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2011 Words
2 Il mattino dopo la sveglia suona puntuale. Sette e trenta, che per una scansafatiche cronica come me è come dire alzarsi all’alba. Specie quando sei stata in piedi tutta la notte per colpa di una zia eccentrica che prepara una sorta di cenone di Natale con tre mesi di anticipo. Premo il cuscino sulla testa e brontolo qualcosa di incom­prensibile. Il mio stomaco è un blocco di cemento. Stanotte non sono riuscita a chiudere occhio. Ripensavo al pubblico in delirio, alle luci e alla musica che mi rimbombava nel petto. Mentre mi rigiravo invano sotto le coperte, sentivo ancora l’adrenalina scorrermi nelle vene, come se fossi lì sul palco e dovessi rivivere quel momento all’infinito. È stato incredibile. Tenevo il microfono così stretto che le dita mi formicolava­no. Mi sono abbandonata ai giri di basso, alle svirgolate di chi­tarra elettrica e ho tirato fuori una voce che ha lasciato tutti a bocca aperta, inclusi i miei amici. Inclusa me. Certo, ora ho la testa che mi scoppia, la schiena a pezzi e i muscoli indolenziti, ma sono pronta a ripetere l’esperienza cento, mille volte ancora. Assesto una bella manata alla sveglia ed è il silenzio più totale. Ah, un po’ di pace. Non passa nemmeno un minuto, però, che attacca il cellulare. «Cristo…» Con la mia famiglia andavamo spesso in chiesa, recitavamo la preghiera di ringraziamento ogni giorno prima di metterci a tavola e prima di andare a dormire, e credevamo a quella roba sugli angeli custodi, il Paradiso e l’Inferno. Poi ho capito che Dio agisce secondo meccanismi troppo complicati perché possa accettarne tutti gli effetti indesiderati. Perciò adesso posso nominarlo quante volte mi pare. Allungo la mano verso il comodino e afferro lo smartphone. Sbatto le palpebre. La notifica di un nuovo messaggio lampeg­gia al centro dello schermo. Le viscere mi si attorcigliano per il nervoso. È di Vittorio. Leggo: Sono stato uno stronzo ieri sera, ti chiedo scusa. Senza di te non so come faremo. Ammirevole lo sforzo, ma non è sufficiente per ottenere il mio perdono. Digito una risposta veloce – Io invece senza di te starei benissimo! – e scendo dal letto. Devo appoggiarmi alla parete per non finire faccia a terra. Mi porto una mano alla testa e chiudo gli occhi. Un’altra volta mi sono sentita così ed è stato il giorno dopo essermi scolata cinque bicchierini di vodka alla frutta per dimostrare a Matteo che reggevo l’alcol alla grande. È quello che succede quando hai degli amici senza cervello che, tuttavia, non cambieresti con nessun altro al mondo: ti trasformi in una perfetta idiota. Inspiro lentamente e concentro i pensieri altrove. Dunque, facciamo il punto della situazione: ho mezz’ora di tempo per prepararmi, fare colazione, prendere l’autobus e arri­vare a scuola. In poche parole, mi beccherò l’ennesima nota di­sciplinare per essere entrata in ritardo. Be’, che me la mettano pure, tanto non servirà a niente. C’è chi nasce con una predisposizione allo studio e chi con l’amore per la musica. Fa parte del processo di selezione naturale della specie, non l’ho mica inventato io. Il bagno disterà a malapena dieci metri dal comodino ma per le mie gambe diventano dieci chilometri. Quando mi guardo allo specchio per poco non lancio un urlo. Il mascara è colato sulle guance. I capelli, poi, sono un intrico di nodi e mi accorgo con raccapriccio che alla radice sono comparse tracce del mio colore naturale. Uscita da scuola dovrò comprare una confezio­ne di tintura nuova. Mi sciacquo il viso e ci spalmo un po’ di quella crema alle alghe che zia Rebecca usa per tonificare la pelle. Non che faccia del mio aspetto una ragione di vita, però mi piace mette­re in risalto i miei punti forti. Tipo il lieve pallore bianco-luna che evidenzia i miei grandi occhi azzurro ghiaccio. O le ciglia lunghe e voluminose che mi tornano utili quando devo compra­re il silenzio di un compagno o intenerire il cuore di un profes­sore. Anche le labbra non sono niente male, morbide e sedu­centi. Ci spennello un po’ di rossetto nero, il mio preferito, e aggiungo una punta di gloss per renderle lucide. Il mio è un beauty case monocromatico. Le tonalità pastello da bambola di porcellana non fanno per me, anche se zia Re­becca si ostina ad affermare il contrario. Forse