essere diversi da quello che siamo non vuol dire sminuirsi o dubitare delle nostre capacità, ma essere disposti a perlustrare vie nuove e sentieri mai battuti. Ma davvero non le viene in mente nessuno cui avrebbe voluto o vorrebbe assomigliare?»
John scosse la testa.
«E questo per smisurata autostima o banale pigrizia?»
«Ora tiriamo in ballo anche Freud, oltre a Kant e Schopenhauer?»
«Lei cosa dice?»
«Dico che nessuno può sfuggire a se stesso e che perciò è perfettamente inutile immaginarsi realtà diverse da quelle che stiamo vivendo.»
«O siamo costretti a vivere.»
«Il risultato non cambia.»
«È vero, il risultato non cambia. Forse ha ragione lei: sarebbe fatica sprecata… O no?»
John non riusciva a decidersi se quello strano tipo gli piacesse o meno, tuttavia un risultato l’aveva ottenuto perché adesso si sentiva molto meglio di quando era entrato e solo casualmente guardò l’ora.
«È tardi» esclamò «e domani ho una giornata pesante. Mi ha fatto piacere parlare con lei, ma adesso devo andare.»
«Chissà che un giorno o l’altro non ci si riveda. In fondo la nostra è una piccola città.»
«Chissà» rispose John e, dopo aver pagato il conto, uscì dal locale, dirigendosi in fretta alla fermata d’autobus, con la speranza che l’ultimo non fosse già passato.