nella mia vita precedente, ma ora che sono un’anima sola e dannata… proprio no. Rovisto nei cassetti dell’armadio alla ricerca di una felpa de­cente da indossare. Scelgo quella con il disegno di un coniglio mannaro sulla schiena e ci abbino un paio di jeans a sigaretta color grigio topo. Per completare, un bel collarino borchiato e i guanti senza dita. Sulla scrivania ci sono ancora il quaderno di biologia aperto a una pagina di esercizi che avrei dovuto risolvere e il libro di teoria. Li ficco nel borsone insieme all’astuccio e al diario tutto scassato. Sono sicura che la professoressa Sasso, la nostra insegnante di Scienze, chiamerà me per l’interrogazione. Ci gode un sacco a umiliarmi davanti alla classe. È un animale a sangue freddo, come i serpenti. Ti striscia alle spalle e sferra il suo attacco quando meno te lo aspetti. Una strega bastarda. Volo in cucina e metto a riscaldare un pentolino di latte. Riempio una scodella di cereali al miele e taglio anche una fetta della torta che è rimasta ieri sera. Pare impossibile ma l’appetito in pochi minuti mi è già tornato. La zia ha appiccicato un post-it sull’anta del frigorifero. Lavora come infermiera al Policlinico Gemelli, perciò i suoi turni non hanno mai orari fissi né tanto meno umani. Leggo: Torno alle otto, ti ho lasciato le lasagne in forno. Se chiama Lorella, dille che ho segnato l’appuntamento per domani po­meriggio alle sei. Voleva una conferma. Ti voglio bene, super­star. Zia Becky. Lorella è una delle amiche di zia Rebecca. So che frequenta­no insieme il corso di salsa ma per il resto non mi intrometto, come lei, dopotutto, non ficca il naso nei miei affari. O almeno ci prova. Mi sfugge uno sbuffo sconsolato. Dopo la scuola passerò anche da McDonald’s per ordinare un menù da portare via, perché le lasagne saranno anche il piatto forte della cucina ita­liana, ma non entreranno mai nella mia wishing list dei cibi. Mando giù il bicchiere di latte, finisco la torta e pulisco la scodella dei cereali. Afferro le chiavi di casa dalla coppa che è sul tavolo e vado in salotto. Mi sa che il tempo non è migliora­to durante la notte. Do una sbirciatina dalla finestra accanto alla porta. Il vento fischia contro il vetro e sul patio turbinano mulinelli di foglie secche e aghi di pino. Come immaginavo. Lancio un’occhiata all’orologio dentro il ventre di una scul­tura africana (quando la zia era giovane, ha viaggiato in lungo e in largo e ha tappezzato la casa di suppellettili; nella maggior parte dei casi non si tratta di cose banali ma pezzi unici e affa­scinanti, inquietanti talvolta, ma sempre ricercati). Le otto e cinque. Congratulazioni, Suzie, hai battuto l’ennesimo record. Infilo il giubbotto di pelle alla velocità della luce e sistemo la tracolla del borsone sulla spalla. Faccio uscire il cappuccio della felpa sopra il colletto e me lo abbasso sulla testa. Prepariamoci ad affrontare un’altra giornata all’Inferno. * * * La mia scuola è sulla Cassia, a nord di Roma, non lontano da casa; segue il modello delle high school americane. Ce ne sono parecchie in Italia, aiutano i ragazzi che si sono trasferiti dall’estero a integrarsi e a seguire un percorso di studi speciale. Salgo sull’autobus e mi siedo al primo posto libero, accanto a una vecchietta con una busta della spesa e un berretto di lana in testa. Sento il suo sguardo addosso ma faccio finta di niente. Le nonnine sono innocue, cercano solo di capire chi sei. Infilo le cuffie del lettore Mp3 nelle orecchie e divento invisibile. Mi rintano nel mio mondo, con i The Script che si chiedono se mai tornerò. La nostra giornata scolastica tipo è più o meno la seguente: dalle otto alle dieci abbiamo la prima lezione, alle dieci c’è l’intervallo, dalle dieci e un quarto alle dodici si ritorna in classe per dei laboratori pratici che possono andare dalla bota­nica alla chimica applicata e infine dall’una alle tre le ultime ore di tortura. In realtà, si potrebbe rimanere per le attività ex­tracurricolari, tipo entrare a far parte della squadra di pallaca­nestro, in quella di calcio femminile o, cosa assai più orripilan­te, nel gruppo delle cheerleader, ma per quanto mi riguarda prima evado e meglio è. L’autobus frena davanti all’ennesimo semaforo rosso. La vecchietta tira fuori dalla tasca dell’impermeabile un fazzoletto di stoffa tutto stropicciato e si soffia il naso. Mi concentro sui Feeder che mi domandano se ho intenzione di fuggire da questa città. Trovo che Borders, il loro ultimo singolo, sia fenomena­le. Non ho molti amici a scuola ed è una mia scelta. Zia Rebecca, a volte, ha paura che non sia abbastanza felice, ma io la rassicuro dicendole che preferisco di gran lunga la so­litudine piuttosto che essere circondata da ragazzine viziate e fissate con lo shopping che passano tutto il giorno a spettegola­re. Okay, magari non proprio tutto il giorno, ma quasi. Le porte si aprono con uno sbuffo, devo scendere. Riconosco alcuni studenti della mia scuola, ridono come degli imbecilli gesticolando in direzione della donna che gli sta davanti. È girata di spalle, ma ha delle tette talmente grandi che è impossibile non buttarci l’occhio. Anche perché, cavolo, è vestita in un modo… Niente cappotto, bensì un leggero spolve­rino lasciato aperto che mostra due seni (rifatti, ci scommetto) coperti, per così dire, da un dolcevita trasparente. Per non par­lare del trucco. Moira Orfei sarebbe acqua e sapone al confron­to. Provo pena per loro e imbarazzo per lei. Esistono gli spec­chi, dannazione, qualcuno dovrebbe farglielo presente. Atterro sul marciapiede e percorro il viale alberato che porta alla scuola. Le palazzine del campus sono nascoste da una fila di platani imponenti i cui rami, visti dal basso, sembrano raggiungere il cielo. L’American Overseas School è una sorta di piccolo vil­laggio a sé, attrezzato di campi da calcio, biblioteche, una pale­stra enorme, laboratori e persino una caffetteria. Gli edifici sono raggruppati in base ai cicli di studio: scuole elementari, medie e superiori. Per certi versi è un istituto che funziona, ma per altri preferi­rei frequentare un normalissimo liceo. Oltrepasso la sbarra elettrica che dà l’accesso al campus ed è come tornare a casa. Si respira un’aria diversa qui: è un angolo d’America immerso in una bolla di verde lontano anni luce dal caos di Roma. Saluto con un cenno della testa un gruppo di studenti seduti sui gradini del portico che, chitarra in mano, intonano una ver­sione country di What a Wonderful World. Sembrano tutti il ri­tratto della felicità. Occhi limpidi, sorriso sulle labbra, capelli tirati. Invulnerabili. Rispondono con un sorriso e qualche alzata di mano, niente più. Conoscono le regole: con me la comunica­zione non va oltre il ciao. E non perché abbia rancore nei loro confronti, non per invidia o gelosia, ma semplicemente perché non potremmo mai combaciare. Il loro mondo è troppo distante dal mio e se per caso dovessero scontrarsi, be’, immagino che scoppierebbe l’apocalisse. Perciò restiamo in territorio neutrale e ci lasciamo in pace a vicenda. Mi tolgo le cuffie, spingo la porta ed entro. Il professor Bevilacqua sta sfogliando le pagine di un giorna­le appoggiato al termosifone. Insegna Storia dell’Arte, l’unica materia che riesce a tenermi sveglia. Non solo, è anche l’unico docente con cui riesco a parlare senza dover tirare fuori il peggio di me. «’Giorno prof.» Lui alza gli occhi e mi sorride, mentre le punte dei baffi ri­torti all’insù gli sfiorano le palpebre. È una specie di mito qui, persino il preside è un suo grande ammiratore. Richiude il gior­nale. «’Giorno Moore. Sa… circolavano voci poco fa.» «Tipo?» «Voci…» Finge di rifletterci. «Tipo che abbiamo portato a casa un secondo posto, ieri sera.» Oddio, no. Non ci credo. Già lo sa tutta la scuola! Alzo gli occhi al cielo. «Allora, è vero?» fa lui. Sorride ancora. La porta si spalanca e i ragazzi che erano fuori si riversano nei corridoi, diretti agli armadietti. Scrollo le spalle. «Potrebbe. E comunque, come dice lei, è solo un secondo posto.» Scommetto di sapere chi è stato a spifferare tutto. Giuro che non gliela farò passare liscia. Non questa volta. «Figliola, su, un po’ di ottimismo», ribatte, allargando le braccia. Mi sfiora appena la spalla con una mano. «Si ricorda cosa le ho detto l’ultima volta?» «Che devo esercitarmi a guardare il lato positivo delle cose, anche di fronte a un’opera che mi sembra una colossale schi­fezza», recito automaticamente. «Esatto. Applichi lo stesso principio a quello che le è succes­so ieri e vedrà che le si allargheranno le prospettive.»
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